Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Obama, il Medio Oriente, la lotta al terrorismo, l'antiamericanismo le analisi di Fiamma Nirenstein, Dimitri Buffa, Angelo Panebianco, Paul Berman
Testata:Panorama - L'Opinione - Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Dimitri Buffa - Alessandra Farkas - la redazione Titolo: «Alla prova del Medio Oriente - L’Islam è in festa mentre Israele teme per il dossier Iran - «La crisi? Subito un asse anti-petrolio con la Cina» - Il patto di collaborazione tra Petraeus e il democratico»
Tra i diversi articoli dedicati alla vittoria elettorale di Barack Obama, ne scegliamo alcuni che mettono a fuoco il nodo della futura politica estera mediorentale del presidente democratico.
Da PANORAMA, l'analisi di Fiamma Nirenstein, che esprime una preoccupazione condivisibile :
"Probabilmente gli sfugge ciò che non sfuggiva a Jon McCain: che la ragione sociale dell’integralismo islamico è la vittoria".
Ecco il testo:
Non c’è zona del mondo più direttamente investita del Medio Orinte dalla svolta che Barack Obama potrebbe portare: qui, un cambiamento della politica degli Stati Uniti potrebbe implicare anzitutto un cambiamento dell’intimo rapporto fra i popoli e i governi di Israele e degli Usa. Il mondo arabo spera che venga a cadere il sentimento di un indispensabile Israele, unico paese democratico, paese modello dell’area, promosso a bandiera e baluardo degli Usa nella sua criticatissima guerra al terrorismo. George W. Bush ha promosso l’affermazione americana del diritto alla difesa di Israele al tempo dell’intifada. Gli Stati Uniti hanno anche rovesciato l’idea che il teorema “land for peace”, terra in cambio di pace, significhi rinuncia territoriale con conseguente impegno palestinese; visti i risultati dello sgombero da Gaza, hanno stabilito che ritirarsi per Israele non significa pace e sicurezza, ma che per arrivarci occorre una “road map” come quella di Annapolis. Obama potrebbe tornare ad Annapolis, e si sta che il segretario di Stato Condoleezza Rice ha già cercato di convincerlo, ma Obama ha una linea politica internazionale che anzitutto vorrà porsi in antagonismo con quella di Bush. Potrebbe essere, dato che l’Afghanistan e l’Iraq non sonoterreni su cui si possano fare passi avventati, l’apertura di un tavolo di discussione con un Iran solo avido di guadagnare tempo per le sue strutture atomiche in costruzione. Inoltre Obama, che non ha speso molte parole sul rischio terroristico, potrebbe spingere Israele a concessioni territoriali senza contropartita, a rimettere in primo piano la questione dei check point e degli insediamenti. Obama potrebbe puntare il suo rinnovamento sull’esaltazione del dialogo senza confini, consentendo così a interlocutori senza scrupoli di avvantaggiarsene ai danni di Israele e del mondo occidentale. Due uomini di punta della politica estera di Obama, probabilmente destinati a ruoli governativi, hanno fatto visita nei giorni scorsi a Khaled Meshal, il capo di Hamas. E sembra che già Obama spinga anche i negoziati di Israele con la Siria. Obama, per inesperienza o per impostazione politica, ritiene che dialoghi pieni di buone intenzioni possano ricomporre la pace. Sembra convinto che offrire condizioni favorevoli all’interlocutore, a uno a uno, sia la chiave per una nuova prospettiva di pace e per una nuova, amabile immagine degli Usa nel mondo. Probabilmente gli sfugge ciò che non sfuggiva a Jon McCain: che la ragione sociale dell’integralismo islamico è la vittoria.
Da L'OPINIONE, l'analisi di Dimitri Buffa sulle reazioni nel mondo arabo-islamico edegli israeliani all'elezione di Obama:
Festeggiano più nel mondo arabo-islamico che in quello israeliano per l’elezione di Barack Hussein Obama alla Casa Bianca. Forse il motivo sta proprio in quel nome Hussein, indizio certo di un’educazione musulmana primaria. Forse perché in fondo i governanti dei Paesi in questione, pur essendo nella maggior parte dei casi dei dittatori sanguinari, conservano sempre una buona dose di infantilismo politico. Comunque questa era la cifra ieri delle inevitabili reazioni dallo scacchiere mediorientale. E sebbene il 78% dei votanti ebrei d’America, pari a circa il 2% di tutta la popolazione, secondo le statistiche, avrebbe scelto proprio Barack Obama, contro un 22% che invece ha preferito affidarsi a John McCain, dallo Stato di Israele sono arrivati ieri i primi “warning” al futuro presidente degli Stati Uniti d’America. Israele infatti sarebbe proccupato per il “dossier Iran” dopo l’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, anche se l’establishment dello Stato ebraico ritiene che non vi saranno cambiamenti significativi nei rapporti bilaterali con Washington. Tutto ciò lo scrive oggi il quotidiano Haaretz, notoriamente e fortemente vicino alla sinistra e a Tzipi Livni. Il governo israeliano teme che l’amministrazione Obama adotti “una linea più morbida” verso Teheran, dato che il presidente eletto aveva detto in campagna elettorale di essere pronto al dialogo con il regime iraniano. Vi è anche preoccupazione per un possibile dialogo senza precondizioni e infine si teme pure, prosegue il giornale, che il presidente uscente George Bush apra una “sezione d’interessi” a Teheran negli ultimi due mesi del suo mandato, come si sta discutendo da tempo.
Nelle ultime settimane Israele ha inviato diversi messaggi agli Stati Uniti esprimendo obiezioni contro questo passo. Se Israele manifesta così le proprie perplessità, dal mondo arabo-islamico, invece, si mischano gli entusiasmi di chi, come i governanti iracheni e le forze di opposizione auspicano, un pronto ritiro dei marines americani e le blande minacce di chi come Hamas ammonisce Obama a “non fare come Bush”. “Noi non facciamo distinzioni tra il programma politico di Obama e McCain, anche se sin dall’inizio abbiamo apprezzato di più quello di Obama, soprattutto nel modo con il quale si confronta con la guerra tra arabi e israeliani – spiega Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas - per questo invito il nuovo presidente a cambiare la politica estera del suo paese nei confronti della questione palestinese e a mutare il modo in cui l’America parteggia apertamente per Israele”. Ha detto la sua anche Saeb Erekat, eterno mediatore palestinese di una pace che non si è mai profilata all’orizzonte, e lo ha fatto chiedendo a Obama di fare “che il concetto dei due popoli per due Stati diventi realtà”. La Tv satellitare “al Arabiya” ha anche sentito l’uomo della strada iracheno che si dichiara convinto che “adesso i soldati yankee se ne andranno via prima”, ma senza nutrire particolari illusioni su reali cambiamenti della politica estera americana. Chi invece non fa mancare il proprio imbarazzante supporto a Obama sono proprio i leader dell’Islam più estremistico, presenti in questi giorni in Indonesia. Ad esempio Lubis, segretario generale del Front Pambela Islam (FPI), organizzazione islamica anti-Usa che ha fatto spesso ricorso a metodi violenti, spiega all’Adn kronos international (Aki) di aver “pregato Allah per la vittoria di Obama”. E aggiunge che “questo risultato è ciò che noi tutti volevamo e ora speriamo che aiuti a ristabilire la pace nel mondo”. Sperando che questo non si risolva con “più terrorismo per tutti”.
Dal CORRIERE della SERA, riportiamo un articolodi Angelo Panebianco che tocca un altro tema: quello dell'antiameicanismo. "Finita la luna di miele" con Obama, scrive Panebianco "quelli che detestavano l'America ricominceranno a detestarla e quelli che l'amavano continueranno a farlo. Per le stesse ragioni". Tra queste ragioni, quelle stesse caratteristiche di apertura, di competitività e individualismo della società americana che hanno reso possibile l'ascesa di Barack Obama.
Ecco il testo:
Nessuno oggi può sapere che cosa farà il nuovo presidente, che cosa diventeranno gli Stati Uniti nell'era di Barack Obama. Ma tutti, persino i tanti nemici dell'America sparsi per il mondo, sono costretti a riconoscere che la democrazia americana continua ancora oggi a disporre di doti che nessun'altra comunità politica possiede. «Se qualcuno pensava che l'America non fosse il Paese ove tutto è possibile...». Le parole con cui Obama ha iniziato il suo patriottico discorso di ringraziamento alla nazione che lo aveva appena eletto rendono perfettamente il senso di ciò che è accaduto. Un giovane senatore afro-americano, di poca esperienza politica, con un passato di simpatie radicali e un background da outsider si è dapprima imposto contro un establishment democratico che gli era ostile, sconfiggendo alle primarie un cavallo di razza come Hillary Clinton, e ha poi conquistato la Casa Bianca contro un avversario di grande valore come John McCain (il cui spessore politico e la cui tempra morale, per inciso, tutti, anche quelli che gli erano ostili, hanno potuto misurare ascoltando il bellissimo discorso con cui ha riconosciuto la vittoria di Obama, e ha invitato i repubblicani a stringersi intorno al nuovo presidente). È vero in generale che in tempi di crisi le personalità carismatiche hanno più probabilità di affermarsi. E, senza dubbio, la gravissima crisi finanziaria, con i suoi pesantissimi effetti sull'economia americana, ha favorito l'outsider Obama. Il successo del suo stile profetico e l'entusiasmo che ha suscitato in una parte così ampia degli Stati Uniti non sarebbero stati possibili senza il senso di smarrimento e la paura per il futuro che attanagliavano la società americana già prima che (sono passate solo poche settimane) la crisi rivelasse tutta la sua gravità con i fallimenti bancari e il crollo di Wall Street. E, tuttavia, questo risultato non sarebbe stato comunque possibile se l'America non fosse ancora, nonostante tutte le sue trasformazioni, ciò che i suoi Padri Fondatori vollero che fosse: una società aperta e libera e una democrazia autentica le cui istituzioni non hanno subito l'usura del tempo e nella quale è sempre possibile per gli outsider di valore farsi strada ed affermarsi. Centocinquant'anni dopo l'abolizione della schiavitù, cinquant'anni dopo la fine della segregazione razziale, un nero arriva alla Casa Bianca e sana così la frattura più grave, in passato sempre giudicata da tutti insuperabile, della storia degli Stati Uniti, quella che appariva come la principale macchia, il difetto peggiore, della democrazia americana. Almeno per ora il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito. È sperabile che una ricaduta della vittoria di Obama consista, per lo meno in questa Europa che ha così tanto mostrato di apprezzare il neo-eletto presidente, in una maggiore disponibilità da parte di molti (per esempio, da parte di quei tanti intellettuali che l'America l'hanno sempre detestata senza comprenderla) a sforzarsi di capire qualcosa di più della società americana, della sua storia, della sua cultura politica, delle sue istituzioni. Un compito difficile, impegnativo, dal momento che per tanti europei l'America, con la sua storia diversissima dalla nostra, è sempre stata un enigma. Detestabile proprio perché incomprensibile. Detestabile per quel suo impasto di patriottismo e di religiosità così lontani dalla sensibilità di molti europei. Detestabile per il suo individualismo. Detestabile per la sua disponibilità a tollerare livelli di disuguaglianza economica e sociale superiori a quelli tollerati in Europa. E detestabile anche per ciò che di quella disuguaglianza è sempre stata la contropartita: la mobilità e il dinamismo, alimentati dalla fiducia, propria di una società individualista, che a ciascuno sia possibile, almeno in linea di principio, innalzarsi contando sulle proprie forze e capacità anziché sulla protezione dello Stato. Le anchilosate, oligarchiche e demograficamente invecchiate società europee applaudono Obama ma in quell'applauso si nasconde un paradosso. Poiché la vittoria di Obama (ma anche la corsa del suo avversario McCain) mette in risalto ciò che rende l'America irrimediabilmente diversa dall'Europa. Perché nelle chiuse società politiche europee un Obama o un McCain (anche lui un outsider nella sua parte politica) non avrebbe nessuna chance. Il neo-presidente dovrà fronteggiare immani problemi. Dovrà aiutare l'America a uscire dalla crisi, dovrà imparare a muoversi in un mondo ormai multipolare e dovrà contemporaneamente cercare di contrastare (in Iraq, in Afghanistan e in altri luoghi) potenti forze destabilizzatrici. La «Repubblica imperiale» americana acquisterà certamente, con Obama, un nuovo stile. Ma i segni del passato saranno comunque visibili. Forse Obama ripercorrerà, in condizioni mutate, le orme di Franklin Delano Roosevelt (il presidente del New Deal), forse si ispirerà anche ad altri presidenti democratici, come Woodrow Wilson, con il suo idealismo internazionalista, o forse sceglierà non l'isolazionismo (oggi impossibile) ma un parziale ripiegamento, di tipo jeffersoniano, una parziale e selettiva riduzione dell'impegno americano nel mondo. Non lo sappiamo ancora. Sappiamo però che, quali che saranno le virtù e gli errori della nuova Amministrazione, di sicuro non ci saranno rotture radicali, non ci sarà alcun congedo dalla tradizione americana. Finita la luna di miele, quelli che detestavano l'America ricominceranno a detestarla e quelli che l'amavano continueranno a farlo. Per le stesse ragioni.
Sempre dal CORRIERE, un'intervista di Alessandra Farkas a Paul Berman, che tocca anche i temi della politca mediorentale:
NEW YORK — «Obama ha una tale stoffa da trascinante oratore che, volendo, potrebbe essere un pericoloso demagogo. Nel suo discorso della vittoria, martedì sera, il neoeletto presidente ha dimostrato, al contrario, di voler volare alto». Paul Berman, il saggista, docente universitario e autore di "Terrore e Liberalismo" e "Sessantotto" giudica «perfetto» l'esordio di Obama. «La sua arringa a Chicago era deliberatamente strutturata per eccitare con moderazione, mantenendo un tono sobrio, intelligente e profondo. Insomma: ha iniziato sulla nota giusta. Geniale anche il suo citare Abramo Lincoln, il senatore dell'Illinois come lui, che guidò il Paese durante la Guerra Civile del 1861, emancipando gli schiavi». Qual è il significato di questa vittoria? «È un evento di portata monumentale che può essere compreso solo in rapporto alle altre pietre miliari della nostra storia: la rivoluzione americana, la nascita della costituzione americana, la Guerra Civile». Cosa intende dire? «Che l'America è stata fondata su gigantesche e tragiche contraddizioni. Nasce come la prima grande democrazia e rifugio per uomini liberi al mondo mentre, sin dagli albori, è maledetta dalla schiavitù e dal razzismo». A cosa possiamo paragonare queste elezioni? «Alla vittoria di Andrew Jackson, che nel 1828 fu il primo plebeo a insediarsi alla Casa Bianca, inaugurando la democrazia delle masse. Tutti i suoi predecessori furono aristocratici con una posizione privilegiata nella società e infatti la sua effige decora la banconota da 20 dollari». Alcuni tracciano il parallelo con l'elezione di JFK. «Eleggere il primo cattolico è stata una tappa importante ma nessun gruppo, tranne forse i Nativi Americani, sono stati oppressi quanto i neri». È sorpreso che non vi sia mai stato un presidente ebreo? «Gli ebrei non hanno sofferto poi così tanto in America e la loro esperienza di persecuzione nel nuovo Continente non è certo paragonabile a quella dei neri. E comunque nel 2000 l'America aveva eletto un ebreo nelle presidenziali rubate da Bush: Joe Lieberman, il vice di Al Gore». È vero che l'America tornerà ad essere amata nel mondo? «Gli europei occidentali commettono spesso l'errore di pensare che le loro opinioni sono condivise dall'intero pianeta, dimenticando che George W. Bush è ammirato in Africa e Est Europa. Per quanto riguarda Obama penso che cambierà soprattutto l'immagine che l'America ha di sé stessa, perché ha dimostrato che i valori americani di opportunità e giustizia sono vivi e veri». Quali saranno per Obama le sfide future più pressanti? «Il suo talento oratorio del tutto assente in Bush l'aiuterà ad essere enormemente popolare all'estero. Ma dopo la luna di miele bisognerà vedere cosa farà in concreto per risolvere la crisi finanziaria che, alla fine, l'ha aiutato a diventare presidente». «Per risolvere la crisi finanziaria dovrà spostare l'asse dell'economia americana dalla dipendenza al petrolio verso forme energetiche alternative. Ciò gli consentirà anche di affrontare l'emergenza della Sicurezza Nazionale che emana dai paesi produttori di petrolio. La politica estera e quella economica saranno indistinguibili». Le sue previsioni per le guerre in Iraq e Afghanistan? «Purtroppo non finiranno con Obama che, come molti presidenti, non potrà mantenere le promesse elettorali. Retoricamente si dirà che la guerra è finita ma di fatto le truppe Usa resteranno nella regione». Quali altre promesse elettorali non potrà mantenere? «Dubito che la crisi gli permetterà di realizzare gli ambiziosi programmi sociali, educativi e sanitari. Tassare i ricchi? Neppure lui sa bene cosa e come fare con quella promessa elettorale». Assisteremo ad una nuova fase di rapporti con l'Iran? «Lo sforzo per ristabilire contatti diplomatici fallirà subito, finendo per essere solo un escamotage retorico da parte di Obama. Che dovrà fare qualcosa di drammatico per fermare la proliferazione nucleare di Ahmadinejad». E i rapporti con la Cina? «La vera sfida sarà coinvolgere il gigante asiatico nell'imminente rivoluzione anti-petrolio, costruendo nuove autorità regolatorie mondiali che includano la Cina invece di escluderla. Il pericolo è che Pechino costruisca un sistema economico rivale e alternativo basato sul petrolio che porterebbe a tensioni molto pericolose». Obama potrebbe far cadere l'embargo contro Cuba? «Obama deve solo gestire l'attuale transizione, dalla dittatura dei fratelli Castro a ciò che verrà dopo. Il tutto nell'ambito di una strategia più ampia che deve includere Hugo Chavez, riallacciandosi alla nuova politica energetica che riduca il potere dei paesi produttori di petrolio: Iran, Arabia Saudita, Russia e Venezuela». E il futuro dei rapporti bilaterali Italia- Usa? «Miglioreranno perché Obama sarà molto più capace di farsi ascoltare e rispettare dagli italiani. Purtroppo anche lui, come Bush, non ha viaggiato molto e non porta grande esperienza in politica estera alla Casa Bianca». Si farà aiutare da Joe Biden? «La diplomazia di Obama sarà quella del "buon poliziotto-cattivo poliziotto". Lui sarà il leader amato e popolare nel mondo che di fronte alle gatte da pelare spedirà Biden. Un mastino così difficile e ostico che le capitali estere concederanno qualsiasi cosa ad Obama pur di non dover trattare direttamente col suo vice».
Infine, l'analisi del FOGLIO sulla strategia della guerra in Afghanistan e sul futuro rapporto Obama-Petraeus:
Quando il luglio scorso il generale David Petraeus e il candidato presidente Barack Obama si sono incontrati nel torrido di Baghdad – finalmente senza più obbligo di giubbotto antiproiettile – c’è stato un chiarimento preliminare e rispettosissimo di ruoli, come riferito da Joe Klein su Time magazine. “Il tuo lavoro è vincere in Iraq alle migliori condizioni che riusciamo a ottenere e se io fossi al tuo posto chiederei le cose che chiedi tu, più tempo e più flessibilità – ha detto Obama – ma il mio lavoro come potenziale commander in chief è vedere i tuoi consigli e le tue ragioni attraverso il prisma più ampio della nostra sicurezza nazionale”. Sono passati tre mesi e mezzo. Due giorni fa Obama è diventato presidente eletto degli Stati Uniti e prossimo comandante delle Forze armate americane. Sette giorni fa Petraeus ha cominciato ufficialmente la sua missione come capo di Us Centcom, il comando del Pentagono che governa sull’Asia, venti nazioni dall’Egitto alla Cina, e dirige le guerre in Afghanistan e in Iraq. E’ chiaro che tra i due uomini c’è già un accordo di collaborazione pronto. Secondo molti commentatori, il presidente nuovo non rinuncerà alla “squadra che vince” americana, anche se l’ha messa in campo il predecessore George W. Bush. Il segretario alla Difesa Robert Gates (che potrebbe essere riconfermato) e il suo uomo sul campo Petraeus hanno invertito il corso del conflitto in Iraq: l’ottobre appena finito è il mese con meno perdite dell’intera guerra da quando è cominciata nel marzo 2003. L’Amministrazione Obama ora si aspetta che facciano lo stesso con i talebani. Il generale ha subito creato un team di superconsulenti per rivedere tutta la strategia della guerra in Afghanistan. Il Joint Strategic Assessment Team deve completare il nuovo piano entro cento giorni, ovvero poco dopo il 20 gennaio, quando Obama si insedierà alla Casa Bianca. Il nuovo presidente si terrà il team già rodato che funziona, e quello gli farà trovare la revisione della strategia per il conflitto più caldo degli Stati Uniti già pronta sul tavolo della Sala Ovale alla Casa Bianca. La squadra comprende Shuja Nawaz, autore di un libro imprescindibile sul Pakistan (“Crossed swords: Pakistan, its Army, and the Wars Within”) e anche collaboratore del sito superobamiano Huffington Post (con Petraeus si incontra anche a cena), e Ahmed Rashid, analista pachistano che segue i talebani fin dalla loro comparsa e ha scritto il libro sul comodino del generale – “Descent into Chaos”. Della nuova strategia si conosce ancora poco. Ma sembra che Petraeus – che con i giornalisti ha tagliato corto sulle sue scelte politiche: “Non andrò a votare” – farà anche conto sull’effetto psicologico scatenato dall’elezione di Barack Obama, la rottura con il passato, l’allentarsi delle tensioni diplomatiche, le aspettative su cambiamenti nellapolitica estera americana. Il poco che si conosce lo si deve al Washington Post, che ha qualche dettaglio sul lavoro degli esperti. Hanno ricevuto l’ordine di concentrarsi soprattutto su due temi: riconciliazione con i talebani guidata dai rispettivi governi sia in Pakistan sia in Afghanistan e iniziative economiche con i paesi confinanti che possono influenzare l’andamento della guerra. Ma soprattutto lo si deve a Foreign Affairs. Sul numero di ottobre è uscito un lungo articolo scritto assieme da Ahmed Rashid, l’esperto pachistano assoldato dal Pentagono, e dal superobamiano Barnett Rubin, professore della New York University. Per ora è la spiegazione più dettagliata di come potrebbe essere la nuova strategia. “Gli Stati Uniti devono cercare di separare i movimenti islamisti che hanno obiettivi locali o nazionali da quelli, come al Qaida, che vogliono attaccare l’America – invece che buttarli tutti nello stesso cesto (…). Leader dei talebani e di altre parti della guerriglia si oppongono a molte delle politiche americane sul mondo musulmano, ma riconoscono che gli Stati Uniti e altri hanno il legittimo interesse a prevenire che il territorio dell’Afghanistan sia usato per lanciare attacchi contro di loro. Dichiarano di essere a favore di un governo afghano che garantisca che non succederà, in cambio del ritiro delle truppe straniere”. E anche – scrivono i due – in cambio della certezza di non finire a Guantanamo o nel carcere militare afghano di Bagram. Negoziati segreti fra talebani e governo sono stati ospitati a settembre dai sauditi. L’altro grande braccio della strategia sarà convincere i paesi vicini che la pace non danneggerà i loro interessi. Per esempio, convincere il Pakistan che il nuovo Afghanistan non sarà un partner servizievole del suo grande nemico storico, l’India. La nuova strategia non sarà necessariamente “di pace”: il nuovo presidente vuole aumentare i soldati in Afghanistan e si è dichiarato a favore di interventi militari dentro il Pakistan, anche senza il consenso di Islamabad. Il nuovo comandante Centcom l’ha preso in parola. Il numero dei raid americani con aerei e missili sul territorio pachistano è in aumento frenetico: sedici fino a settembre 2008, ma altri sedici soltanto in ottobre. “Certe volte – dice il generale Petraeus prendendo in giro una delle sue massime – le armi migliori sono quelle che non fanno bum. Ma spesso sono proprio quelle che fanno bum”. A Baghdad, dove non c’è più la guerra ma sono rimaste poche braci pericolose, il governo ha sospeso la definizione dell’accordo con Washington sulla permanenza dei soldati (il SOFA) in attesa delle elezioni. Il 31 dicembre scade il mandato dell’Onu, e senza quello per gli americani in teoria diverrà impossibile combattere legalmente. Ma la vittoria di Obama – il candidato che vuole disimpegnarsi dall’Iraq – ha comprato altro tempo per il contingente e per un accordo con il premier Nouri al Maliki.
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