Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Diritti umani negati, odio per l'America e bambini usati per la propaganda cronache dei regimi iraniano e siriamo
Testata:Corriere della Sera - Il Giornale Autore: Guido Olimpio - la redazione Titolo: «Esha arrestata a Teheran perché difendeva le donne - IRAN Proteste davanti all'ambasciata Usa - SIRIA Nuova stretta sugli intellettuali»
Dal CORRIERE della SERA del 14 ottobre 2008, un articolo di Guido Oilmpio sull'attivista iraniana per i diritti delle donne Esha Momeni, detenuta nel carcere di Evin:
WASHINGTON — Esha Momeni non ha mai invocato la lotta armata, né ha complottato per rovesciare i mullah iraniani. La sua unica battaglia è stata in difesa dei diritti alle donne. Una rivoluzione rosa che spaventa gli uomini in nero, gli ayatollah. Che per questo l'hanno fatta arrestare oltre due settimane fa, alla vigilia della sua partenza per gli Stati Uniti. Esha, 28 anni, cittadina americana e iraniana, è stata fermata per un «controllo stradale» a Teheran. Agenti in borghese l'hanno accusata di una «violazione del codice » e l'hanno poi portata alla famigerata sezione 209, il «braccio» nel carcere di Evin gestito dalla Vevak (polizia segreta). Da allora è in isolamento. Un arresto arbitrario che ha suscitato sdegno e spinto Amnesty International a lanciare un appello rivolto alla comunità internazionale forse un po' troppo distratta. Il profilo di Esha è diverso da quello di tanti iraniani che non condividono le scelte della Repubblica islamica. Il papà, Reza, sorpreso dalla rivoluzione del 1979 negli Usa (studiava in California), aveva deciso di tornare in patria l'anno seguente per mettersi al servizio del suo paese in guerra con l'Iraq. È così che Reza Momeni, pur possedendo la cittadinanza americana, ha partecipato a lavori di ricostruzione a Bandar Abbas e Busher. La figlia Esha, carattere sensibile, con grande passione per la musica e la poesia, si è sposata dopo la laurea. Ma, come ha raccontato il padre, il matrimonio è naufragato in quanto il genero era «un maschio sciovinista» con seri problemi psichici. Inevitabile il divorzio. Una «brutta esperienza» che non solo ha sconvolto la vita familiare di Esha ma l'ha spinta ad occuparsi in maniera più convinta dell'emancipazione femminile. La ragazza si è unita alla campagna «Cambio per l'uguaglianza» insieme a poche coraggiose decise a sovvertire tabù e tradizioni. Il loro obiettivo è quello di raccogliere un milione di firme per sostenere la svolta. Una lotta, condotta con l'appoggio di organizzazioni occidentali, che le autorità iraniane considerano alla stregua della sovversione. E per questo non è facile agire all'interno dei confini iraniani. Così due anni dopo — siamo nel 2005 — Esha ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove si è unita a un gruppo di professori e volontari scesi in campo anche loro per il «Cambio». Una scelta che ha accresciuto i sospetti di Teheran che ritengono gli attivisti il lungo braccio di operazioni che hanno come reale obiettivo il rovesciamento del regime islamico. Accuse politiche respinte dai familiari di Esha. Ad animarla, hanno ribattuto, è la difesa delle donne. Ed è per loro che la ragazza, due mesi fa, è rientrata in Iran armata di una videocamera per registrare delle interviste. Gli amici hanno cercato di dissuaderla mettendola in guardia sui pericoli che correva. Ma Esha è partita lo stesso per essere al fianco di altre iraniane poi finite nel mirino della sicurezza. Sussan Tahmasebi doveva lasciare il 28 ottobre l'Iran, ma le è stato confiscato il passaporto e la sua abitazione è stata perquisita. Parastoo Alahyaari, che aveva organizzato alcune manifestazioni pacifiche, è stata convocata molte volte dalla Vevak. Infine, quattro attiviste sono state denunciate perché avevano osato raccogliere firme per il «Cambio»: saranno processate a gennaio.
Dal GIORNALE una breve dall'Iran
Migliaia di iraniani hanno protestato ieri davanti all’ex ambasciata americana a Teheran urlando «Morte all’America», 29 anni dopo l’occupazione della missione diplomatica. I manifestanti, perlopiù bambini delle scuole elementari e delle medie, innalzavano striscioni con su scritto «Morte a Israele» e hanno bruciato bandiere americane e israeliane, oltre a un pupazzo raffigurante lo Zio Sam. «Non molleremo l’America neppure per un istante», si leggeva su un cartello. Teheran e Washington non hanno relazioni diplomatiche da quando i funzionari dell’ambasciata furono tenuti in ostaggio per 444 giorni da studenti iraniani. Oggi l’edificio ospita un centro studi gestito dai Guardiani della rivoluzione che occasionalmente ospita mostre sui «crimini compiuti dagli Stati Uniti».
e una dalla Siria
A Damasco si allunga la lista di intellettuali e attivisti per i diritti umani che non possono lasciare il Paese. Negli ultimi due giorni, su decisione dei servizi di sicurezza, lo scrittore Khaled Smeisem, il professore universitario Hassan Abbas, e l’avvocato Mazen Darwish, direttore del centro per l’informazione e la libertà d’espressione, sono stati informati del divieto senza ricevere alcuna spiegazione in merito. Lo rende noto l’Organizzazione per i diritti umani in Siria. Anche il celebre regista Muhammad Malas, atteso a Parigi, è - come sostiene l’Ondus - «prigioniero in patria», fermato dai servizi di sicurezza mentre era all’aeroporto il 27 ottobre.
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