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Il Manifesto Rassegna Stampa
21.10.2008 I "tunnel della speranza" portano armi e terroristi
il quotidiano comunista li vuole salvare dai cattivi israeliani

Testata: Il Manifesto
Data: 21 ottobre 2008
Pagina: 11
Autore: Michele Giorgio
Titolo: «Sottoterra a Gaza I TUNNEL DELLA SPERANZA IN FONDO ALLA STRISCIA- Abu Mazen: Non lascerò la presidenza allo scadere del mandato»

Per IL MANIFESTO del 21 ottobre 2008 quelli tra Gaza e l'Egitto sono i "tunnel della speranza".
Che servano al passaggio di armi e terroristi ed alimentino l'economia criminale del contrabbando non conta. Michele Giorgio, autore del pezzo, non ha dubbi: le responsabilità del caos palestinese sono tutte di Israele.
La crisi umanitaria, perpetuamente imminente, sarebbe evitata solo dai contrabbandieri che aggirano i divieti israeliani ed egiziani.
Che Gaza (dove gli scaffali dei supermercati continuano comunque ad essere pieni, come ha di recente dimostrato la fotografia della pacifista inglese Laureen Booth, giunta a Gaza in "missione umanitaria") sia nella mani di un potere totalitario che persegue una politica di guerra permanente contro Israele , interrotta solo da tregue e cessate il fuoco, non entra, apparentemente,  nell'equazione di Giorgio e del quotidiano comunista.
Ecco il testo dell'articolo:

«Trovare una bombola del gas è una impresa, anche cucinare è un lusso. Mi chiedo come faremo a riscaldarci durante l'inverno». Guida con attenzione Raed mentre corre verso Rafah. Racconta la vita quotidiana di Gaza che non è cambiata da quando Israele e Hamas, lo scorso giugno, hanno deciso di rispettare una tregua di sei mesi che, con ogni probabilità, verrà prolungata. «È cambiato poco qui a Gaza - prosegue Raed - certo non dobbiamo più preoccuparci per le incursioni (israeliane), abbiamo l'elettricità e la benzina per le automobili ma la chiusura è sempre la stessa. Mancano tante cose». Riferisce il caso di un bimbo, Ahmad, di pochi mesi intollerante al latte in polvere. «Può bere solo un latte speciale - spiega - ma qui non si trova e i genitori affidano le loro speranze agli stranieri che entrano ed escono da Gaza. Solo loro possono portare al bimbo quel latte, comprandolo in Israele. Ma non sempre le cose vanno per il verso giusto». Un caso che parla per tanti altri in una Gaza dove la gente passa parte del suo tempo a cercare prodotti divenuti rarissimi o scomparsi del tutto. Israele lascia passare e con il contagocce solo ciò che giudica «prioritario», il minimo indispensabile per non portare al disastro umanitario un milione e mezzo di palestinesi ed evitare condanne internazionali. Afferma di voler strangolare il movimento islamico al potere a Gaza da giugno 2007 ma a soffocare sono solo i civili. «Per trovare le cose che mancano nei negozi non si può far altro che andare a Rafah, sperando che dalle viscere della terra arrivino in superfice i prodotti cercati invano da altre parti», dice Raed riferendosi ai tunnel tra Gaza e l'Egitto attraverso i quali passa di tutto: taniche di carburante, medicine, bombole del gas, lavatrici e frigoriferi smontati, sigarette, dolciumi, profumi, e naturalmente armi e soldi. Un traffico immenso a giudicare dalle numerose tende erette sugli ingressi dei tunnel ad appena qualche decina di metri dal confine. Se ne contano decine, ma secondo la gente del posto sarebbero oltre 200. Alcuni tunnel sono guardati a vista da agenti della polizia di Hamas, altri sono stati abbandonati, altri ancora sono all'interno delle abitazioni di famiglie di Rafah per che anni hanno gestito il contrabbando con l'Egitto. «Queste famiglie hanno dovuto piegarsi agli ordini di Hamas, i traffici ora sono regolati, il governo vuole sapere tutto quello che passa nei tunnel, non sfugge più nulla alla polizia», spiega Abu Firas, contrabbandiere di sigarette egiziane sino ad un anno fa ma ora semplice «grossista» delle merci che passano sotto terra. «Le cose sono cominciate a cambiare la scorsa primavera, dopo che gli egiziani hanno richiuso il valico di Rafah (aperto con la forza dai miliziani di Hamas a gennaio, ndr)», racconta Abu Firas mentre con una mano si protegge gli occhi dalla luce del sole. «Hamas ha capito che l'Egitto non si metterà contro Israele (tenendo aperta Rafah, ndr) e che solo grazie ai tunnel è possibile far entrare quello che serve a Gaza». Secondo alcune stime 1/3 di tutta l'attività economica della Striscia è generata dal contrabbando. A Rafah nessuno osa sfidare gli ordini tassativi giunti dal governo di Hamas. I tunnel ufficialmente rimangono illegali ma vengono tollerati perché sono il tubo che porta ossigeno alla popolazione, il modo per allentare le tensioni sociali ma anche una delle ultime strade che permettono ad Hamas di ricevere il denaro in contanti che serve per pagare la sua struttura amministrativa e di sicurezza. «Prestiamo grande attenzione al movimento sotterraneo, non lasciamo passare sostanze e prodotti illegali, come armi e droga, ma solo effettivamente ciò che serve a Gaza», ha dichiarato qualche giorno fa Ehab Ghussen, il portavoce del ministero dell'interno di Hamas, confermando da un lato la legittimità ormai data ai tunnel e dall'altro di lanciare messaggi rassicuranti all'Egitto. Il governo islamico non ha alcuna intenzione di bloccare l'attività sotterranea che ha generato anche un considerevole indotto. Nafez Abu Rahme, un elettricista, da alcuni mesi riesce a sfamare la famiglia grazie ai cavi e le lampadine che vende agli ommal (lavoratori), come a Rafah chiamano quelli che scavano i tunnel. «A coloro che accettano di dichiarare spontaneamente le merci in transito per i loro tunnel e di versare una tassa al governo, Hamas garantisce l'illuminazione gratuita», dice Abu Rahme che ci tiene a far sapere che sotto terra passa davvero di tutto. «Un mio amico ha acquistato una motocicletta in Egitto e smontata, pezzo dopo pezzo, è riuscito a riceverla a Rafah» riferisce con soddisfazione. Ci sono poi le richieste speciali che non riguardano solo beni di lusso, come lettori di cd dell'ultima generazione o cosmetici prodotti in Europa, ma anche farmaci per malati terminali che scarseggiano negli ospedali di Gaza. Di pari passo con l'aumento delle richieste, sale il numero di coloro che sono pronti a calarsi in un tunnel in cambio di una commissione sulle merci da portare in superfice. «Chi va sotto terra prende una percentuale sul valore complessivo dei prodotti, tra il 5 e il 10%. Ma chi ha bisogno di soldi subito accetta di entrare nei tunnel anche per 1.500 shekel (circa 400 dollari)», spiega Abu Firas. Una necessità che può costare la vita. Gli egiziani hanno deciso di dare la caccia ai tunnel, sotto la pressione di Israele e degli Stati uniti, e non esitano a farli saltare immediatamente quando li individuano. Nell'ultimo mese hanno distrutto almeno 42 gallerie sotterranee. Ad aiutarli, scriveva qualche giorno fa Alex Fishman sul quotidiano israeliano Yediot Ahronot, sarebbero giunti dei macchinari speciali in dotazione all'esercito Usa. Non solo, ha aggiunto Fishman, ma genieri statunitensi opererebbero accanto a quelli egiziani nelle perlustrazioni alla ricerca dei tunnel. Per le esplosioni causate dagli egiziani, cedimenti strutturali e altri incidenti, almeno 39 palestinesi sono morti nei tunnel dall'inizio dell'anno. Gli ultimi due appena qualche giorno fa, a causa dell'esplosione del gas fuoriuscito dalle bombole del gas che stavano trascinando. «La miseria, la disperazione, l'urgenza di trovare un lavoro, la famiglia da sfamare spingono tanti palestinesi di Gaza, specie i più giovani, a rischiare la vita sotto terra», ha denunciato la scorsa settimana il centro per i diritti umani al Mezan. Hamas qualche settimana fa ha ordinato ai «datori di lavoro» di corrispondere un risarcimento alle famiglie dei morti nei tunnel. «È giusto - commenta Abu Rahme - questo è un lavoro come tanti altri, anzi meglio di altri, perché fa sopravvivere Gaza».

Il terrorismo antisraeliano di Hamas, abbiamo scritto più sopra, apparentemente non entra nell'equazione di Giorgio e del suo giornale. Apparentemente, perché un altro articolo chiarisce la loro posizione. Il terrorismo è resistenza. Chi nel campo palestinese si oppone ad esso è un collaborazionista.
Che i tunnel tra
Gaza  e l'Egitto divengano i tunnel della speranza, allora, non stupisce più. Si tratta solo di intendersi su quale speranza. La "speranza" è quella della distruzione di Israele.
Ecco il testo:


Partiranno il 9 novembre al Cairo i negoziati diretti tra Hamas e Fatah ma nel frattempo si moltiplicano i segnali contrari alla riconciliazione tra il movimento islamico e il partito di Abu Mazen. Il presidente palestinese infatti non ha alcuna intenzione di lasciare il suo incarico alla scadenza del mandato l'8 gennaio, come invece vuole Hamas. «L'articolo 34 dello Statuto dell'Anp prevede che le elezioni presidenziali e parlamentari si tengano contemporaneamente (nel 2010) - ha detto Abu Mazen - abbiamo chiesto a sei esperti egiziani e sono stati d'accordo nel ritenere che le due elezioni debbano coincidere». Una interpretazione respinta da Hamas che non ha mai accettato gli emendamenti allo Statuto dell'Anp approvati da Fatah. La possibilità più concreta al momento è una presidenza doppia: Abu Mazen a Ramallah e un esponente di Hamas a Gaza. Lo Statuto infatti attribuisce allo speaker del Parlamento l'incarico ad interim di presidente dell'Anp fino allo svolgimento di nuove elezioni ma Abdel Aziz Dweik, il presidente del Consiglio legislativo palestinese, è rinchiuso in un carcere israeliano dal 2006 e, spiega Hamas, la presidenza Anp andrebbe al suo vice Ahmed Baher, attualmente presidente facente funzioni del Consiglio. Il movimento islamico tuttavia non chiude la porta in faccia ad Abu Mazen e lo invita a presentarsi alle elezioni. Una sfida che Abu Mazen non vuole prendere in considerazione e molti palestinesi sono convinti che nei prossimi due-tre mesi lo scontro tra le due forze rivali riesploderà con violenza, allargando la frattura tra Gaza e Cisgiordania dove, di fatto, stanno emergendo due Stati palestinesi autonomi. Gli egiziani, mediatori tra Fatah e Hamas, fingono di non vedere ciò che avviene sul terreno e hanno invitato le due parti a riunirsi al Cairo il 9 novembre per formare un governo di unità nazionale, come indicato nella bozza di piano di riconciliazione consegnato alle forze rivali. Chiedono inoltre che il dialogo inter-palestinese porti al rinnovamento delle istituzioni dell'Olp in modo da integrarvi Hamas e il Jihad Islami ma a Ramallah non sono disposti ad accettare Hamas come partner a tutti gli effetti sino a quando non rinuncerà al potere che ha preso con la forza un anno fa a Gaza. Un altro punto della bozza prevede che i servizi di sicurezza palestinesi siano riformati su basi professionali e nazionali, rispetto all'attuale gestione interna ad ogni movimento. Una ipotesi irrealistica. Hamas ha già fatto sapere che non scioglierà la sua milizia mentre Abu Mazen ha costruito i suoi rapporti con i governi occidentali - Stati uniti in testa - e con Israele proprio sulla riorganizzazione di agenzie di sicurezza in funzione anti-Hamas. Israele da parte sua si prepara a trasferire all'Anp il controllo di altre città in Cisgiordania, dopo Jenin e Nablus. I vertici militari si incontreranno domani - ha scritto ieri il Jerusalem Post - per dare il via libera definitivo al dispiegamento di 700 poliziotti palestinesi ad Hebron, forse già alla fine di questa settimana. Nei prossimi mesi il ministro della difesa Ehud Barak prenderà in considerazione una simile misura anche a Tulkarem e Qalqiliya. Il programma si svolge in pieno coordinamento con i rappresentanti statunitensi per la sicurezza nella regione, i generali Keith Dayton e James Jones, e l'inviato del Quartetto per il Medio Oriente Tony Blair. I palestinesi in sostanza si limitano ad eseguire gli ordini e non solo Hamas ma anche numerosi militanti di base di Fatah accusano l'Anp di essere diventata una agenzia di sicurezza delle forze di occupazione israeliane.

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