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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica - La Stampa - Il Messaggero - L'Unità Rassegna Stampa
20.10.2008 Dossier Pio XII
cronache e opinioni

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - La Stampa - Il Messaggero - L'Unità
Autore: Bruno Bartoloni - Virginia Piccolillo - Pierluigi Battista - Renato Caprile - Miguel Gotor - Giovanni Sabatucci - Umberto De Giovannageli
Titolo: ««Nessuna lite su Pio XII» E Peres rinnova l'invito a Ratzinger - «Il giudizio su papa Pacelli? Serve equilibrio» - Se i silenzi sulla Shoah portano un solo nome - Pio XII controverso ma la targa del museo è davvero eccessiva -»
Pio XII e la fabbrica dei santi - Non si guarda al passato con gli occhi di oggi - Israele gela la Santa Sede: su Pio XII nessuna marcia indietro

Sulle polemiche intorno alla figura di Pio XII e all'influenza che il giudizio su di essa ha sui rapporti tra il Vaticano di  Benedetto XVI e Israele, i quotidiani del 20 ottobre 2008 pubblicano diversi articoli. Ne pubblichiamo di seguito alcuni.

Dal CORRIERE della SERA

la cronaca di Bruno Bartoloni :

CITTA' DEL VATICANO — Né Israele né la Santa Sede hanno intenzione d'inasprire la polemica sui «silenzi» di Pio XII e di turbare non solo i buoni rapporti fra i due Paesi ma anche il dialogo in corso fra cattolici ed ebrei. L'ambasciatore israeliano Mordechay Lewy è intervenuto nel dibattito rilanciato da alcune dichiarazioni del postulatore della causa di papa Pacelli nella speranza di smorzarne i toni: «Non siamo in lotta con il Papa».
Il presidente israeliano Shimon Peres ha invitato Benedetto XVI a recarsi in Israele: «Non vedo alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita, che comunque è una visita santa per tutti noi e non ha niente a che fare con altre dispute».
L'opportunità degli interventi rasserenanti è giustificata da due scadenze importanti: giovedì 30 ottobre Benedetto XVI riceverà in Vaticano i membri dell'International
Jewish Committee on Interreligious Consultations, una ventina di personalità ebraiche guidate dal rabbino David Rosen che poi si ritroveranno a Budapest dal 9 al 13 novembre con i loro interlocutori cattolici della commissione vaticana per i rapporti con l'ebraismo, guidati dal cardinale Kasper, per il vertice ebreo-cattolico dell'International Catholic- Jewish Liaison Committee.
In una nota, infine, Yad Vashem, il museo della Shoah, chiede l'apertura degli Archivi vaticani.

Un'intervista all'ex commissario allo Yad Vashem per la nomina dei giusti italiani,Nathan Ben Horin :

ROMA — «Non è il momento di giudicare Pio XII. Non ancora». Nathan Ben Horin, 88 anni fra 2 mesi, voce autorevolissima nei rapporti Israele-Santa Sede, già commissario allo Yad Vashem per la nomina dei  giusti italiani, invita alla prudenza.
Perchè?
«Pio XII è stato papa in una situazione estremamente dolorosa e delicata. Dire cosa fosse giusto fare è prematuro. Ci vuole equilibrio».
La didascalia dello Yad Vashem andrebbe rimossa?
«Si potrebbe fare meno bianco-nero. I silenzi di Pio XII sono storia. Ma è storia anche che molti ebrei sfuggirono ai nazisti nascosti nei conventi e all'interno del Vaticano, certamente non all'insaputa del Papa».
Lei aveva 22 anni nel '43 ed era nella resistenza ebraica in Francia. Cosa pensavate del Papa?
«Non si sapeva nulla. Io ero a Grenoble dove c'era l'occupazione degli italiani, che hanno fatto molto per salvare bambini e adulti ebrei, da tedeschi e da francesi collaborazionisti. Il vescovo di Tolosa, Saliege, fece leggere nelle chiese una lettera pastorale di protesta contro le deportazioni. I conventi si aprirono. Tutta la mia famiglia si salvò, non voglio dire per miracolo, ma in circostanze del tutto eccezionali, ma mia moglie lo deve ai sacerdoti».
Era con lei?
«No, era bambina e ad Assisi venne salvata con tutti i suoi cari dal clero locale. Lo ha appena raccontato nel libro Con gli occhi di allora ».
Con gli occhi di oggi il giudizio su Pio XII nel mondo ebraico non appare severo?
«Esagerazioni ci sono nell'accusa e nella difesa. Ho letto: "Era il Papa degli ebrei". Questo non si può dire. C'è la questione del 16 ottobre quando a Roma ci fu il rastrellamento. C'è il suo silenzio. Ma bisogna vedere cosa ha fatto per vie discrete».
Nella diplomazia?
«E negli episcopati dei Paesi occupati dai nazisti. Ecco perchè gli archivi vaticani potrebbero contribuire a far luce. Molti saceroti furono deportati per aver aiutato gli ebrei. Molti  giusti italiani erano membri della chiesa».
La beatificazione mette a rischio i rapporti Israele-Vaticano?
«Non penso. Non è una questione politica, ma umana. Certo tocca sensibilità ancora a fior di pelle. Ma il dialogo Israele-Vaticano è troppo importante per incrinarlo con una polemica che non serve».

Un editoriale di Pierluigi Battista:

Sostiene Amos Luzzatto, intervistato da Repubblica:
«È storicamente provato che nel 1942 diplomatici israeliani informarono gli Usa, gli inglesi e il Vaticano dei piani di rastrellamento decisi da Hitler ». E aggiunge: «Nessuno rispose. Se noi abbiamo sempre rimproverato inglesi e americani per quei silenzi, la stessa cosa dobbiamo fare per il Vaticano e per Pio XII che non gridò forte al mondo intero il suo sdegno per quei crimini annunciati». È vero, ha ragione Luzzatto (malgrado il lapsus sui «diplomatici israeliani» del 1942, prima ancora della nascita dello Stato di Israele). Ma vale anche l'argomento rovesciato: allora perché allo Yad Vashem di Gerusalemme, accanto a quella di Papa Pacelli, non compaiono foto di Roosevelt e Churchill con didascalie che ne denuncino i «silenzi» e le omissioni quando era tragicamente funzionante la gigantesca macchina di sterminio degli ebrei?
Il processo di beatificazione di Pio XII è questione che riguarda i credenti. Ma la controversia sui «silenzi» del Vaticano interpella la nostra coscienza morale e il modo con cui ricostruiamo la nostra storia. Perché allora i responsabili del Museo dell'Olocausto hanno voluto aggiungere nel 2005 quella targa così severa con Pio XII senza deplorare contestualmente e con pari severità la sordità delle potenze occidentali nei confronti di chi li informava dettagliatamente sulle mostruose atrocità che si stavano consumando contro gli ebrei d'Europa? Pesa ancora sugli americani il rimorso per non aver fatto tutto il possibile allo scopo di salvare la vita di chi era stato deportato nei campi del massacro. Nel gennaio scorso il presidente Bush ha pubblicamente ammesso che gli americani sbagliarono a non bombardare nel 1944 Auschwitz e le linee ferroviarie destinate alla deportazione degli ebrei portati allo sterminio. Tutte le ricerche storiche più aggiornate concordano nello smentire che le potenze occidentali impegnate nella guerra contro Hitler fossero all'oscuro delle dimensioni apocalittiche della Shoah. Negli Stati Uniti grava ancora il ricordo della «nave dei dannati», la «St.Louis», carica di 920 ebrei europei perseguitati a cui gli americani nel 1939 negarono il permesso di sbarcare nella terra promessa: e si calcola che almeno 600 di loro, costretti a tornare dai loro carnefici, siano stati trucidati durante lo sterminio. E allora, perché la targa della riprovazione solo per Papa Pacelli? Andrea Riccardi ha appena raccontato nel suo L'inverno più lungo (Laterza) lo sforzo della Chiesa di Pio XII per aprire a Roma i conventi dove gli ebrei (e non solo loro) potessero trovare rifugio durante l'occupazione tedesca: uno sforzo da tutti riconosciuto, almeno fino ai primi anni Sessanta. Avrebbe potuto fare di più? Forse sì. Ma chi, quale organizzazione, quale istituzione a Roma fece di più? E allora perché non dedicare una didascalia di riprovazione a chi non solo non fece di più, ma fece molto di meno? Se il processo di beatificazione esige certezze, la ricostruzione storica ha bisogno di confronti e di comparazioni. Quella targa allo Yad Vashem formula una condanna, ma salva chi si macchiò degli stessi silenzi attribuiti a Papa Pacelli. E impedisce di comprendere non la santità, ma semplicemente la storia.

Da La REPUBBLICA, un'intervista al rabbino David Rosen:

TEL AVIV - Il rabbino David Rosen è l´uomo del dialogo inter-religioso, già responsabile per conto del ministero degli Esteri israeliano delle relazioni con il Vaticano e dei rapporti tra cattolici e mondo ebraico. A lui abbiamo posto alcune domande sulla «crisi» diplomatica innescata dall´«irriguardosa» didascalia a corredo della foto di Pio XII al museo Yad Vashem di Gerusalemme.
Rabbino Rosen, che pensa di quella didascalia?
«Ritengo che sia, come dire, alquanto problematica. Se non ricordo male, da un lato vi è scritto che Pio XII è stato una "figura controversa", ma al tempo stesso si afferma che è stato a guardare e non ha fatto nulla per salvare gli ebrei durante l´Olocausto. Il che, storicamente parlando, non è la pura verità».
Si riferisce alla taglia di 50 chili d´oro imposta dai tedeschi agli ebrei romani dopo l´8 settembre ‘43, alla quale papa Pacelli contribuì con 20 chili, all´apertura delle porte del Vaticano a un certo numero di ebrei in fuga?
«Certo anche a queste cose e ad altre informazioni di cui oggi siamo in possesso. Sappiamo che molti conventi che ospitavano ebrei chiesero e ottennero la sua approvazione nella loro opera di salvataggio. È assai probabile che Pio XII fosse convinto di non essere rimasto con le mani in mano, ma è evidente che le nostre percezioni sono differenti. Noi, in quanto ebrei, abbiamo la sensazione che non abbia fatto abbastanza e che il suo silenzio sia stata una mancanza, un fallimento morale. Penso tuttavia, che il modo con cui Yad Vashem definisce le cose urti davvero i cattolici, anche quelli più critici, e che ciò non contribuisca all´interesse né di Yad Vashem né a quello del popolo ebraico».
E allora qual è la soluzione?
«Si deve fare in modo che la visita dei cattolici a Yad Vashem abbia un´influenza pedagogica positiva. Ritengo, quindi, che la cosa non sia poi così saggia. Come non è saggio minacciare conseguenze diplomatiche. Il modo corretto di trattare la questione è attraverso un convegno di storici, che tentino di stabilire che cosa sia davvero possibile chiarire e che cosa no. La tesi che finché gli archivi del Vaticano rimangono chiusi noi non sapremo tutto è, a mio avviso, un sofisma. È vero che dobbiamo pretenderne l´apertura per accertare la verità storica, ma qui si tratta di una divergenza di vedute nell´interpretazione soggettiva della situazione di quel periodo. E in ogni caso si impone una domanda: se Pio XII avesse potuto fare e avesse fatto ciò che non ha fatto, le cose sarebbero andate diversamente?».
Ritiene che questa tensione possa creare un frattura nelle relazioni tra Israele e il Vaticano?
«No, nel modo più assoluto. La questione della dicitura di Yad Vashem è materia di discussione già da quattro anni e penso che la Chiesa stia semplicemente tentando in diversi modi di fare pressione su Yad Vashem. Sarebbe stato saggio se Yad Vashem avesse accettato di discutere la cosa in passato. Mi sembra di avere capito, da fonti del Ministero degli Esteri israeliano, che oggi c´è una certa disponibilità a farlo».
E che pensa dell´intervento assai critico su papa Pacelli del rabbino capo di Haifa, ospite al sinodo dei vescovi a Roma?
«Ciò che ha detto di fronte al Sinodo mi è sembrato piuttosto saggio ed indiretto, ed era d´uopo in quel foro. Nelle interviste ai giornali, invece, è stato un po´ troppo "diretto", ma qui abbiamo il solito, vecchio problema se sia nato primo l´uovo o la gallina».

Da La STAMPA, un editoriale di Miguel Gotor:

La Santa Sede ama i tempi lunghi e i passi felpati, in materia di santità e non solo. E dunque l’autorevole smentita di padre Lombardi delle parole del gesuita Gumpel, postulatore del processo di canonizzazione di Pio XII, merita di essere sottolineata, insieme con la volontà di Benedetto XVI di continuare a fare di quella causa «oggetto di approfondimento e riflessione».
Quest’increspatura non è solo il segno di una frizione estemporanea riguardante la diplomazia tra gli Stati e subito ricomposta, né il frutto dell’inopportuna quanto comprensibile reazione di un sacerdote che ha dedicato buona parte della sua esistenza a un obiettivo che vede forse allontanarsi per sempre dal proprio orizzonte di vita. In realtà, è anche il sintomo di un movimento più profondo che concerne la «politica della santità» della Sede apostolica negli ultimi quarant’anni, dal Concilio Vaticano II fino ai nostri giorni.
In quella assise epocale fu deciso di delineare i contorni di una vocazione universale alla santità e si auspicò la possibilità di un suo esercizio multiforme e quotidiano che investisse non solo i sacerdoti, ma anche il mondo dei laici «tutti invitati a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato».

A partire dalla svolta conciliare, due fenomeni contraddittori, ma bilanciati, hanno caratterizzato l’attività della cosiddetta «fabbrica dei santi», costituendo un’anomalia significativa se confrontata con la plurisecolare tradizione ecclesiastica precedente, molto cauta in materia di canonizzazioni. In primo luogo, Giovanni Paolo II ha deciso di proclamare da solo più della metà delle proposte agiografiche elaborate dal 1588 in poi dai suoi 37 predecessori: 1.338 beati e ben 482 santi. Inoltre, il Novecento è diventato il secolo in cui si sono avviati più processi di canonizzazione in onore di Pontefici: su 8 Papi, ben 6 hanno avuto una causa aperta e, a partire dal 1939, proprio da Pio XII, tutti i successori si trovano avviati all’onore degli altari o già beatificati, come Giovanni XXIII.
Insomma, l’apertura alla santità universale ha portato a una moltiplicazione mai vista prima di proposte agiografiche, che rischiano di svilirsi nella loro autorevolezza carismatica; ma questa spinta diffusa è stata controbilanciata da un parallelo investimento gerarchico e verticistico sulla sovranità pontificia. Si tratta dell’inevitabile conclusione di un processo di centralizzazione normativa e burocratica che ha consegnato, a partire dal 1588, con l’istituzione della Congregazione dei Riti, le chiavi di accesso della santità nelle mani del Papa. Gli esiti, oggi, possono essere paradossali: il Pontefice decide della santità del suo predecessore, con buone speranze di vedere il proprio successore fare lo stesso con lui, in una catena agiografica in cui sembra delinearsi qualche conflitto di interessi di troppo. Ovviamente, il fenomeno non è solo di natura normativa, ma anche di carattere culturale e finisce con l’offrire l’immagine di una Chiesa di Roma arroccata intorno alla figura del suo Pontefice e però impoverita della molteplicità e della ricchezza dei modelli esemplari di vita cristiana esistenti nella società.
Anche sotto questo profilo, il modo di procedere di Benedetto XVI in merito alla causa di Pio XII appare assai saggio. La santità è un modello universale di fede e di comportamento proposto pubblicamente ai fedeli, ma nel caso di papa Pacelli la volontà di canonizzarlo si è ormai trasformata in una battaglia in cui sembrano prevalere l’ideologia e la politica piuttosto che la dimensione religiosa e spirituale. Un atto che già sembra destinato non a unire, bensì a dividere. Nell’attuale temperie storica sembrerebbe più opportuno lasciare l’esperienza umana di Pio XII, con le sue complessità, difficoltà, ricchezze e tensioni, al libero giudizio degli studiosi e alla privata devozione dei fedeli. E, forse, accettare che non tutti i pontificati, proprio come le ciambelle, riescono necessariamente col buco, ossia con l’aureola. Meglio guardare avanti con fede e speranza a nuove proposte agiografiche perché, come ha scritto la poetessa Alda Merini in L’altra verità, «la santità è di tutti, come di tutti è l’amore».

Citiamo anche l'editoriale di Giovanni Sabatucci pubblicato dal MESSAGGERO
in prima pagina "Non si guarda al passato con gli occhi di oggi". Vi si legge:

Pio XII era un uomo di curia e un diplomatico ed era per carattere assai più prudente del suo predecessore. ma soprattutto era espressione tipica della Chiesa degli anni Trenta e Quaranta: una Chiesa che sentiva forte la minaccia della secolarizzazione, non si era ancora liberata dall'eredità del vecchio antigiudaismo, guardava con diffidenza mista a ostilità alle pratiche della democrazia liberale, considerava il comunismo come il nemico più pericoloso ( anche perché il regime sovietico, contrariamente ai regimi autoritari di destra, le aveva subito mosso una guerra senza quartiere).
Pensare che quella Chiesa, comunque oggi la si giudichi, potesse farsi paladina della democrazia o dei diritti umani modernamente intesi significa commettere un evidente peccato di anacronismo.

Da L'UNITA', la cronaca di Umberto De Giovannangeli:

ISRAELE tiene il punto. Papa Ratzinger resta «un ospite gradito ed amato» ma su Papa Pacelli, lo Stato ebraico non fa marcia indietro.
A ribadirlo è il portavoce del ministero degli Esteri israeliano: «Non si possono chiudere gli occhi di fronte al controverso ruolo storico di papa Pio XII ed al suo comportamento nei giorni in cui migliaia di ebrei venivano quotidianamente mandati al massacro».
Sulla questione della rimozione da parte dello Yad Vashem della targa (fortemente critica verso Pio XII) contestata dalla Santa Sede, il portavoce glissa limitandosi ad osservare che «lo Stato d’Israele non commenta le dichiarazioni di persone (il postulatore della causa di beatificazione di Papa Pacelli, padre Peter Gumpel, ndr.) che non sono state autorizzate a parlare a nome di papa Benedetto XVI». Interpellato dalla radio israeliana padre David Jaegger, un rappresentante del Vaticano in Israele, ha dichiarato: «Padre Gumpel non rappresenta il Papa e quest'ultimo deciderà sovranamente la data del suo arrivo» in Terrasanta.
«L'invito rivolto a papa Benedetto XVI a venire (in Israele) è stato rinnovato e vale sempre (...). Le divergenze (sulla beatificazione) possono essere ridotte, ma la data di questa visita non è ancora stata fissata», puntualizza l'ambasciatore dello Stato ebraico presso la Santa Sede, Motti Levy, ma resta una frase del portavoce del ministero degli Esteri israeliano che più di tante disegna la sensibilità e la prudenza di Israele sul tema: «Fintanto che gli archivi del Vaticano non saranno aperti per i ricercatori, la questione storica (su Pio XII, ndr.) resta aperta e dolorosa». Un concetto, quello dell’apertura degli archivi segreti del Vaticano, su cui ieri ha insistito la direzione dello Yad Vashem.
In una nota fatta pervenire alla sede di Gerusalemme dell’agenzia Ansa, la direzione del Museo dell’Olocausto, si è detta sicuro che l'apertura degli archivi segreti del Vaticano relativi al periodo della Seconda Guerra mondiale sarebbe il modo migliore per fare luce e chiarezza su una questione così importante e delicata come il ruolo di papa Pio XII. Nella nota, fatta pervenire all'Ansa attraverso la portavoce del Museo e centro di documentazione sull'Olocausto, Estee Yaari, riguardo a una possibile visita di papa Ratzinger in Israele, si afferma anche che «una visita del papa Benedetto XVI riveste carattere politico e, come tale, non riguarda come istituzione lo Yad Vashem».
In serata, sul tema interviene Shimon Peres. Il presidente israeliano è entrato in gioco nella polemica tra esponenti religiosi cattolici e alcune istituzioni ebraiche, tra le quali lo Yad Vashem di Gerusalemme, il Museo-memoriale della Shoah, ribadendo che i rapporti fra lo Stato ebraico e la Santa Sede sono buoni e che «una visita di Papa Benedetto XVI in Israele sarebbe assai gradita». Vari giornali israeliani nelle rispettive edizioni online
hanno riferito ieri sera una frase dell'anziano capo di Stato, secondo il quale la targa dello Yad Vashem riguardante il ruolo di Papa Pio XII nei confronti dell'Olocausto non dovrebbe impedire un viaggio di Benedetto XVI in Israele. «Non vedo alcun legame tra la questione su Pio XII e la visita» di Ratzinger, ha detto Peres, che ha ricordato di avere già
incontrato in varie occasioni l'attuale pontefice di Roma, precisando di avere per lui «una stima particolare»

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