Da sito web L'IDEALE :
Tutti i giornali israeliani ne hanno dato notizia e anche a distanza di circa un mese ancora se ne parla. Sul Jerusalem Post, infatti, Stephen Leavitt, fondatore di WebAds, una società che si occupa della pubblicità su internet, di analisi e consulenza riguardanti le tendenze della rete, proponeva un’interessante riflessione.
Internet, si sa, è una piazza virtuale, un luogo in cui le idee circolano liberamente, senza frontiere e chiunque, almeno nei Paesi dove i governi non impongono restrizioni, può aprire un blog, promuovere le sue opinioni e ciò in cui crede.
La cosa più importante non è se si viene ascoltati o seguiti, ma il fatto che si ha il diritto, la libertà e la possibilità di tentare di convincere i propri ascoltatori o lettori che ciò che si sostiene è corretto. Il libero scambio di idee è ciò che rende le democrazie vivaci e salutari ed è proprio questo che fa paura a Stati come la Cina, l’Arabia Saudita, l’Egitto e tanti altri che perciò bloccano gli accessi alla rete, perseguendo e arrestando i blogger che si oppongono ai regimi.
Ritornando al convegno in Israele la convention è stata, racconta Stephen Leavitt, una tangibile conferma del famoso detto “Due ebrei tre opinioni”.Erano presenti, infatti, persone dalle idee più disparate, da IsraelMatzav (politicamente orientato a destra) a DovBear (di sinistra). C’erano liberali, conservatori, haredim (ortodossi), ultrasecolari e “di tutti i colori dell’arcobaleno”. Quindi, si chiede, questi blogger rappresentano una comunità? Oltre ad essere ebrei, cos’altro hanno in comune? Il “jewish blogging” è solo un hobby, o i blogger ebrei formano realmente una comunità? E che ruolo deve avere il “jewish blogger”? Il dibattito è stato molto acceso, alcuni sono arrivati ad accuse personali e ad esprimere dubbi sul criterio con cui sono stati scelti gli invitati. Il nostro autore sostiene di non avere una risposta a queste domande, ma ritiene che Netanyahu abbia dato un importante suggerimento. L’ex primo ministro ha chiesto di parlare non perché desiderasse rivolgersi ai bloggers, ma perché voleva raggiungere le comunità on-line che questi bloggers hanno creato e alle comunità reali di cui i lettori sono membri.
Per meglio chiarire il concetto, ogni blogger crea un gruppo di “seguaci” e le idee di questa microsocietà rimbalzano poi nel mondo reale. Secondo l’autore dell’articolo “è la piazza dell’ultimo shtetl per la nazione ebraica.”
Non è chiaro se i blogger ebrei formano una comunità, ma certamente sono una porta d’accesso alla società ebraica allargata, poiché essi hanno la possibilità di influenzare le comunità di cui sono parte.
Probabilmente queste considerazioni corrispondono maggiormente alle situazioni anglo-americana e israeliana, dove le comunità sono più grandi, più variegate e dove internet e tutti i servizi correlati sono più diffusi e popolari. In Italia, benché ormai ci siano milioni di blogger, non è facile raggiungere la professionalità o la popolarità dei colleghi d’oltremare.
L’idea originale dell’associazione Nefesh B’Nefesh era quella di coinvolgere i blogger più favorevoli al sionismo e all’alyà, ma lo scopo non era quello di convincere tutti ad andare ad abitare in Israele, bensì, quello di aprire un dibattito creando un dialogo che renda il futuro dell’ebraismo più salutare e vibrante.
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