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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
28.09.2008 Bombe a Damasco
cronaca e analisi

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Davide Frattini-Igor Man
Titolo: «Damasco,autobomba fa strage: 17 morti - Vecchie trame contro la pace»

Sull'attento di Damasco, sui quotidiani di oggi , 28/09/2008,è quasi unanime il riconoscimento della presenza di Al Qaeda. Lo scrive, pur timidamente persino il MANIFESTO. Riportiamo dal CORRIERE della SERA la cronaca di Davide Frattini, mentre dalla STAMPA riportiamo l'analisi di Igor Man(zella), come sempre ambigua nell'attribuire colpe e responsabilità. Assad vi appare come un ricercatore della pace, per questo - forse - colpito da Al Qaeda. Nemmeno un accenno al reale ruolo della Siria nel sostenere i movimenti terroristi della regione, da Hamas a Hezbollah. Di Israele, Man(zella) ricorda la volontà di bombardare l'Iran, mentre ignora quale pericolo lo stato dei Mullah rappresenti per il mondo intero. Orfano di Arafat, il Man(zella) non ha più santi in paradiso, deve cavarsela con quello che gli offre il mercato, anzi, lo Shuck. Per questo, un colpo di qua, un colpo di là, la predica alla fin fine a chi la fa ? Ma all'America, ovviamente, e a Israele. Mentre si tiene ben abbottonato nei giudizi sugli stati canaglia. Ecco i due articoli:

Corriere della Sera-Davide Frattini-Damasco,autobomba fa strage: 17 morti

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — Duecento chili di esplosivo. Un taxi, un'auto o un camion. I testimoni sono d'accordo solo sulla botta: «È stato un terremoto ». L'attentato — diciassette morti — ha colpito una delle strade principali di Damasco, nel sud della città, che porta verso l'aeroporto, una base dei servizi segreti e Sayida Zeinab, luogo sacro per gli sciiti. Il bersaglio è incerto quanto la dinamica. «Non possiamo accusare nessuno per ora», dice Bassam Abdul-Majid, ministro degli Interni siriano.
Qualche commentatore incolpa Israele — come nove mesi fa, quando Imad Mughniyeh era saltato in aria —, il sito Now Lebanon rilancia da Beirut la pista di Al Qaeda: «È stato un attentato suicida, un messaggio alle autorità che hanno iniziato a incalzare la rete che si è formata in Siria, dopo l'apertura di Damasco all'Occidente e alla Francia». L'attacco è avvenuto poche ore dopo il raro incontro tra Condoleezza Rice, segretario di Stato americano, e Walid Muallem, ministro degli Esteri siriano. A New York, nel palazzo delle Nazioni Unite, hanno discusso di Iraq, Libano e delle prospettive di pace in Medio Oriente. Dieci minuti di colloquio che Muallem giudica «positivi, l'inizio di un dialogo».
Il regime di Bashar Assad sostiene di dare la caccia a gruppi sunniti, che si infiltrerebbero dal Libano e sarebbero responsabili di altri attentati negli ultimi anni. Nessuno così potente come quello di ieri mattina, bisogna risalire al 1997, quando una bomba su un autobus aveva ucciso dodici persone. «L'appartamento ci è crollato addosso, cinque tra i miei familiari sono finiti all'ospedale», racconta uno dei sopravvissuti. Nel settembre 2006, estremisti islamici hanno attaccato l'ambasciata americana (morta una guardia e tre degli assalitori), tre mesi prima la polizia aveva affrontato un assalto contro il ministero della Difesa. I servizi siriani considerano responsabile il gruppo Jund al-Sham (i soldati della Siria), creato in Afghanistan e legato ad Al Qaeda. I militanti invocano la caduta del regime di Assad, considerato troppo laico. «Da mesi, i siriani si stavano preparando a un attentato — dice Ibrahim Bayram, analista politico per il libanese An Nahar,
all'Associated Press — come ritorsione per la decisione di impedire agli estremisti di passare attraverso il confine verso l'Iraq».
Assad sta cercando di uscire dall'isolamento imposto da Stati Uniti ed Europa, dopo l'assassinio di Rafiq Hariri nel 2005 a Beirut, un'operazione attribuita ai servizi siriani. Damasco con Israele (qualsiasi accordo di pace implicherebbe la fine della cooperazione con Hezbollah e Iran) e all'inizio del mese Nicolas Sarkozy, presidente francese, ha visitato il Paese, primo capo di Stato ha avviato negoziati indiretti in cinque anni.

La Stampa- Igor Man- Vecchie trame contro la pace:

L’attentato terroristico in un quartiere «sensibile» di Damasco non è il primo, non sarà l’ultimo. Nel febbraio scorso un’autobomba con 200 chilogrammi d’esplosivo uccise Imad Moghaniyah, già direttore della Sicurezza di Hezbollah (il partito di Dio). A lui i servizi occidentali attribuiscono i devastanti attentati che nel 1982 massacrarono, a Beirut, soldati americani e francesi. Per una sorta di riflesso pavloviano i media mediorientali assegnarono la paternità della liquidazione fisica di Moghaniyah al Mossad che «non perdona». Ma a Damasco una serie di rimpasti nella camera dei bottoni, il licenziamento di personaggi già alla corte del presidente Hafez Assad, il silenzio di giornalisti animosi e tutta una cosiddetta offensiva di charme del giovine presidente (42 anni) Bashar al-Assad, umanizzato da una splendida consorte dai tacchi a spillo, fecero sì che si parlasse della Siria in crisi, divisa al suo interno fra possibilisti ed estremisti. Col tempo s’è avuto modo di verificare che la cacciata dei siriani dal Libano dopo l’uccisione (con autobomba) del presidente Hariri, dopo la guerra lampo contro Hezbollah non proprio egregiamente condotta da Israele, non ha scalfito il potere (ancorché relativo) di Bashar. Costui ha compiuto un gesto invero rivoluzionario, che suo padre non poteva fare e cioè «parlare - di pace - con Israele». Grazie ai buoni uffici del premier turco Erdogan israeliani e siriani discutono, cautamente è vero e indirettamente, però si parlano. E parlano di pace.
Ovviamente un simile accadimento se conforta, diciamo, l’Egitto, fatalmente disturba quello che chiameremo l’islàm oltranzista, «nemico della pace». In forza del comune credo religioso che spiritualmente accomuna gli Alawiti (cioè la Siria), una minoranza islamica minuscola davvero ma autorevole, agli Sciiti, il regime di Teheran ha preso sotto tutela economica (petrolio eccetera) Damasco. Ma va detto subito che il giovine Assad non s’è lasciato stordire né intimidire dall’oltranzismo parolaio del famelico (in politica, beninteso) presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. «Finché si parla non si spara», Bashar cita spesso questo aforisma di Churchill e all’omologo persiano che lo esortava a troncare ogni contatto con il nemico (cioè con l’Occidente e con Israele) ha replicato con un apoftegma famoso: «Senza l’Egitto non si può fare la guerra, senza la Siria non si può fare la pace». Il guaio è, osservano i guru di Zamalek, che Ahmadinejad non vuole la pace: «La nostra priorità storica - ha detto una volta ancora a New York - è la cancellazione di Israele dalle mappe». E qui si appalesa la grande madre di tutti i pericoli: vale dire un raid israeliano «preventivo» volto a distruggere i siti nucleari dell’Iran. Proprio due giorni fa, il Guardian ha scritto che in maggio Olmert (in carica allora) chiese il placet di Bush per un blitz di Israele in Iran. Sempre secondo il Guardian, Bush avrebbe negato qualsiasi copertura, ritenendo l’operazione una «trappola»: a pagare il raid israeliano fatalmente sarebbero stati anche gli Usa che hanno basi un po’ in tutto il Medio Oriente. La precaria esistenza del Libano che faticosamente sta ricucendo («alla pari») il tormentoso rapporto con Damasco - è alle viste un riconoscimento diplomatico - pagherebbe tremendamente l’incursione israeliana (la guerra civile è dietro l’angolo). Ma tranne colpi di scena, sempre possibili in Medio Oriente, quel che Malraux definì «un minestrone ribollente», il mondo potrà tirare il fiato in attesa che l’Oval Room accolga un presidente armato di common sense, giusta la lezione di Tom Paine: «Per essere felice e sicuro un Paese non ha bisogno di eroi bensì di uomini di buon senso». In attesa che questa massima venga applicata per quanto riguarda noi, cittadini d’Europa, vorremmo poter dire agli Americani - ai quali dobbiamo anche la libertà di poterli criticare e, perché no, consigliare - quanto segue: gli Stati Uniti si decidano a coinvolgere la vecchia Europa nel risiko prossimo venturo: voi mettete la potenza, noi l’esperienza.

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