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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa Rassegna Stampa
08.09.2008 C'è anche l'Iran nella strategia della Russia
verso una pericolosa alleanza

Testata: La Stampa
Data: 08 settembre 2008
Pagina: 13
Autore: Anna Zafesova
Titolo: «La flotta russa nei Caraibi»
Da La STAMPA dell'8 settembre 2008:

Le navi della Nato gettano ancora al largo delle coste georgiane, e la flotta russa salpa verso i Caraibi. Uno dei principi della guerra fredda era la simmetria, occhio per occhio, missile per missile, amici contro nemici. E così quattro navi russe con mille marinai a bordo vengono invitate da Hugo Chavez alle manovre congiunte a novembre, in un avvicinamento senza precedenti alle coste statunitensi.
La guerra in Georgia ha rimescolato le tessere del puzzle internazionale in un mosaico che si sta ricomponendo, qualche volta seguendo tracciati della prima guerra fredda. L’unico Paese oltre la Russia a riconoscere Abkhazia e Ossezia del Sud è stato il Nicaragua di Daniel Ortega, amico di Mosca dai tempi della rivoluzione sandinista. E’ la prima capitale a dare solidarietà è stata l’Avana dei fratelli Castro, che poche ore prima era rientrata al centro delle attenzioni del Cremlino: un gruppo di alti dirigenti molto vicini a Putin sono sbarcati nell’isola proclamando «il ritorno a Cuba», con contratti, prestiti e soprattutto la voglia di riaprire le basi militari per i bombardieri russi. Il primo leader straniero a visitare Mosca dopo la guerra caucasica è stato Bashar Assad, figlio di un vecchio amico dell’Urss, che ha offerto il territorio della Siria per i missili russi «Iskander».
Agli alleati storici si aggiungono new entry come appunto il Venezuela diventato nel frattempo «bolivariano» e in cerca di una «alleanza strategica» anti-Usa. Un altro alleato inatteso è l’Iran. Non più comunista, il Cremlino sembra non avere pregiudizi per l’Islam militante, e oltre a Hezbollah e Hamas (che hanno sostituito i vecchi alleati della Olp) sponsorizza più o meno esplicitamente Ahmadinejad. Mentre alcuni analisti militari di Mosca fantasticano su basi militari russe in Iran, esperti occidentali come Dough Richardson di «Jane’s» sospettano che l’arma segreta appena testata dagli iraniani, che permetterebbe di bloccare la rotta del petrolio nello stretto di Hormuz, sia un missile avuto dai russi. E il Cremlino, secondo le Izvestia, vorrebbe mandare un team di scienziati nucleari a Teheran, per dar fastidio agli Usa.
Alleanze vecchie e nuove, cementate non più dall’ideologia, ma da un generico antioccidentalismo insieme a interessi economici, che intrecciano Mosca, Teheran e Caracas in un triangolo che vede gli ayatollah investire petroldollari nei bolivariani e tutti insieme fare shopping di armi al Cremlino. Il sogno di Mosca sarebbe farlo diventare un quadrato includendo Pechino, che però non cede. L’Organizzazione di cooperazione di Shanghai (Russia, Cina e Asia Centrale ex sovietica) non ha condannato la Georgia sostenendo invece la sua integrità territoriale (per i cinesi era come parlare di corda in casa dell’impiccato, con Taiwan, Tibet e Xinjiang) e rifiutandosi di cooptare Ahmadinejad, voluto dai russi.
Ma le delusioni maggiori vengono dagli ex sovietici. Per ottenere la solidarietà del bielorusso Lukashenko ci è voluta una settimana di pressioni da Mosca. E i membri del Patto sulla sicurezza collettiva (Russia, Armenia, Uzbekistan, Tagikistan, Kirgizistan, Bielorussia e Kazakhstan), hanno sì rimproverato la Georgia su richiesta moscovita, ma non hanno riconosciuto Abkhazia e Ossezia del Sud. Come nota il commentatore del «New Times» Vladimir Kolesnikov, «la Russia non riesce a essere un impero soft», mentre la sua presa «hard» è ormai insufficiente. E così gli ex fratelli danno sorprese spiacevoli come il rinvio del supercontratto elettrico che i tagiki dovevano fare con i russi e che ora, sembra, passerebbe ai cinesi, o come l’aumento del prezzo del metano imposto dagli asiatici a Gazprom. Secondo il direttore della rivista «Russia in Global Affairs», Fiodor Lukianov, piuttosto che guidare il nuovo Patto di Varsavia, Mosca «si avvia a un’autonomia strategica, che possiamo anche definire solitudine».

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