Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
In Libano generale Graziano non vede Hezbollah, in Afghanistan la brigata Friuli combatte davvero i talebani ma dalla Francia giungono gravi accuse circa il comando italiano di Surobi
Testata:Il Foglio - La Repubblica Autore: la redazione - Fausto Biloslavo - Anais Ginori - Giuseppe Cadalanu Titolo: «Caccia grossa nel Libano del sud -I francesi sull´Afghanistan»
L'abbattimento di un elicotterodell'esercito libanese rende evidentel a falsità (e il ridicolo) delle affermazioni del generale Graziano, secondo le quali "nel sud del Libano ci sono soltanto agenti della polizia libanese e cacciatori". Un editoriale dal FOGLIO:
Ieri un elicottero dell’esercito libanese è stato abbattuto dal fuoco di armi automatiche nel cielo sopra il villaggio di Sajaud. Un pilota è morto. E’ il sud del paese, a soli venti chilometri dal confine con Israele: nel mezzo della zona sotto la responsabilità del contingente Unifil, che infatti stava conducendo manovre congiunte assieme ai militari libanesi abbattuti. E’ strano. Non più tardi di dieci giorni fa il comandante di Unifil, il generale italiano Claudio Graziano, aveva rassicurato il segretario generale Ban Ki-moon: nessun movimento sospetto, “nel sud del Libano ci sono soltanto agenti della polizia libanese e cacciatori”. Anzi, le uniche violazioni alla risoluzione Onu 1.701 per il comandante di Unifil arrivano da parte di Israele, che continua a sorvolare a bassa quota la campagna libanese con i propri jet. Eppure lunedì il segretario generale ha ricevuto un altro rapporto Onu, molto meno rassicurante e stilato da una squadra che lui ha appositamente nominato: “La frontiera tra Libano e Siria è completamente aperta al contrabbando, anche di armi”. Israele sostiene, ma nessuno l’ascolta, che questo modo di far rispettare la risoluzione 1.701 è inefficace e consente a Hezbollah di riarmarsi come prima della guerra nell’estate 2006, e forse di più. Le milizie armate non sono state sciolte, sono stati costruiti nuovi arsenali e anche una rete sofisticata di bunker sotterranei, almeno 150, dove i guerriglieri sciiti possono nascondersi. Unifil è un contingente di pace formato da professionisti ben addestrati, garante di un mandato internazionale. Ma allora chi abbatte gli elicotteri? E costui, ha la licenza di caccia?
Sempre dal FOGLIO, un reportage di Fausto Biloslavo da Herat in Afghanistan. Dove i soldati italiani combattono il terrorismo:
Herat. “I proiettili sollevavano sbuffi di sabbia conficcandosi davanti ai mezzi. Ci tiravano razzi Rpg da tutte le parti” racconta un sottufficiale di Caserta. Per il primo caporal maggiore Pasquale Campopiano, 27 anni, della brigata Friuli è stato il battesimo del fuoco nell’Afghanistan occidentale. I soldati italiani combattono i talebani come gli alleati della Coalizione occidentale, fra paure, orgoglio e piccoli atti di valore. Con un approccio più soft, rispetto ai marine, ma nessuno si tira indietro. Il 4 agosto è scattata l’operazione “Khora” nella sperduta provincia afghana di Badghis. Una colonna della 3° compagnia Aquile del 66° reggimento Trieste ha “marciato” su Bala Murghab, dove non avevano mai visto un soldato della Nato. I militari in prima linea raccontano i ripetuti attacchi subiti. Soprattutto il 5, 6 e 7 agosto, anche se i talebani hanno continuato a colpire il fortino di Bala Murghab all’arrivo del cambio spagnolo a fine mese. “Sono stati tre giorni di fuoco” spiega il comandante della compagnia Aquile. Nel fortino si vive all’aperto, sulle brande da campo. Una novantina di militari italiani mangiano razioni di combattimento e tengono addosso la divisa impolverata di combattimento, come se fosse una seconda pelle. Nella stessa zona di Bala Murghab gli spagnoli hanno sostenuto pesanti scontri nell’agosto 2007. Quando gli elicotteri Mangusta del 5° Rigel di Casarsa della Delizia, li hanno salvati dall’assedio dei talebani. Questo mese i soldati italiani rispondono ai razzi talebani con il tiro dei loro mortai, ma non indiscriminatamente. Raccontano di quando hanno lanciato corto per non colpire una casa, dove si annidavano i talebani, ma che avrebbe potuto ospitare anche dei civili. Il loro fuoco di sbarramento è servito a far interrompere l’attacco. L’operazione Khora per la conquista di Bala Murghab, come racconta questa settimana anche un lungo reportage di Panorama con fotografie di Maki Galimberti, è costata cinque morti e decine di feriti. Nei combattimenti sono stati uccisi due consiglieri militari americani dell’esercito di Kabul e tre soldati afghani. Nessun italiano è stato colpito, a parte qualche ammaccatura per lo spostamento d’aria delle esplosioni. A Herat ci sono anche gli “angeli custodi” del contingente, i piloti degli elicotteri d’attacco Mangusta. Al capitano Cristiano Comand hanno “sparato un razzo Rpg nel sedere”, mentre proteggeva l’evacuazione di due fucilieri dell’aria feriti il 9 luglio vicino ad Herat. A sud della grande base italiana di Herat c’è soltanto l’inferno di Farah, la provincia più pericolosa per gli italiani. “Infestata da talebani e signori della droga confina per 250 chilometri con l’Iran, che soffia sul fuoco dell’instabilità afghana”. Nel deserto combatte la Task force 45, il fior fiore dei corpi speciali italiani. Un’unità segreta fino all’arrivo al ministero della Difesa di Ignazio La Russa. “I nostri militari hanno partecipato ad azioni anche di combattimento, hanno salvato vite umane di militari appartenenti ad altri contingenti e neutralizzato attentati – ha detto il ministro in visita al contingente italiano lo scorso luglio – i soldati combattono e lo vogliono fare al meglio; per questo mi hanno chiesto altri elicotteri e tre elicotteri saranno inviati entro novembre, assieme a cinquecento uomini di rinforzo. Si tratta di compiti pericolosi e ringrazio Dio che non abbiamo subito lutti e sofferenze”. Con il cambio di governo nella scorsa primavera, è stato concesso il via libera per seguire le missioni dei nostri corpi speciali a Farah. Possono presentarsi solo con il nome di battesimo e senza gradi, ma hanno vissuto i combattimenti più duri. Vincenzo, che ha passato 11 degli ultimi 18 mesi al fronte, racconta: “Quando i talebani issano il loro vessillo su qualche capoluogo distrettuale chiamano noi a tirarlo giù”. Accuse alla condotta militare italiana in Afghanistan vengono dalla Francia:
PARIGI - I francesi stanno ancora cercando di capire come si è potuti arrivare alla débacle che ha portato alla morte di dieci soldati in Afghanistan, la peggiore strage militare da 25 anni. Le responsabilità della strage del 18 agosto rimangono in parte misteriose. Il ministero della Difesa si è limitato a smentire le ipotesi più fantasiose, come la cattura di alcuni uomini che sarebbero poi stati giustiziati. Ma nelle ultime ricostruzioni, viene citato anche il ruolo giocato nella regione dall´Italia, che fino al 6 agosto era al comando del fortino di Surobi, cinquanta chilometri da Kabul. «Gli italiani avevano di fatto garantito un´ampia libertà di movimento ai gruppi locali» ha scritto ieri Le Point. Secondo il settimanale francese, il nostro contingente non aveva più condotto pattugliamenti nella valle per circa 6 mesi, dopo l´uccisione del maresciallo Giovanni Pezzulo da parte dei Taliban. «La zona è rimasta allora vergine - spiega l´esperto militare del giornale, Jean Guisnel - senza alcuna presenza di soldati stranieri fino all´8 agosto». Ovvero quando il generale francese Michel Sollsteiner ha assunto il comando, decidendo di riprendere il controllo dell´area. «Per questo i francesi sono entrati nel mirino. I Taliban - conclude Le Point - hanno fatto capire che vogliono conservare la stessa libertà di movimento in una zona per loro strategica». Da Roma, le forze armate raffreddano la polemica e replicano che la missione italiana ha controllato bene la zona, sequestrando armi, ordigni e droga, ma sempre mantenendo il dialogo con la popolazione afgana. E ieri, a smentire le accuse di inerzia degli italiani, è stato diffuso anche un video che mostra i nostri soldati impegnati in una ricognizione nel Sud dell´Afghanistan, fuori dalle zone di competenza. Era stato lo stesso ministro della Difesa, Hervé Morin, a giustificare l´incursione francese nella valle dell´Uzbeen come «un lavoro che qualcuno doveva fare», incolpando in modo indiretto i predecessori al comando di Surobi. Accuse all´Italia erano apparse già all´indomani della strage nel blog Secret Défense del giornalista di Libération, Jean-Dominique Merchet. «Dopo la perdita di un uomo a febbraio - scriveva - gli italiani hanno deciso di non uscire più dalla caserma e hanno trattato per la pace». La stessa tesi è stata riportata ieri nel Nouvel Observateur. Ma nessun commento ufficiale arriva dal ministero della Difesa. «Non siamo noi a dover controllare l´operato dell´Italia in Afghanistan, è la Nato», spiega un portavoce. Poi aggiunge: «Quello che gli italiani hanno o non hanno fatto a Surobi è agli atti dell´Isaf. Chi vuole veramente sapere, può verificare».
La risposta di Giuseppe Valotto, responsabile del Comando operativo interforze
ROMA - Non è una critica militare, è una reazione emotiva comprensibile dopo la strage: Giuseppe Valotto, responsabile del Comando operativo interforze, getta acqua sul fuoco delle polemiche. Generale, i francesi sono davvero convinti che la strage sia colpa degli italiani? «No, è solo la reazione a caldo di chi ha perso dieci uomini. Bastava attendere un momento e valutare con calma». Ma le critiche sono motivate? «Noi a Surobi abbiamo fatto un ottimo lavoro. Abbiamo avuto un morto, il maresciallo Pezzulo, ma anche dopo la nostra presenza è stata caratterizzata da un atteggiamento aperto verso la popolazione. È nel nostro Dna. Noi adottiamo il dialogo con le autorità locali, cerchiamo di capirne le esigenze senza dimenticare gli obiettivi di fondo della missione: garantire la sicurezza e contrastare traffici illeciti e attività di guerriglia. È la via italiana al peacekeeping». E qual è stato l´atteggiamento degli afgani? «È stato così positivo che molto spesso erano loro a segnalarci ordigni stradali o armi. Abbiamo registrato picchi altissimi di ritrovamento armi, ci hanno anche consegnato grandi quantità di droga». È vero che dopo la morte di Pezzulo per sei mesi nessuno ha pattugliato la valle di Uzbeen, e che il contingente ha di fatto dato via libera a tutti i traffici della zona? «No. Anch´io sono stato in quella zona. Le operazioni di controllo e di assistenza alla polizia locale erano regolari».
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