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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
19.08.2008 In Pakistan si dimette Pervez Musharraf
un paese chiave della guerra al terrorismo rischia ora la deriva fondamentalista

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Francesca Caferri
Titolo: «Pakistan, Musharraf se ne va «Lascio perché amo la patria» - Ma i suoi 007 hanno risuscitato Al Qaeda - È ora di rompere con gli Usa o dilagherà il terrorismo»
Tra le notizie cui i quotidiani del 19 agosto 2008 dedicano più attenzione, quella delle dimissioni di Pervez Musharraf, presidente del Pakistan, stato cruciale nella guerra al totalitarismo jihadista.

Da pagina 2 del CORRIERE della SERA, la cronaca di Lorenzo Cremonesi:


In Pakistan è finita ieri l'era, durata ben nove anni, del 65enne Pervez Musharraf. «Dopo lunghe consultazioni con i miei collaboratori, per il bene della patria, ho deciso di dimettermi. Non importa se ciò sia un bene o un male per me. Ciò che conta è l'onore del Pakistan. Ma non sono per nulla sicuro che ciò possa essere un bene per il nostro Paese e per la figura del presidente», ha detto Musharraf in un discorso carico di emozione durato oltre un'ora in diretta televisiva. Addirittura, più che un discorso, una sorta di sfogo pubblico, in cui quest'uomo, che dal suo colpo di Stato nel 1999 si è sempre considerato una sorta di padre della patria super partes, ha ripetuto la propria totale dedizione al Pakistan e al suo popolo. «Non voglio nulla da nessuno. Affido la mia sorte alla nostra gente», ha aggiunto con toni ispirati a negare vi sia stata alcuna intesa sottobanco per garantire il suo futuro con i leader dei due partiti maggiori, Asif Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e neo-presidente del Partito Popolare, e Nawaz Sharif, capo del Partito della Lega Musulmana, già due volte premier, e deposto manu militari proprio da Musharraf 9 anni fa.
Dal punto di vista formale, le dimissioni del presidente sono un evento previsto dalla costituzione pachistana. Già ieri al posto di Musharraf è stato designato il presidente del senato, Mohammadmian Soomro, in attesa che, entro 30 giorni, le due camere si riuniscano per eleggere il prossimo presidente dello Stato.
Anche la variabile dei militari, da sempre il vero potere forte del Paese, appare sotto controllo. L'attuale capo di Stato maggiore, generale Pervez Kayani, è il successore di Musharraf e un suo fedelissimo, oltre a essere molto vicino al Pentagono, ha assunto il suo ruolo solo lo scorso 28 novembre e appare determinato a mantenersi il più possibile neutrale.
Come si comporterà il prossimo presidente? Lascerà più spazio al potente Isi — il servizio segreto interno che dai tempi della guerra dei mujaheddin contro l'esercito sovietico in Afghanistan non ha mai davvero rinnegato le sue antiche simpatie filo-talebane — oppure ascolterà le ragioni occidentali? E come si muoveranno Zardari e Sharif? Il figlio di Benazir Bhutto, il quasi ventenne Bilawal, ha già detto di vedere nelle dimissioni di Musharraf «la vendetta per la morte di mia madre e contro chi affossa la democrazia». Ma il padre si dimostra più tiepido. Tutto sommato Zardari vedeva nel vecchio presidente golpista un alleato contro le ambizioni di Sharif. La sfida politica per il post-Musharraf è appena cominciata

L'analisi di Guido Olimpio sui dei servizi segreti pakistani con Al Qaeda:

I rapporti dell'intelligence americana non lasciano spazio a dubbi. Se «Al Qaeda centrale» è rinata lo si deve alle complicità in Pakistan. Non solo ha rimesso in piedi una struttura di comando- e-controllo ma sarebbe in grado di «radiocomandare» attentati in Occidente, affidati a reclute europee.
Perse le basi in Afghanistan, i qaedisti le hanno ricostituite dall'altro lato del confine, nella famigerata area tribale grazie al sostegno dei neo-talebani e all'appoggio di un buon numero di 007 pachistani dell'Isi. Recenti informazioni riferiscono di una estesa rete di punti d'appoggio dove sono nascoste armi, offerti rifugi e condotti addestramenti. Stime, forse eccessive, parlano di «300 siti» utilizzati da elementi pro Osama. Non si tratta certamente di campi troppo grandi e visibili. I terroristi temono la sorveglianza dei velivoli senza pilota americani e la ricognizione dei satelliti spia. E dunque hanno ripiegato su qualcosa di più agile, sufficiente però a mantenere l'instabilità.
I pachistani hanno applicato le regole di un «vecchio grande gioco ». Per tenere buoni gli americani hanno chiuso gli occhi in occasione di alcuni raid statunitensi e si sono limitati a protestare nel caso di «danni collaterali» eccessivi (la morte di civili innocenti). Per tenere buoni i militanti hanno lasciato che l'Isi mantenesse le «relazioni pericolose» con gli islamici. Un rapporto speciale costruito sin dalla guerra contro i sovietici quando gli 007 erano divenuti la cinghia di trasmissione che muoveva i mujaheddin. Facevano un favore a Washington, ma badavano soprattutto ai loro interessi: geopolitici, per avere le mani in pasta in Afghanistan; di bottega, per uncinare finanziamenti e traffici.
Ora gli Usa fanno la voce grossa, invitano Islamabad a fare piazza pulita delle mele marce. Ma ci vuole altro per spezzare un legame costruito attraverso un ventennio.

Getta una luce inquietante sulla situazione politica in Pakistan l'intervista di REPUBBLICA all'ex capo dell'ISI Hamid Gul.
La titolazione del pezzo presenta Gul come un esperto super partes che consiglia il dialogo con gli "estremisti"per evitare mali peggiori. Invece Gul è un fondamentalista e un sostenitore di Bin Laden.
Farne conoscere la posizione può essere una corretta e utile informazione, a patto di far capire chiaramente, anche ai lettori più frettolosi che si fermano ai titoli, di chi si tratta.

Ecco il testo, da pagina 4:

Parla Hamid Gul, ex capo dell´Isi e "padre" dei Taliban: "Sì al dialogo con gli estremisti"

È ora di rompere con gli Usa o dilagherà il terrorismo

Se il governo continuerà a battersi in nome degli Usa verrà il momento in cui il paese si rivolterà
 


Gli analisti occidentali considerano Hamid Gul l´anima nera del Pakistan. Ex generale dell´esercito, ma soprattutto ex capo dei temutissimi servizi segreti pachistani (Isi), Gul è l´uomo che ha creato i Taliban afgani e ha contribuito all´ascesa della stella di Osama Bin Laden. Con i soldi che tramite lui la Cia fece arrivare in Afghanistan fu finanziata la jihad contro i sovietici negli anni ´80; sotto la sua guida gruppi di guerriglieri sperduti si trasformarono in combattenti feroci e determinati. Dopo la cacciata dei sovietici Gul cambiò fronte: attaccò gli ex amici americani fino a dichiarare pubblicamente, nel gennaio 2001, appoggio a Bin Laden. Nemico giurato di Benazir Bhutto - che dopo l´attentato seguito al suo ritorno in patria, nell´ottobre 2007 lo accusò di essere il mandante di quelle bombe - ma anche di Pervez Musharraf, che lo ha fatto arrestare, Gul è uno degli uomini più potenti del Pakistan. E una delle chiavi del suo futuro.
Generale, lei oggi festeggia: il suo rivale costretto alle dimissioni...
«Si sbaglia. Se a quest´uomo sarà permesso di restare libero, se non dovrà pagare per aver ridotto il paese alla miseria e averlo reso schiavo degli Stati Uniti, per aver violato la Costituzione e fatto uccidere moltissime persone, io non festeggerò. Sarò furioso».
Parliamo di un´altra rivale. Ha vinto Benazir, anche da morta, dicono i suoi: era stata lei a chiedere con maggiore forza che Musharraf se ne andasse...
«Non so se abbia vinto. Io vedo il rischio che l´attuale leadership segua la linea che lei ha indicato, si pieghi alle pressioni degli americani, come ha fatto Musharraf, e prosegua nell´appoggio alla politica degli Stati Uniti: questo sarebbe sbagliato. L´esercito pachistano oggi combatte contro la sua stessa gente, in nome degli interessi americani. Se il governo continuerà su questa linea, resterà un governo di schiavi. Io vi avverto: se questo succederà verrà il momento in cui la gente del Pakistan si rivolterà e sceglierà il suo futuro».
Quale futuro nella sua visione?
«Deve cambiare tutto. L´infelicità e la povertà sono sempre maggiori e questo a causa di una guerra non nostra. È tempo di parlare con le persone con cui Musharraf e la Bhutto hanno promesso di combattere: sono pachistani, come noi».
Sono anche combattenti che uccidono militari occidentali e civili afgani partendo dalle loro basi nel suo paese...
«Sono uomini d´onore. Non sono contro il Pakistan, combattono una guerra di liberazione contro truppe straniere che sono venute nel nostro e nel loro territorio. Perché erano eroi quando si battevano contro i russi e ora sono assassini? Finisca l´occupazione in Afghanistan e finiranno i morti».
Lei sa che la linea della comunità internazionale è opposta a quella che lei delinea...
«Cos´ è la comunità internazionale? Quella che vedo io è una mafia al servizio degli americani: vogliono comprare il mondo, non compreranno il Pakistan. Glielo garantisco, la fine di Musharraf è solo l´inizio: il Pakistan tornerà sulla sua strada. Che non è a fianco dell´America ma contro di essa».
E lei che ruolo avrà?
«Quello che mi chiederanno di avere. Se Sharif e Zardari rinsaviranno, potranno contattarmi. Io posso iniziare un processo che fermerà la lotta fra i pachistani. Tutti conoscono me nelle zone di frontiera, io conosco tutti. Se capiranno che c´è un cambio di direzione quelli che ora combattono chiameranno me per sedersi intorno a un tavolo con i successori del dittatore. Se questo non accadrà e le posizioni resteranno le stesse il Pakistan esploderà».

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