Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Omissioni e allusioni: la disinformazione sull'attentato in Libano nella versione moderata e in quella estremista
Testata:L'Unità - Il Manifesto Autore: Davide Vannucci - Michele Giorgio Titolo: «Libano, strage a Tripoli - Strage sul bus a Tripoli, sangue contro la stabilità»
L'ipotesi, avanzata da molti analisti libanesi, di una "mano siriana" dietro l'attentato di Tripoli non è neppure accennata nella cronaca dell' UNITA' L'autore, Davide Vannucci, loda invece il compromesso tra forze antisiriane e Hezbollah, che di fatto ha consegnato il paese al gruppo terroristico sciita e alla sua linea di guerra a oltranza a Israele. Il Libano è definito "uno Stato che vuole riuscire in un’impresa opposta a quella qaedista, conciliare le varie confessioni". Lo stesso ruolo di Damasco è presentato in una luce dicisamente positiva. senza dubbi di sorta sulla veridicità delle dichiarazioni ufficiali.
Ecco il testo completo:
QUANDO IL TERRORE sceglie di colpire, la data sul calendario non è mai il frutto del caso. Così, nel giorno in cui Michel Suleiman, il generale divenuto presidente, vola a Damasco per rendere normali le relazioni con la Siria, qualcuno, in patria, gli ricorda che il Libano un Paese normale ancora non lo è. Erano le otto del mattino, ieri, a Tripoli, novanta chilometri a Nord di Beirut. Il centro città era affollato, gli autobus colmi. Davanti a una fermata di mezzi pubblici c’era un sacco apparentemente innocuo, adagiato per terra, a due passi da una banca. Poi, all’improvviso un’esplosione. Un autobus va in fiamme. Muoiono almeno 18 persone, tra cui nove militari e una bambina di cinque anni. I feriti sono più di quaranta. Per capire il perché di una strage nel cuore della seconda città libanese, bisogna studiarne il contesto. Dopo 18 mesi di contrasti, sunniti anti-siriani e sciiti filo-Damasco hanno raggiunto un accordo a Beirut, eleggendo alla presidenza della Repubblica il generale Suleiman e formando un governo di unità nazionale, guidato dal sunnita Siniora, in cui gli sciiti di Hezbollah hanno il diritto di veto. Ma a Tripoli la notizia dell’intesa di maggio sembra non essere mai arrivata. A giugno almeno 20 persone sono state uccise in scontri di strada tra bande sunnite e gruppi di alawiti, fedeli al blocco siriano. Poi, il 26 luglio, è arrivato in grande stile l’esercito libanese. Non c’è stata più traccia di scontri, ma nessun miliziano è stato arrestato e nessuna arma è stata sequestrata. In sostanza, una tregua temporanea, in assenza di un accordo tra le fazioni. Ma Tripoli è soprattutto la roccaforte degli integralisti vicini ad Al-Qaeda. Fu proprio a sedici chilometri dalla città, nel campo profughi palestinese di Nahr al Bared, che i miliziani qaedisti di Fatah al Islam ingaggiarono nell’estate del 2007 una dura battaglia con l’esercito di Beirut. Alla fine la rivolta fu domata, ma sul campo morirono più di 400 persone, tra cui 170 soldati libanesi. A guidare le forze armate, all’epoca, c’era proprio Suleiman. Da allora, Fatah al Islam ha giurato vendetta. Vendetta all’esercito (molti dei militari su quell’autobus stavano andando al lavoro), vendetta a uno Stato che vuole riuscire in un’impresa opposta a quella qaedista, conciliare le varie confessioni. Allora si capisce perché, in assenza di rivendicazioni, molti pensino alla firma degli integralisti, con una bomba comandata, probabilmente, a distanza. Quello che colpisce è che la condanna sia unanime, e soprattutto che nessuno punti il dito contro la Siria. L’esercito denuncia «l’atto terroristico diretto contro l’istituzione militare e la coesistenza pacifica nel Paese». Il premier Siniora promette che «non si fermerà lo slancio del governo». Suleiman esorta «alla riconciliazione e all’unità contro il terrorismo». La Siria, dal canto suo, parla di «attentato criminale» e ribadisce gli sforzi per garantire «la stabilità e la sicurezza» di Beirut. Un clima nuovo, segnato dalla visita di ieri, la prima di un presidente libanese dal 2005, quando Damasco fu costretta a ritirarsi dal Libano, dopo le pressioni internazionali seguite all’omicidio di Rafik Hariri, l’ex premier anti-siriano. Suleiman e Bashar al-Assad si sono stretti la mano. Cercheranno di stabilire normali relazioni diplomatiche, aprendo le rispettive ambasciate nei 2 Paesi. Parleranno di frontiere, della revisione di antichi accordi, dei prigionieri libanesi in Siria e di quelli siriani in Libano. Un primo passo verso la normalità.
La versione del MANIFESTO è, come spesso accade, una versione estremista e quasi caricaturale di quella dell'UNITA'. "Strage sul bus a Tripoli, sangue contro la stabilità" è il titolo della cronaca di Michele Giorgio, che spiega"«qualcuno» ha capito che non c'è alcuna possibilità di imporre il disarmo al movimento sciita, almeno sino a quando Israele occuperà il Golan siriano e le «Fattorie di Sheeba» libanesi. Con le bombe, quel «qualcuno» spera di far saltare la polveriera libanese". Sono chiarissimi l'allusione infondata a Israele e il sostegno alla "resistenza" di Hezbollah (per la quale fattorie Sheeba e Golan siriani sono solo pretesti, essendo il suo vero obiettivo la distruzione di Israele). Il quotidiano comunista conferma ogni giorno di essere il bollettino di guerra dell'islamofascismo. Ecco il testo:
Doveva essere il giorno tanto atteso della riconciliazione tra Beirut e Damasco, tra due paesi che non possono e non dovranno mai essere nemici, nel rispetto della loro storia comune e dei forti legami tra le due popolazioni. Il giorno dell'incontro in Siria tra i presidenti Michel Suleiman e Bashar Assad conclusosi con lo storico annuncio dell'apertura di ambasciate nelle rispettive capitali e del rispetto delle sovranità. Il 13 agosto, invece, verrà ricordato soprattutto per la carneficina avvenuta a Tripoli, la città portuale a nord del Libano, sconvolta dall'esplosione di una bomba confezionata con biglie di piombo per ampliarne la capacità distruttiva, che ha ucciso almeno 17 persone, tra cui una bimba di cinque anni, e ferito una quarantina d'altre. E' stato un segnale forte e inequivocabile lanciato da chi non gradisce la stabilità che il Libano sta faticosamente riconquistando dopo le sanguinose tensioni dei mesi scorsi, prima con la nomina del nuovo capo dello stato e poi, appena due giorni fa, con la fiducia accordata al nuovo governo di unità nazionale guidato da Fuad Siniora e di cui fa parte anche il movimento sciita Hezbollah. Un quadro politico che evidentemente non piace a chi al contrario aveva scommesso sulla crescente ostilità tra Siria e Libano e che ora soffia sul fuoco del confronto violento tra musulmani sunniti e sciiti per scardinare il nuovo ordine libanese. Sullo sfondo perciò si muovono quei gruppi radicali sunniti, pallide imitazioni di al Qaeda, che non poche volte trovano appoggi e sostegni proprio in forze politiche libanesi che sono note per la loro fedeltà all'Amministrazione Bush. L'esplosione, innescata con un telecomando e avvenuta poco prima delle otto del mattino, ha investito in pieno un autobus pubblico sul quale si trovavano, oltre ai normali passeggeri, anche numerosi soldati. L'attentato è stato compiuto con la volontà di uccidere il maggior numero possibile di persone, poiché è stato messo a segno a una fermata di autobus in una delle più affollate strade del centro della città nell'ora di punta mattutina. In un comunicato, l'esercito ha denunciato che si tratta di «un atto terroristico diretto contro l'istituzione militare e contro la coesistenza pacifica in Libano». Da molti mesi l'esercito infatti è presente in forze a Tripoli e da due settimane è stato schierato - con l'ordine di fare ricorso alla forza se necessario - tra due quartieri alla periferia della città - Bab Tabbaneh e Jabal Mohsen - teatro di violenti scontri tra miliziani sunniti e alawiti (sciiti) che hanno causato oltre venti morti e messo in fuga dalle loro case centinaia di famiglie. L'attacco ieri sera non era stato ancora rivendicato ma in molti pensano a una azione di Fatah al Islam, l'organizzazione qaedista che lo scorso anno, dopo essersi infiltrata a Nahr al Bared (10 chilometri a nord di Tripoli) aveva impegnato l'esercito libanese in un lungo conflitto, durato da maggio a settembre e costato la vita di 166 soldati, di decine di civili palestinesi, di almeno 250 miliziani islamici e la distruzione di gran parte del campo profughi palestinese (gli abitanti in buona parte vivono ancora in container, scuole, edifici pubblici e nell'altro campo di Beddawi). Fatah al Islam, che nel febbraio 2007 aveva rivendicato un attentato, anche allora contro un autobus, nella cittadina cristiana di Ain Alak (tre morti), aveva giurato di vendicarsi contro il Libano e il suo esercito, peraltro guidato sino a tre mesi fa proprio da Michel Suleiman che prima di essere eletto presidente era il comandante delle forze armate e aveva guidato la battaglia di Nahr al Bared. Ed è proprio a Tripoli che Fatah al Islam continua a trovare sostegni, grazie alla presenza nella città portuale, storica roccaforte del sunnismo più estremista, di potenti e ben organizzati gruppi salafiti che fanno talvolta riferimento al partito Mustaqbal (Futuro) e al suo leader Saad Hariri, ritenuto da diversi esponenti del radicalismo islamico locale, come Dai al Shahal al Islam o l'ex sceicco fuggito dalla Gran Bretagna Omar Bakri, il «capo» dei sunniti libanesi. Il quartiere di Abu Samra, trasformato dai rappresentanti salafiti locali in una sorta di emirato islamico e dove dominano poster giganteschi di Saad Hariri, è un rifugio ideale per i ricercati di Fatah al Islam così come lo sono Akkar e Dinniyeh, centri abitati ben noti per il loro fervore religioso usato in funzione anti-Hezbollah. Lo scorso maggio quando i miliziani di Hezbollah, in poche ore, sbaragliarono le forze fedeli a Saad Hariri e presero con la forza il controllo della zona musulmana (ovest) di Beirut, devastando sedi di partito e di mezzi d'informazione, la rabbia dei leader sunniti di Tripoli raggiunse il punto più elevato. Dai al Shahal al Islam e altri salafiti chiesero ai sunniti di prendere le armi contro «gli apostati sciiti» e di difendere la vera fede. Una rabbia che poi si è incanalata nello scontro con gli alawiti (sciiti) di Jabal Mohsen, che ha vissuto giorni tragici e sanguinosi nelle scorse settimane fino all'intervento dell'esercito regolare. «Durante gli scontri tra Bab Tabbaneh e Jabal Mohsen, i leader salafiti sono stati in prima fila incitando i giovani sunniti di Tripoli a regolare i conti con gli alawiti. Per loro era anche l'inizio della rivincita contro Hezbollah», spiega Mohammed Ali, un giovane reporter libanese che ha seguito i recenti scontri a fuoco a Tripoli. Rivincita che la nascita del nuovo governo di unità nazionale - dove Hezbollah e i suoi alleati hanno potere di veto e sono riusciti a far inserire nel programma il «diritto alla resistenza» - rischia di bloccare sul nascere, con forte disappunto degli estremisti sunniti manovrati anche dall'estero. La questione delle armi di Hezbollah è in cima all'agenda del dialogo nazionale, la tavola rotonda che Suleiman dovrebbe convocare al più presto, ma «qualcuno» ha capito che non c'è alcuna possibilità di imporre il disarmo al movimento sciita, almeno sino a quando Israele occuperà il Golan siriano e le «Fattorie di Sheeba» libanesi. Con le bombe, quel «qualcuno» spera di far saltare la polveriera libanese
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