Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Ogni occasione è buona per la disinformazione e quella della morte di Mahmoud Darwish non poteva essere tralasciata
Testata:La Repubblica - Il Manifesto Autore: Tahar Ben Jelloun - Michele Giorgio Titolo: «"Porto la Palestina nelle vostre case" - Ultimo viaggio a Ramallah»
La morte del poeta palestinese Mahmoud Darwish era un'occasione troppo favorevole alla disinformazione antisraeliana per non essere sfruttata.
Su REPUBBLICA del 12 agosto 2008 a commemorare Darwish è Tahar Ben Jelloun. Ben Jelloun definisce Darwish un "esiliato", mentre il poeta palestinese visse per anni in Israele, ad Haifa, città che lasciò volontariamente solo negli anni Settanta. Loda il suo "scetticismo" nei confronti degli accordi di Oslo, cioé il rifiuto del compromesso con Israele. Falsifica i termini della polemica che durante il governo Barak ebbe luogo in Israele sull'opportunità di inserire le poesie di Darwish nei programmi scolastici israeliani. La contrarietà di Barak e di molti altri israeliani era dovuta all'antisionismo di Darwish e al suo sostegno ideologico al terrorismo non alla "paura" per "la resistenza, la giustizia e la dignità" e altri "valori universali".
Ecco il testo dell'articolo
Mahmoud Darwish era mio amico. Un amico raro, prezioso, di somma eleganza, rigoroso, leale, determinato e oltre tutto aveva senso dell´umorismo. Ricordo di averlo visto nel 1984 - dopo il suo primo infarto - cercare un accendino mentre reggeva tra le dita una sigaretta. Gli dissi: «Non puoi fumare, il tuo cuore è malandato!», ed egli mi rispose: «Il medico mi ha vietato di fumare, di bere e anche tutto il resto. Questa però non è vita, non voglio vivere così!». Ha continuato dunque a vivere come voleva, senza prendersi cura di sé, senza risparmiarsi fino al suo secondo infarto, avuto nel 1998; l´ultimo, quello del 9 agosto, gli è stato fatale. Era solito ripetermi: «Non abbiamo uno Stato, ma abbiamo molto umorismo» e a tal proposito citava il suo amico, il romanziere arabo - israeliano Emile Habibi, scomparso anch´egli in giovane età. Ho avuto la felicità - e sperimentato la difficoltà - di tradurre alcune delle sue poesie ed è nel corso di tale lavoro che mi sono reso conto di quanto feconda fosse la sua fantasia, quanto inconsueto e splendido il suo vocabolario. In qualche caso per tradurre un´unica sua parola ho dovuto scrivere una frase intera. Era nato poeta, non lo è diventato: lo era dalla nascita. Non era militante nel senso classico del termine, anzi, direi che non era nemmeno un poeta impegnato, perché con tutto il suo essere la sua vita aveva senso e significato soltanto grazie alla poesia e nella poesia. Non era poeta in quanto palestinese o perché aveva patito lo sradicamento e l´esilio, ma era poeta proprio per poter esprimere ciò che milioni di uomini soffrono: ingiustizie, umiliazioni, privazioni e disprezzo. Detestava che di lui si dicesse che era un «poeta della resistenza»: come comune cittadino resisteva, ma il poeta che era in lui andava oltre, portava il sogno di un popolo nei focolari più lontani e più estranei alla questione palestinese. Uno dei suoi primi componimenti dice: «Colui che mi ha trasformato in esule mi ha trasformato in bomba. So che sto per morire, so di combattere una battaglia persa per il momento, perché essa appartiene al futuro. So che la Palestina - sulla carta - è lontana. So che avete dimenticato il mio nome, la cui traduzione avete deformato. So tutto questo. Ed è per questo che porto la Palestina fin nei vostri boulevard, nelle vostre case, nella vostra camera da letto». Ha assunto posizioni politiche inequivocabili, in modo particolare quando ha lasciato l´Olp nel 1993 per esprimere il proprio scetticismo - per non dire opposizione - nei confronti degli accordi di Oslo. Ciò che è accaduto in seguito - ahimè - gli ha dato ragione. Come il suo compatriota Edward Said, aveva uno spiccato senso della politica, perché era un uomo libero, mai assoggettato a un partito o un´ideologia (entrò nel partito comunista palestinese nella prima giovinezza). Ma a contare davvero nella sua vita è stata la scrittura, la poesia. Era folle d´amore: amore per la libertà, per la terra confiscata, per la sua casa natale rasa al suolo dall´occupante. Era folle d´amore per la lingua araba, per la donna, tutte le donne che non sono metafore della patria assente. Folle d´amore per gli altri, quelli ai quali pensava ogniqualvolta prendeva in mano la penna. Folle d´amore per la vita che lo sfidava. Si rallegrava dei propri sogni, delle proprie ambizioni. Era un uomo ebbro di vita, che non si lasciava mai ingannare dalle apparenze, dalle menzogne della politica. Molto semplicemente, era un visionario, senza scalpori. Non parlava mai di sé, della sua poesia. Non attirava mai volutamente l´attenzione su di sé, amava ridere, scherzare, e raccontare con leggerezza episodi gravi. Un giorno, a Valencia - stavamo chiacchierando non ricordo più di che cosa, ma rammento distintamente le sue parole - mi disse la seguente frase: «Io abito in una valigia». In quelle parole c´era l´esilio, il suo dolore per l´esilio. Ne parlava a spizzichi e per metafore, senza soffermarvisi mai troppo. È diventato famoso per una poesia che inizia così: «Scrivi: sono arabo». Poesia di circostanza, in realtà, che non ha mai amato molto e che l´ha perseguitato per molto tempo. Per reazione, forse, ha scritto molte poesie d´amore e per amore. Una delle sue ultime composizioni comincia con questi versi: «Egli le disse: «Ah, se fossi più giovane!». Ed ella rispose: «Crescerei di notte, come il profumo del gelsomino in estate» e poi aggiunse: «E tu, tu ringiovaniresti dormendo, perché chi dorme è bambino. In quanto a me veglierò fino al mattino, tanto da far annerire le mie occhiaie». Era un uomo celebre. Quando recitava le sue poesie, la folla si accalcava. Ricordo che una sera al teatro Mohamed V a Rabat dovette intervenire la polizia a disperdere più di duemila persone che non erano riuscite a entrare nella sala. Ovunque si esibisse accorrevano migliaia di suoi ammiratori che conoscevano a memoria i suoi versi. Nel mondo arabo una popolarità simile è usuale per i poeti, ma per Mahmoud c´era qualcosa in più: amore sincero e passione. Alcuni confondevano il poeta con la causa del suo popolo, ma egli smentiva questa corrispondenza, insistendo invece sull´umiltà del poeta. A distinguerlo dagli altri poeti arabi era la sua rottura nei confronti delle litanie, della nostalgia, della pioggia di parole e sentimenti. Egli ha dato alla poesia araba una nuova direzione, più intransigente, le ha dato un soffio nuovo più vicino al surrealismo o a un realismo crudo e pungente. Non si lamentava mai. Attingeva le sue parole da un linguaggio semplice, puntava all´essenziale passando per il sogno e i suoi effetti. I temi che trattava erano universali: la terra, l´esilio, la morte, l´amore impossibile, la disperazione di coloro che sono deprivati di tutto, compresa la speranza. Come ha scritto il suo amico e traduttore (in francese) Elias Sanbar: «Al di là di qualsiasi preoccupazione tecnica, sussistono le sue scelte primarie: in poesia qualsiasi idea, qualsiasi pensiero deve passare per i sensi. La poesia è prima di tutto orale, e dunque musica. Ed essa per resistere alla violenza del mondo si arma dell´umana fragilità». Nel 2000 il ministro israeliano dell´Educazione, Yossi Sarid, aveva proposto che alcune poesie di Mahmoud Darwish fossero inserite nei programmi scolastici, ma il primo ministro all´epoca, Ehud Barak, vi si era opposto. La poesia è pericolosa, è contagiosa, indubbiamente. La poesia di Mahmoud Darwish celebra la resistenza, la giustizia e la dignità, valori universali che ancor oggi incutono paura. E non soltanto in Israele. Su Il MANIFESTO Michele Giorgio non è da meno di Ben Jelloun. Anche per lui Darwish era un "esiliato", come il capo di Hamas Khaled Meshal (che in realtà vive a Damasco per tenere le fila delle operazioni terroristiche del gruppo islamista), che ha definito il poeta scomparso una delle "massime espressioni della cultura e della identità dei palestinesi". Israele è un corpo estraneo che ha preso il posto della "patria" di Darwish, valea dire uno Stato arabo su tutto il territorio della Palestina mandataria. Gli accordi di Oslo erano da rifiutare in quanto ponevano fine al "sogno palestinese", cioé la distruzione di Israele.
Ecco il testo:
«O caro amico, ci è sufficiente dipingere con l'inchiostro dell'anima e con il sangue della poesia una chiara freccia (spero che sia chiara), che indichi la direzione giusta verso il nostro carrubo, il nostro ulivo e i fiori della nostra splendente prugna». Così 22 anni fa Samih Qassem, poeta druso palestinese e giornalista scriveva all'amico Mahmud Darwish. «Spesso comunicavamo con i versi, la nostra era una amicizia speciale, unica, e poco importa se ci sentivamo in competizione», ci disse Qassem qualche anno fa in una intervista. E Qassem lo piangeva ieri quel suo amico-fratello che negli ultimi tempi parlava spesso della fine della sua vita e la morte ha portato via lasciando un vuoto incolmabile tra i palestinesi. «Vi prego, lasciatemi solo, non riesco ancora a crederci», diceva ieri Qassem hai giornalisti che provavano a raccogliere qualche suo commento alla scomparsa di Darwish, deceduto sabato scorso in un ospedale del Texas. È un dolore diffuso, che tocca ogni palestinese, dall'intellettuale al più semplice dei lavoratori, nei Territori occupati e in esilio. Uomini e donne, anziani e ragazzi. Senza eccezioni. Dalla Galilea a Gerusalemme fino al deserto del Neghev. Ieri nelle strade di Ramallah, dove Darwish ha vissuto gli ultimi 14 anni, sono state issate su balconi, tetti e piloni dell'elettricità migliaia di bandiere e poster con l'immagine del poeta. Da sabato scorso radio e televisioni, palestinesi e arabe, continuano a trasmettere documenti sonori e immagini del poeta. Amici e colleghi di Darwish si alternano ai microfoni e davanti alle telecamere per raccontare episodi legati alla sua vita, il suo amore per la Palestina ma anche qualche curiosità diventente volta ad addolcire il ricordo di quella sua eccessiva riservatezza. «Per me era una continua fonte di ispirazione, il fatto che sia morto non cancella la sua opera che resterà per sempre con noi», ha commentato Butheina Arraf, una studentessa dell'università di Bir Zeit. «La poesia che aveva dedicato a sua mamma (resa celebre dal famoso cantautore libanese Marcel Khalife, ndr) appartiene a ogni madre palestinese che poi non è altro che la terra di Palestina», ha aggiunto da parte sua Khawla Abdel Hadi, una insegnante. Non solo le poesie ma anche la vicenda personale rendeva sempre vicino alla sua gente lo schivo Darwish, poeta della «resistenza» è stato detto ma soprattutto poeta dell'«esistenza» di un intero popolo. Nato a Birwah, in Galilea, nel 1941, Darwish all'età di sette anni, nel 1948, visse la tragedia della dispersione del suo popolo (Nakba) e finì in Libano. Il padre rifiutò di diventare profugo e preferì ritornare, con enorme difficoltà, in una patria ormai divenuta Stato di Israele. Scrisse la sua prima poesia già alle elementari e da adolescente mise subito in mostra il suo enorme talento. Gli arresti da parte delle autorità israeliane e le difficoltà della vita affinarono le sue liriche tanto che attirarono l'attenzione di lettori e critici. Darwish lavorò per Al Ittihad, il giornale del partito comunista, e si stabilì nella città di Haifa, dove divideva una camera con l'amico Samih Qasem. All'inizio degli anni Settanta, clamorosamente decise di trasferirsi in Libano, scegliendo la via dell'esilio. Qui si unì all'Olp e rimase con la sua gente durante la guerra civile e l'invasione israeliana (1982) fino al trasferimento forzato a Tunisi e alla successiva partenza per Parigi. Nel 1993 non accettò gli accordi di Oslo fra l'Olp e Israele perché convinto che avrebbero messo fine al sogno palestinese. Parole di apprezzamento per l'opera di Mahmud Darwish sono state espresse da esponenti della cultura e della politica di tutto il mondo, tra cui il presidente francese Nicolas Sarkozy. Espressioni di stima sono giunte anche da qualche esponente israeliano. L'ex ministro dell'istruzione Yossi Sarid ha affermato che «i nostri ragazzi conoscono il poeta nazionale israeliano Haim Bialik e possono imparare a conoscere il loro (dei palestinesi, ndr) poeta nazionale». Nettamente contrario si è detto il deputato Zevulun Orlev, secondo il quale «quelle poesie potrebbero favorire lo sviluppo di sentimenti contro il Sionismo, l'Ebraismo e Israele». Alla fine degli anni Novanta un poema di Darwish, And we will love, venne inserito nei programmi di letteratura nelle scuole superiori di Israele. La decisione venne però revocata dall'allora premier Ehud Barak (ora leader laburista). L'Anp ha proclamato tre giorni di lutto nazionale e ha organizzato, per domani, «funerali di stato» per il poeta palestinese, paragonabili a quelli per il presidente Yasser Arafat morto quattro anni fa. Darwish verrà sepolto a Ramallah e non nel villaggio di Jadida (Galilea) dove risiede parte della sua famiglia. La salma arriverà domani mattina ad Amman. Poi, in elicottero, verrà trasferita alla Muqata di Ramallah, dove si svolgerà una cerimonia ufficiale alla presenza del presidente Abu Mazen. Dopo il corteo funebre, al quale parteciperanno decine di migliaia di persone, attraverserà il centro della città fino a un giardino adiacente al Palazzo della Cultura dove avverrà la sepoltura e, in seguito, sarà costruito un mausoleo. Hamas intanto resta in silenzio. Non è chiaro se il movimento islamico si unirà alle commemorazioni nonostante il suo leader in esilio, Khaled Mashaal, abbia definito Darwish una delle «massime espressioni della cultura e della identità dei palestinesi».
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