Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La situazione politica in Israele dopo l'annuncio di dimissioni di Olmert
Testata:Il Giornale - La Stampa Autore: Matteo Buffolo - Gian Micalessin - R.A Segre - Francesca Paci Titolo: «Opposizione all’attacco: «Israele subito al voto» - La sfida decisiva di Tzipi Livni l’ex agente del Mossad che vuole diventare Golda Meir - Olmert se ne va, ma lo rimpiangeranno - Questo Olmert dimezzato potrebbe portarci alla pace»
I giornali del 1 agosto 2008 pubblicano diversi articoli sulla situazione politica interna di Israele dopo l'annuncio di Olmert, che si dimetterà da capo del governo e non parteciperà alle primarie del suo partito Kadima.
Dal GIORNALE, la cronaca di Matteo Buffolo sulla richiesta di elezioni anticipate da parte del capo del Likud Netanyahu:
Dopo l’annuncio di dimissioni del premier Ehud Olmert, ieri l’opposizione israeliana è partita alla carica. «Vogliamo le elezioni anticipate» ha tuonato ieri Benyamin Netanyahu, il leader del Likud che i sondaggi indicano vincente in caso di ricorso alle urne. «Questo governo è arrivato al capolinea, e non ha alcuna importanza chi diverrà capo di Kadima - ha tagliato corto Netanyahu, a sua volta ex premier, intervistato dalla radio statale -. Sono tutti implicati nel totale fallimento del governo in carica». Con queste dichiarazioni, si apre per Israele un periodo di grande turbolenza e incertezza politica. Sia interna, che estera. Se da un lato a far da contraltare al leader del Likud c’è il ministro degli Esteri Tzipi Livni, che si appella al senso di unità nazionale, dall’altro la sponda resta il presidente palestinese Abu Mazen. Il capo di Fatah ha detto che coopererà con chiunque prenderà il posto di Olmert per portare avanti il processo di pace, ma per i moderati palestinesi, a loro volta impegnati in un braccio di ferro con Hamas, l’allontanamento di Olmert rischia di arrestare, almeno temporaneamente, il processo di pace. Intanto la decisione di Olmert ha acceso anche la competizione all’interno del suo partito, Kadima. Ufficialmente sono quattro i candidati che aspirano alla leadership del movimento: oltre alla Livni, sarebbero anche in corsa il ministro degli interni Meir Shitrit, il ministro per la sicurezza interna Avi Dichter, ma soprattutto il ministro dei trasporti Shaul Mofaz. È proprio lui, infatti, a essere l’unico rivale credibile per l’ex agente del Mossad, almeno stando ai sondaggi. Chiunque vinca, però, dovrà ottenere la fiducia del Parlamento, per nulla scontata: il nuovo governo dovrà, per forza di cose, essere un esecutivo di coalizione. La sua nascita, dunque, non dipenderà solo dal nuovo leader di Kadima, ma anche dai calcoli degli altri partiti, laburisti in testa. Ed Ehud Barak, premier dal 1999 al 2001, non sembra aver rinunciato all’idea di giocare le sue carte per tornare a guidare il governo israeliano anche se un ricorso alle urne potrebbe punire i laburisti. Se non si riuscisse a formare un nuovo governo la sola via d’uscita dalla crisi sarebbe quella delle elezioni anticipate, da indire entro tre mesi dal fallimento dei negoziati. E in questo caso, il governo Olmert potrebbe durare ancora a lungo: da un lato, per dare il tempo al suo successore alla guida di Kadima di formare il nuovo governo, dall’altro, se il nuovo leader dei moderati dovesse fallire, per guidare Israele fino alle elezioni, come ipotizzato dal vicepremier Haim Ramon.
Sempre dal GIORNALE, un ritratto di Tzipi Livni, di Gian Micalessin:
Sua madre assaltava e svaligiava treni inglesi. Suo padre venne condannato a quindici anni di carcere da una corte militare britannica. Lei, se tutto va bene, può diventare la Golda Meir del ventunesimo secolo. A settembre potrebbe uscire vincitrice delle primarie di Kadima e a quel punto essere posta a capo del governo al posto del dimissionario Olmert. Ma la signora Tzipi Livni, 49enne ministro degli Esteri israeliano con alle spalle una turbolenta carriera da Mata Hari del Mossad, sa che in politica nulla è scontato. Soprattutto se ai vertici del tuo partito ci sono un ex capo di Stato maggiore durissimo e senza scrupoli come il responsabile dei Trasporti Shaul Mofaz e un ex capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) aggressivo come il ministro della Sicurezza Avi Ditcher. Ma il suo nemico principale alberga dentro di lei, si nasconde in quel carattere discontinuo che la fa scalpitare troppo o la fa apparire incapace di decidere. È il suo tallone d’Achille, è la naturale conseguenza di un quoziente intellettivo capace di farle superare la soglia della genialità, ma anche di farla macerare nell’incertezza. Sa che il destino le ha consegnato un pedigree da manuale, ma sa anche che in questi due anni da ministro degli esteri non sempre lo ha usato al meglio. In Israele nessuno dimentica le sue espressione da gatta imbronciata nei 34 giorni di guerra ad Hezbollah. In quella torrida estate del 2006, pur non condividendo l’idea di Olmert e degli alti comandi di attaccare a testa bassa, Tzipi se ne resta al suo posto senza protestare, senza dimettersi. Poi durante l’inchiesta della commissione Winograd pugnala alle spalle il premier, dissociandosi pubblicamente dalla gestione della guerra. Lo sconcerto dell’opinione pubblica la costringe però ad un umiliante dietrofront. Le recenti rivelazioni sul suo passato da agente del Mossad e di grande cacciatrice di terroristi palestinesi in Europa sono, a detta di molti, un tentativo di far dimenticare quella figuraccia. Ma quel passato è autentico e s’addice perfettamente a un aspirante premier israeliano. Entrata nell’intelligence al termine di un brillante servizio di leva con il grado di tenente, la Tzipi si laurea in legge e firma per l’arruolamento nel Mossad. Nei primi anni ’80 si ritrova a Parigi, infiltrata in quegli ambienti della sinistra «gauche caviar» dove terroristi, militanti e liberi pensatori si mescolano e confondono tra le fumose brasserie della Senna. Da lì a girare per mezza Europa è un passo. Ma dura poco. L’atto finale per Tzipi arriva il 21 agosto 1983. Quel giorno ad Atene una squadra del Mossad, attivata grazie alle sue informazioni, intercetta ed elimina Mamoun Maraish un alto dirigente dell’Olp. La missione riesce, ma lei è bruciata e i superiori la fanno rientrare in Israele. La successiva carriera negli uffici legali del Mossad affina la sua intelligenza e le sue doti di raffinato leguleio capace di tessere piani al limite dell’immaginazione. Da dietro quelle scrivanie Tzipi la ragazza “pasionaria”, figlia di due militanti dell’Irgun ricercati come «terroristi» dagli inglesi, incomincia ad assaporare il fumo sottile della politica. Il primo a scoprirla, ma anche ad umiliarla, è il vecchio Ariel Sharon. Nel 2003 l’ex avvocato del Mossad passato tra le fila del Likud pensa di esser pronta a sedersi sulla poltrona di ministro della sicurezza. Ma il vecchio Sharon fedele all’idea che la gonna non s’addica alla sicurezza, la relega in un incarico di secondo piano, l’immigrazione. Tzipi non demorde. Il suo capolavoro è il documento del 2004 con cui convince i ministri del Likud a votare il ritiro da Gaza pur restando fedeli ad un referendum interno che lo rifiuta in toto. Con quel distillato di ambiguità l’ex spia mette le mani sul ministero della Giustizia, esordisce nella sfera della grande politica nazionale si conquista la fiducia del ruvido Arik. Ora deve solo dimostrare di esserne la vera erede.
E un bilancio del governo Olmert, di R.A. Segre:
Quanto tempo ci vorrà perché l'opinione pubblica israeliana rimpianga Olmert dopo l’annuncio delle sue prossime dimissioni? Meno di quanto i suoi avversari prevedono. Un primo segnale lo dava ieri il Jerusalem Post parlando della «dignitosa fine» della presidenza Olmert dopo averlo coperto di (sinora mai provati) sospetti di malversazione. Per l'altro grande quotidiano israeliano Haaretz il desiderio di ferire questo leader è ancora vivo. «Ehud Olmert ha fallito in guerra come in pace», scriveva ieri un suo editorialista, il che per lo meno è solo parzialmente vero. Anzitutto perché il fallimento del tentativo di distruggere gli Hezbollah nella seconda guerra del Libano (voluta all'unanimità dall'opinione pubblica israeliana) è - come notava la commissione d'inchiesta sul conflitto - attribuibile agli errori e alle incertezze di Olmert ma anche all'impreparazione dell'esercito, della difesa civile, dell'intelligence di cui tutti i suoi predecessori appaiono colpevoli. In secondo luogo perché proprio la debolezza provocata dagli attacchi mossi contro il premier lo hanno indotto a una proficua prudenza nei confronti degli arabi: pacificazione, grazie alla presenza delle forze dell'Onu nel Libano, della frontiera settentrionale dopo anni di sanguinosa turbolenza; difficile ma saggio controllo delle risposte agli attacchi di Hamas da Gaza. Esso ha contribuito a provocare la rottura del fronte palestinese, l'aggravamento dei rapporti fra Hamas e l'Egitto, la domanda di una tregua da parte di Hamas che dimostra quanto sia stata efficace la tattica di risposte limitate e mirate piuttosto di una inutile sanguinosa rioccupazione di Gaza come molti critici di Olmert chiedevano. La storia dirà l'ultima parola sull'operato di un uomo che ha dimostrato di possedere una qualità politica che manca a molti suoi critici: nervi d'acciaio e capacità di resistere senza perdere la testa alle massime pressioni. Se l'inchiesta per uso improprio di fondi (che Olmert afferma aver usato a scopi elettorali, non personali) dovesse alla fine dimostrarsi inconcludente «le autorità preposte all'applicazione delle leggi - scrive un editoriale - risulterebbero complici nell'aver espulso un primo ministro dalla sua carica con orrende conseguenze per la democrazia israeliana» (cosa che in Italia non suonerebbe nuova). Supposizioni a parte, quattro sono ora i problemi che la dirigenza israeliana deve affrontare. Il primo è la lotta per la successione di Olmert alla testa del partito Kadima. Il ministro degli esteri Livni sembra favorita, ma nei traballanti equilibri di governo di Israele non garantisce la sopravvivenza dell'attuale coalizione sino alla fine della legislazione in autunno 2009. Il secondo problema è come continuare le trattative iniziate da Olmert con l'Autorità palestinese e con la Siria. Olmert aveva creato un clima di rapporti personali di fiducia con i rappresentati della prima e di oneste intenzioni di pace con i rappresentanti della seconda. Non è chiaro se i suoi successori saranno in grado di continuare e sviluppare. Il terzo problema è la situazione di decrepitudine, corruzione, incompetenza di tutti i partiti israeliani. Se non ci saranno elezioni generali prima del 2009 è solo perché la stragrande maggioranza dei deputati sa che il pubblico ha perduto fiducia nella loro onesta e competenza. Con un'economia in sviluppo a ritmo asiatico, con l'apporto di immigranti che per la prima volta sono in grado di votare valutando con conoscenza i problemi, con un esercito riformato dalla guerra del Libano, con 300 milionari ufficialmente elencati (con un minimo di 30 milioni di dollari) in un paese dove un milione di bambini vive sotto il livello della povertà è difficile prevedere come l'elettorato si comporterà. Infine, questione sempre più pressante, c'è la definizione dell'identità di uno stato che si pretende ebraico ma insiste nel voler difendere una democrazia sempre più laica. Olmert si è dimostrato un abile equilibrista politico. Le sue dimissioni creano un vuoto che Israele, così come il mondo arabo e quello occidentale, ha bisogno di colmare al più presto.
Da La STAMPA, l'intervista di Francesca Paci allo storico Michael Oren. Il titolo “Questo Olmert dimezzato potrebbe portarci alla pace”, travisa il senso delle affermazioni di Oren, il quale, scrive Francesca Paci, "teme" ,che la svolta nella politca israeliana " possa innescare un’accelerazione improvvida: «Un Olmert disperato potrebbe spingersi a concessioni molto audaci»". Non la "pace", dunque, sarebbe ora possibile secondo Oren ma concessioni pericolose, che indebolirebbero Israele, compromettendone la sicurezza senza garantire un accordo politico.
Ecco il testo:
E adesso si vada a votare. Il leader del dell’opposizione Benyamin Netanyahu torna alla carica: dopo l’uscita di scena del premier Ehud Olmert, Netanyahu chiede a gran voce il ritorno alle urne, una consultazione anticipata che, secondo i sondaggi, lo vedrebbe superfavorito. Se si votasse domani il capo del Likud, storico partito conservatore in Israele, otterrebbe il 36 per cento delle preferenze contro il 24 per cento della sua avversaria più quotata in seno al Kadima, il ministro degli esteri Tzipi Livni. «Questo governo è giunto alla fine della strada», ha detto ieri sera Netanyahu. Gli israeliani, sostiene, hanno perso la fiducia nell’attuale coalizione di governo: «Non importa chi sarà il prossimo a guidare Kadima. Chiunque sia scelto, sono tutti ugualmente corresponsabili del totale fallimento di questo governo».Le conseguenze delle dimissioni di Ehud Olmert graveranno sul processo di pace in modo imprevedibile». Lo storico della Guerra dei Sei Giorni Michael Oren non crede, come molti analisti, che la resa del premier israeliano raffredderà i contatti con i palestinesi e il novello dialogo con la Siria. Teme, al contrario, che possa innescare un’accelerazione improvvida: «Un Olmert disperato potrebbe spingersi a concessioni molto audaci». Il presidente palestinese Abu Mazen ha detto che «collaborerà con ogni primo ministro d’Israele». Ma, con Olmert, perde un partner considerevole. Cosa accadrà nei prossimi mesi? «La situazione è molto pericolosa. Olmert potrebbe essere tentato da un’uscita di scena spettacolare. Se fossi Abu Mazen o il leader siriano Assad approfitterei del momento per fare pressione». Qualcuno, nell’entourage di Olmert, ha ipotizzato che Talansky sia stato «pilotato» dalla destra americana allo scopo di «punire» il premier israeliano per la sua linea «morbida» con i palestinesi. «Un’interessante teoria complottista. Comunque, nei panni di Bush, non vorrei più che Olmert negoziasse con la Siria, ora è troppo debole. Magari con i palestinesi, ma sarebbe ugualmente rischioso». Come le è sembrato il discorso alla nazione di mercoledì sera? «Un congedo dignitoso. Il premier si è tirato indietro prima d’essere condannato, ha dato l’impressione di essere meno furfante e più vittima. Si è mosso bene con gli avversari. A questo punto né il ministro degli esteri Livni né il collega dei trasporti Mofaz hanno la possibilità di formare un nuovo governo. Olmert, di fatto, resterà fino a marzo e in sei mesi possono accadere tante cose». Cosa ha davvero condannato l’erede di Sharon? La gestione della seconda guerra del Libano, l’affaire Talansky, la tensione a Gaza? «Olmert sconta soprattutto la guerra del Libano. L’accusa di corruzione è grave, ma parliamo di robetta, soprattutto se paragonata agli standard italiani. È il sistema politico israeliano che va rinnovato. Tutti i primi ministri hanno preso soldi, da Barak a Sharon. Olmert, alla fine, si è raddoppiato lo stipendio: è una cosa illegale ma non insolita». Il columnist del «Jerusalem Post» Herb Keinon ha puntato l’indice contro la superbia del premier. Se fosse stato «più umile» gli israeliani l’avrebbero sostenuto? «Gli israeliani lo amavano. Prima del Libano Olmert era molto popolare, l’economia andava bene, le relazioni internazionali erano buone. Ma Israele non è un Paese come gli altri, non è l’Italia, qui si fronteggia una guerra ogni cinque anni: la responsabilità morale del capo che porta in battaglia il suo popolo è più importante di quella legale o politica». Che eredità raccolgono i suoi rivali, Tzipi Livni e Shaul Mofaz? «La Livni è sulla breccia da dieci anni, figlia politica del Likud: è molto smart, sveglia, ma non è percepita come una donna forte, nonostante abbia dalla sua i consiglieri di Sharon. Mofaz, invece, viene dall’esercito, ha la fama di duro, ma non è smart». E il terzo uomo, il leader del Likud Benjamin Netanyahu? «Bibi va alla grande. Tutti i sondaggi lo danno vincente, avrebbe la meglio in caso di elezioni. Sempre che adesso il ministro della Difesa Ehud Barak non tenti la strada del governo d’unità nazionale, partito laburista e Likud coalizzati contro Kadima, sinistra e destra in funzione anti-centro: sarebbe interessante». Olmert non è il primo a lasciare l’incarico governativo nel bel mezzo del mandato. Accadde a Itzak Rabin nel 1977 e a Menachem Begin sei anni dopo. Ci sono similitudini nelle tre vicende? «È un paragone difficile. Rabin si dimise dopo la scoperta di un conto bancario all’estero intestato alla moglie Lea, Begin per la disastrosa performance nella prima guerra del Libano. Olmert fronteggia l’accusa di corruzione in prima persona e risponde di aver rifiutato la responsabilità del conflitto di due anni fa». Prima di eclissarsi, Olmert si è concesso una lamentela: «Israele è diventato un Paese di brontoloni», ha detto ai giornalisti. «Israele lo è da sempre. Ma stavolta ha davvero di che brontolare»
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