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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - it.danielpipes.org Rassegna Stampa
24.07.2008 E' stato giusto lo scambio tra Israele ed Hezbollah ?
opinioni a confronto

Testata:La Stampa - it.danielpipes.org
Autore: Abraham B. Yehoshua - Daniel Pipes
Titolo: «Quello scambio coi morti - Samir Kuntar e l'ultima risata»
Da La STAMPA del 24 luglio 2008, un articolo di Abraham B. Yehoshua:

Negli ultimi mesi i media israeliani hanno ospitato accesi dibattiti sulla questione dello scambio di prigionieri con il Libano. Da una parte si sono schierati i propugnatori (e io fra loro) della restituzione dei corpi dei due soldati israeliani (rimasti probabilmente uccisi già nel primo giorno della seconda guerra del Libano) in cambio di alcuni prigionieri libanesi fra cui Samir Kuntar, detenuto nelle carceri israeliani per 29 anni.

Dall’altra risuonava imperiosa la voce di chi si opponeva a questo accordo, sia da un punto di vista politico che etico. Tale divisione non ricalcava il tradizionale dualismo politico, ossia la destra contraria allo scambio e la sinistra a favore. Anche personalità politiche e del giornalismo, solitamente di idee moderate, si sono espresse con grande veemenza contro la consegna di un assassino che aveva ucciso una bambina di quattro anni sotto gli occhi del padre (poi a sua volta trucidato) per riavere indietro cadaveri.
Poiché il dibattito intorno allo scambio di prigionieri non è ancora concluso e Israele dovrà affrontare la domanda se è giusto e lecito liberare 400 prigionieri palestinesi (tra cui numerosi mandanti ed esecutori di sanguinosi attentati) in cambio di Gilad Shalit, il soldato rapito da Hamas a Gaza, vorrei prendere in esame la questione sia da un punto di vista politico che morale.
Quando i primi sionisti si stabilirono nella terra di Israele agli inizi del ventesimo secolo il numero degli ebrei qui presenti era risibile: meno dell’un per cento di quelli sparsi per il mondo. Gli ebrei, infatti, non si azzardavano a trasferirsi nella terra di Israele, tanto lontana e problematica, per prender parte all’avventura della creazione di uno stato ebraico indipendente. Vista la situazione i dirigenti sionisti presero un’importante decisione: chiunque si fosse stabilito nella terra di Israele avrebbe goduto di garanzie sociali e del sostegno economico della comunità. In altre parole avrebbe ottenuto rapidamente un lavoro fisso, goduto di una completa copertura sanitaria, di sussidi di disoccupazione, di garanzie di supporto sociale e di aiuto in caso di bisogno. Poiché gli ebrei erano, e continueranno a essere, in numero nettamente inferiore ai loro nemici, fu stabilita anche la regola secondo la quale ogni soldato ferito non sarebbe stato abbandonato sul campo di battaglia, ai corpi dei caduti sarebbe stata data una degna sepoltura e non si sarebbero risparmiati sforzi per ottenere la liberazione di prigionieri. Dopo la fondazione dello stato di Israele le norme che sancivano il sostegno della comunità a favore del singolo si tradussero in leggi e non furono più affidate, come durante la diaspora, alla buona volontà o alla compassione degli altri.
Per questo motivo gli scambi di prigionieri e di caduti tra Israele e gli stati arabi o i vari e numerosi gruppi armati palestinesi sono stati compiuti con la consapevolezza di dover accettare un forte squilibrio numerico. In cambio di uno o due ostaggi israeliani sono stati liberati centinaia di palestinesi, siriani o egiziani. Questa asimmetria appare però giusta e lecita alla società israeliana. Infatti non solo gli ebrei sono sempre stati numericamente inferiori ai palestinesi e agli arabi ma il valore della vita, ai nostri occhi, si è fatto immensamente più sacro e prezioso dopo la Shoah, le cui vittime, per lo più, non hanno mai avuto sepoltura. Proprio l’anonimato del grande massacro ha acuito e accresciuto la sensibilità verso la peculiarità del singolo, vivo o morto che sia.
Gli arabi, naturalmente, hanno capito questo stato di cose e in tutti gli scambi di prigionieri hanno avanzato pretese altissime, anche nel caso in cui l’accordo comportava la riconsegna di corpi di soldati israeliani in cambio di persone vive. Il dilemma in Israele non riguarda però la disponibilità a pagare un prezzo elevato per la liberazione dei prigionieri ma tre questioni di ordine morale.
1) I sentimenti dei familiari delle vittime dei prigionieri palestinesi in procinto di essere liberati.
2) La futura prevenzione di atti di terrorismo (la prospettiva di pesanti pene detentive come punizioni per i mandanti o i fautori di attentati potrebbe infatti non essere più un deterrente se costoro sanno di poter tornare presto liberi in scambi di questo tipo. Anzi, questa situazione potrebbe indurre gruppi terroristici a tentare nuovi rapimenti).
3) Il ritorno al terrorismo di alcuni prigionieri scarcerati dopo lunghi anni di detenzione, cosa che ha reso il loro rilascio particolarmente doloroso.
Il problema dei sentimenti delle famiglie colpite dal terrorismo è stato superato dalla società israeliana grazie al principio del sostegno reciproco. Nella maggior parte dei casi, infatti, quelle famiglie non hanno opposto resistenza allo scambio di prigionieri poiché si identificavano con i parenti degli ostaggi, fossero essi vivi o morti. Sono anche consapevoli che i loro cari non sono stati uccisi o feriti per motivi personali ma nella bufera della guerra e in un certo senso un cittadino israeliano rimasto vittima di un attentato terroristico non è diverso da chi cade colpito da una granata o da un missile.
Il secondo dilemma si pone più raramente giacché nella maggior parte dei casi è più facile per i terroristi uccidere che fare prigionieri, o rapire. Se quindi Israele si mostrerà più risoluto nel pretendere le prove che i prigionieri sono in vita, il prezzo dello scambio, per quanto lo riguarda, potrebbe diminuire.
In merito al terzo dilemma ritengo che sia il caso di stabilire a priori una pena particolarmente severa per quei terroristi che, una volta scarcerati, tornino a compiere attentati. Israele obbliga i prigionieri a firmare un documento secondo il quale essi si impegnano a non riprendere un’attività terroristica dopo la loro scarcerazione e, nella maggior parte dei casi, credo che questo impegno sia stato mantenuto. L’idea che dei terroristi che hanno agito per motivi ideologici siano dei criminali potenzialmente recidivi non è dunque corretta.
Non invidio i dirigenti israeliani chiamati a prendere decisioni difficili relative allo scambio di prigionieri. Ma se i principi che governano questo tipo di accordi saranno chiari - a loro e alla società israeliana - tali decisioni si renderanno accettabili sotto un profilo etico.

Dal sito italiano di Daniel Pipes, un'opinione opposta ( l'articolo è ripreso dal Jerusalem Post del 24 luglio):

Israele ha vissuto gli ultimi sessant'anni più intensamente rispetto a qualsiasi altro paese al mondo.

I suoi momenti più alti – la resurrezione di uno stato bi-millenario nel 1948, la vittoria militare più asimmetrica della storia nel 1967 e lo straordinario salvataggio degli ostaggi di Entebbe nel 1976 – sono stati trionfi di volontà e di spirito che ispirano il mondo civile. I suoi momenti più bassi sono stati caratterizzati dalle umiliazioni che lo Stato ebraico si è auto-imposte, dal ritiro unilaterale dal Libano e dall'evacuazione dalla Tomba di Giuseppe, entrambi nel 2000, dal ritiro da Gaza nel 2005, dalla disfatta per mano di Hezbollah nel 2006, e dallo scambio con lo stesso Hezbollah di salme in cambio di prigionieri della scorsa settimana.

Un osservatore esterno non può che stupirsi di questo contrasto. Come possono gli autori di esaltanti vittorie disonorarsi ripetutamente in tal modo, apparentemente ignari dell'importanza delle loro azioni?

Una spiegazione ha a che fare con le date. I momenti di maggiore euforia si sono avuto nei primi tre decenni di vita dello Stato, quelli di maggior abbattimento a partire dal 2000. Qualcosa di profondo è cambiato. Lo Stato strategicamente brillante, ma economicamente inadeguato, dei primi tempi è stato rimpiazzato dall'esatto opposto. A quanto pare le menti dello spionaggio, i geni militari e i cervelloni politici si sono lanciati nell'alta tecnologia, lasciando lo stato nelle mani di gente mediocre, corrotta e mentalmente miope.

Come si può giustificare altrimenti il Consiglio di gabinetto del 29 giugno scorso, durante il quale 22 dei 25 ministri hanno votato a favore del rilascio di 5 terroristi arabi vivi, incluso Samir al-Kuntar, 45 anni, uno psicopatico e il più famoso prigioniero delle carceri israeliane, e di 200 salme? In cambio, Israele ha ottenuto i corpi di due soldati uccisi dagli hezbollah. Perfino il Washington Post si è stupito di questa decisione.

Il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha approvato l'accordo per il fatto che ciò "porrà fine a questo doloroso episodio", un'allusione al recupero dei corpi dei caduti di guerra e al dolore dei familiari degli ostaggi. Di per sé sono entrambi degli obiettivi onorevoli, ma a che prezzo? Questa distorsione delle priorità mostra come un paese un tempo strategicamente formidabile sia degenerato in una nazione estremamente sentimentale, in un governo senza timone dove l'egocentrico egoismo batte la sua ragion d'essere. Gli israeliani, pasciuti con deterrenza e appeasement, sono disorientati.

La cosa peggiore è che la sconcertante decisione governativa non ha scatenato alcuna reazione furibonda né in seno al Likud, all'opposizione, né tra le principali istituzioni pubbliche israeliane, ma in generale (con qualche notevole eccezione) sono tutti rimasti silenti. La loro assenza si riflette in un sondaggio condotto dal Tami Steinmetz Center, che mostra come gli israeliani approvino lo scambio con un rapporto di circa 2 a 1. In poche parole, il problema si estende ben oltre la classe politica fino a toccare tutta la popolazione.

Dall'altro lato, i vergognosi festeggiamenti dell'assassino di bambini Kuntar, accolto come fosse un eroe nazionale in un Libano il cui governo ha interrotto i lavori per celebrare il suo arrivo, e salutato come "un eroico combattente" da parte dell'Autorità palestinese, rivelano quanto sia profonda l'inimicizia libanese nei confronti di Israele e denotano un'immoralità che disturba chiunque si occupi dell'anima araba.

L'accordo implica numerose conseguenze negative. Esso incoraggia i terroristi arabi a sequestrare altri soldati israeliani per poi ucciderli; incrementa il prestigio di Hezbollah in Libano e lo legittima a livello internazionale; incoraggia Hamas e rende più problematico il raggiungimento di un accordo per il suo ostaggio israeliano. E per finire, anche se questo episodio sembra irrilevante, se paragonato alla questione nucleare iraniana, le due cose sono collegate.

Titoli internazionali sulla falsariga di "Israele piange, Hezbollah esulta" confermano l'opinione mediorientale ampiamente diffusa, seppure erronea, che Israele sia una "ragnatela" che può essere distrutta. Può darsi che il recente scambio abbia già offerto all'apocalittica leadership iraniana un ulteriore motivo per brandire le sue armi. O peggio ancora, come osserva Steven Plaut, equiparando "i pluriomicidi di bambini ebrei ai soldati combattenti", lo scambio giustifica in realtà "lo sterminio di massa degli ebrei in nome dell'inferiorità razziale ebraica".

Per coloro che hanno a cuore il benessere e la sicurezza di Israele, io propongo due consolazioni. Innanzitutto, Israele continua ad essere un paese forte che può permettersi degli errori; una stima prevede perfino che esso sopravvivrebbe a un confronto nucleare con l'Iran, contrariamente a questo ultimo.

In secondo luogo, la vicenda Kuntar potrebbe avere una sorpresa a lieto fine. Un alto funzionario israeliano ha detto a David Bedein che la scarcerazione di Kuntar pone fine all'obbligo dello Stato ebraico di garantirgli la sua protezione; una volta in Libano, egli è divenuto "un obiettivo da uccidere. Israele lo prenderà e sarà ammazzato (…) i conti verranno regolati". Un secondo alto funzionario ha aggiunto "non possiamo lasciare che questo uomo pensi di potersene andare in giro impunito per l'omicidio di una bambina di 4 anni".

Chi riderà per ultimo, Hezbollah o Israele?

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