Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il vero endorsement per Barack Obama è quello dell'informazione italiana rassegna di quotidiani
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - L'Unità Autore: Ennio Caretto - Alberto Flores D'Arcais - Umberto De Giovannangeli Titolo: «Obama sbarca a Bagdad E il premier spiazza Bush - Obama conquista gli iracheni Ritirerò le truppe nel 2010 - Anche Israele aspetta il suo Barack»
L'endorsement a Barack Obama che il premier iracheno Al Maliki non ha dato, viene invece dai quotidiani italiani.
Dal CORRIERE della SERA
WASHINGTON — Viaggio presidenziale, accoglienza presidenziale. Come il presidente afghano Karzai a Kabul e l'emiro Sabah a Kuwait City, così il premier iracheno Al Maliki ha ricevuto ieri Barack Obama a Bagdad: più da presidente in pectore che da senatore o da candidato democratico. Al Maliki non ha solo analizzato per l'ospite la situazione politico-militare del Paese ed esposto il proprio programma. In un velato schiaffo a Bush, che lo aveva costretto a ritrattare quanto detto al riguardo a Der Spiegel, ha anche ribadito di condividere il piano di Obama di disimpegno dall'Iraq. Lo hanno indicato il vicepresidente Tareq al Ahasemi e il portavoce Ali al Dabbagh: «Obama non ha parlato di un ritiro delle truppe da combattimento entro 16 mesi dall'eventuale ingresso alla Casa Bianca, come prospettato la scorsa settimana. Ma noi speriamo che avvenga entro la fine del 2010, senza fissare date e condizioni sul terreno permettendolo ». Le dichiarazioni irachene — diplomaticamente, Obama si è limitato a definire il colloquio «molto costruttivo» — hanno spiazzato Bush. La sua portavoce Dana Perino ha fatto acrobazie per smentirlo: «Il punto è che Bagdad si oppone a un calendario arbitrario di richiamo delle nostre truppe. E' d'accordo con noi su un orizzonte temporale piuttosto ampio». Ma il significato dell'incontro di Maliki con Obama è inequivocabile: il premier se ne è servito per avvertire Bush che non firmerà il nuovo trattato con lui, trattato che comporta una lunga e massiccia presenza militare americana in Iraq, a meno che non fissi tappe ravvicinate per il ritiro della maggioranza delle truppe. La Perino ha ammesso che la firma, stabilita per il 31 luglio prossimo, sarà rinviata «ma di pochi giorni». E' toccato al generale David Petraeus, il proconsole di Bush a Bagdad, ricordare a Obama il pericolo che un disimpegno prematuro comporta. A Kabul, il senatore aveva dichiarato di voler smistare truppe dall'Iraq all'Afghanistan, «il fronte centrale del terrorismo, dove la situazione è precaria e urgente» per portare a termine «la missione abbandonata a causa della guerra dell'Iraq e sconfiggere Al Qaeda e i talebani». Nel colloquio, Petraeus ha affermato che la controffensiva Usa in Iraq ha avuto successo e che in autunno ci sarà una riduzione delle truppe, ma ha insistito che non si può «creare un vuoto di sicurezza». Gli ha fatto eco da Washington il candidato repubblicano John McCain, che ha rimproverato a Obama di aver votato contro la guerra in Iraq e lo ha invitato ad ammettere di essersi sbagliato. Il candidato democratico, ha martellato McCain, non ha la stoffa del comandante in capo. Nell'incontro con Al Maliki e con il presidente iracheno Jalal Talabani nella zona verde, presidiata dai soldati, il senatore non ha ripetuto le accuse da lui rivolte agli ospiti di non avere investito nella ricostruzione del Paese e di non avere raggiunto un accordo politico. Ha invece chiesto informazioni sul governo e sulla preparazione dell'esercito e della polizia irachene. «Ha ascoltato — hanno riferito gli accompagnatori, il senatore democratico Jack Reed e quello repubblicano Chuck Hagel —. Esporrà le sue conclusioni al ritorno a Washington ».
Da La REPUBBLICA:
GERUSALEMME - Ha iniziato visitando Bassora e il sud, ha volato in elicottero sopra la "zona verde" con il generale Petraeus, ha incontrato il premier Maliki e il presidente Talabani, ha dovuto ammettere che le cose stanno andando meglio; la visita in Iraq di Barack Obama, candidato democratico alla Casa Bianca, sembra quasi l´anteprima di una visita presidenziale. E che possa essere lui il prossimo presidente sembrano pensarlo anche i politici locali che (Maliki in testa) prima rilasciano interviste che hanno tutto il sapore dell´appoggio pubblico al senatore afro-americano sui tempi del ritiro Usa e poi, visto lo stupore della Casa Bianca (quella attuale), le ridimensionano con mezze smentite. «Una discussione molto costruttiva». Così ha sintetizzato Obama il suo incontro con il premier iracheno rimandando ai prossimi giorni i "dettagli" del colloquio; forse per non creare imbarazzi a Maliki che parlando con il settimanale tedesco Der Spiegel si era detto d´accordo sui tempi (16 mesi dall´insediamento alla Casa Bianca) indicati dal senatore dell´Illinois per ritirare le truppe americane dall´Iraq. Frase che sarebbe stata poi smentita dal governo iracheno dopo le proteste (non ufficiali) della Casa Bianca. Più loquace Obama è apparso dopo l´incontro con Tariq al-Hashimi il vicepresidente sunnita considerato uno degli uomini chiave per il futuro dell´Iraq. «Sono compiaciuto dei progressi fatti, ho l´impressione che tra gli iracheni ci sia più ottimismo. Lo si vede bene dalle attività che ci sono, dalle gente che riempie i negozi, dal traffico nelle strade, chiaramente c´è stato un grande miglioramento». Parole che sembrano uscite dalla bocca di George Bush quando parla dei risultati del "surge" (l´invio di nuove truppe), ma Obama non è qui per parlare contro la guerra in Iraq (uno dei suoi cavalli di battaglia durante le primarie) e del resto non può negare (e lo fa con onestà) l´evidenza dei fatti. Tanto più che nonostante la (parziale) smentita sull´intervista allo Spiegel, incassa un altro appoggio da Ali al-Dabbagh, portavoce del governo; il quale «auspica» che le truppe americane possano ritirarsi dall´Iraq entro il 2010, data che sembra quasi combaciare con i famosi sedici mesi proposti da Obama. Parole che sembrano fatte apposta per innervosire il candidato repubblicano John McCain - che sul ritiro non vuole sentir parlare di date - e che ieri si è però preso la sua piccola soddisfazione nei confronti di Obama riguardo al "surge": «Sono felice della sua visita in Iraq, spero che ammetta di aver valutato in modo errato la situazione, che ammetta di aver sbagliato quando ha affermato che il surge non avrebbe funzionato e riconosca che ha avuto successo e che stiamo vincendo la guerra». Gli spostamenti in Iraq del candidato democratico vengono tenuti segreti - per motivi di sicurezza - fino a quando non si sono già svolti, un´attenzione che nessun´altra visita di delegazioni del Senato Usa (questa è la motivazione ufficiale del viaggio di Obama che è accompagnato dal senatore democratico Jack Reed e dal repubblicano Chuck Hagel) ha ricevuto. In serata ha incontrato nuovamente il generale Petraeus, questa mattina probabilmente farà colazione con le truppe (come fa Bush quando viaggia in Iraq) ed avrà altri incontri. Partirà quindi alla volta della Giordania, per una rapidissima visita prima di atterrare questa sera a Gerusalemme. In Israele sarà tutto concentrato nella giornata di mercoledì. Dagli incontri mattutini con il ministro della Difesa Barak e con il leader dell´opposizione Netanyahu all´hotel King David alla rapida visita a Ramallah per incontrare i leader palestinesi, al giro in elicottero sopra Gerusalemme e fino a Sderot, la città ai confini della Striscia di Gaza martoriata dai razzi Katiuscia di Hamas e degli altri gruppi terroristici
Umberto De Giovannangeli su L'UNITA' affida le lodi di Obama a un'intervista al leadere israeliano di sinistra Yossi Beilin. Molto ottimista sul futuro di pace del Medio Oriente, non si capisce sulla base di quali fatti. L'ottimismo e le speranze di pace, certo, sono buone cose. Ma se fanno velo al giudizio sulla realtà (che al momento è di una perdurante volontà di distruggere Israele da parte di un'alleanza che fa capo all'Iran) possono diventare pericolosi.
Ecco il testo:
«Barack Obama ha già cambiato le cose in meglio. Ha ridato speranza in un cambiamento possibile. Quella speranza che sembra venir meno a noi israeliani. Dio solo sa quanto avremmo bisogno di tradurre in ebraico “Yes, we can”». Il nostro interlocutore non è un uomo facile ad «innamoramenti» politici, semmai è vero il contrario. Barack Obama e Israele: l’Unità ne parla con Yossi Beilin, più volte ministro laburista, figura storica della sinistra israeliana, ispiratore dell’«Iniziativa di Ginevra», il paino di pace messo a punto da politici, intellettuali, militari israeliani e palestinesi. Oggi Barack Obama giunge a Gerusalemme. C’è chi parla del momento della verità per il candida- to democratico alla Casa Bianca. «Non credo che Obama debba sottoporsi ad alcun esame di maturità politica. Obama ha già cambiato le cose in meglio. Ha ridato corpo ad una idea di speranza nel cambiamento che non ha investito solo l’America. In questo si sta rivelando un potenziale leader mondiale. E questo cambiamento si avverte anche nel suo approccio alle questioni di politica internazionale...» Restando al Medio Oriente, in cosa si manifesta questa discontinuità di Obama rispetto a George W. Bush? «In linea generale, questa discontinuità si chiama multilateralismo. Nel senso che Obama ha fatto i conti, e non poteva essere altrimenti, con il fallimento della linea delle “guerre preventive”, come quella in Iraq, che ha connotato gran parte della doppia presidenza Bush. Obama ha compreso una verità amara quanto sostanziale: occorre parlare col Nemico, e questo approccio non significa affatto cedimento o insicurezza. Una presa d’atto che oggi fa breccia anche nella parte più avveduta dell’amministrazione Bush...». Un esempio concreto? «Il negoziato con la Siria. Ora anche Bush ne ha compreso l’importanza: Obama lo ha anticipato, e in politica il fattore tempo è decisivo...» I palestinesi temono che Obama conceda troppo alla parte israeliana per accreditarsi verso l’elettorato ebraico americano. «Obama sa bene che il modo migliore per essere davvero amico di Israele è di rafforzare il dialogo fra israeliani e palestinesi per raggiungere finalmente l’unica pace possibile: quella fondata su due popoli, due Stati, due democrazie. Ma perché ciò possa determinarsi occorre porre fine ad ogni atto unilaterale che pregiudichi il dialogo...» Questo significa? «Significa, ad esempio, bloccare la colonizzazione dei Territori, e migliorare la condizione di vita della popolazione palestinese. Pace e insediamenti non si conciliano. Mi attendo su questo parole chiare da parte di Barack Obama. Come lo sono state quelle pronunciate alla Knesset dal primo ministro britannico Gordon Brown». Un politico in ascesa, Obama, incontra un politico in crisi: Ehud Olmert... «Il futuro incontra un presente che sembra già passato...Non so se alla fine Obama riuscirà a diventare il nuovo presidente degli Stati Uniti. Di certo, ha già rivoluzionato l’agenda politica americana. La sua candidatura è di per sé un segno di cambiamento epocale. Un cambiamento di cui anche Israele avverte il bisogno, solo che questo bisogno di cambiamento non incontra ancora risposte politiche forti. E un Paese “in trincea”, come è Israele, non può permettersi per troppo tempo leadership mediocri». Resta la diffidenza di una parte dell’opinione pubblica israeliana verso Obama: in molti speravano che a correre per i democratici fosse Hillary Clinton... «Personalmente non mi sento “orfano” di Hillary anche se ho apprezzato alcune sue battaglie sociali, come quella per la sanità pubblica. Nessun presidente americano - sia esso democratico o repubblicano - metterà mai in discussione l’alleanza strategica con Israele. Il punto è come interpretare, da ambedue le parti, questa alleanza. Mi auguro che Obama la interpreti in modo dinamico, aperto, gettando tutto il peso politico degli Usa nella ricerca di una pace globale fra Israele e i suoi vicini Arabi». Un tema caldo per Obama è quello di Gerusalemme «Obama deve prendere atto che un accordo di pace con i palestinesi passa inevitabilmente per una condivisione della sovranità di Gerusalemme. Sta al negoziato tra le parti sostanziare questo principio dal quale non è possibile prescindere». La Diaspora ebraica americana vorrebbe sentire altro... «Ma quel “sentire” può mettere a posto la propria coscienza ma non aiuta la ricerca della pace».