Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Che cosa pensa davvero Al Maliki dei piani di Obama per il ritiro dall'Iraq ? quotidiani a confronto
Testata:L'Unità - Il Giornale Autore: Roberto Rezzo - Marcello Foa Titolo: «Maliki gela McCain: sì al ritiro Usa dall’Iraq - Bagdad prima illude poi gela Obama»
L'UNITA' del 21 luglio 2008 pubblica un articolo di Roberto Rezzo costruito interamente su un presupposto falso. Ovvero su dichiarazioni del premier iracheno Al Maliki al settimanale tedesco Spiegel,dichiarazioni che lo stesso Maliki ha successivamente smentito. Rezzo non solo ignora la smentita per buona parte dell'articolo, in conclusione la cita, ma solo per negarle ogni valore. Senza per altro riportarne il passaggio politicamente più significativo. Che non è certo il riferimento all'"errore di traduzione" dello Spiegel, e non è nemmeno la negazione dell' endorsement a Obama. Nella sua nota il primo ministro iracheno afferma a chiare lettere che di fare ancora riferimento all'"orizzonte temporale" concordato con l'amministrazione Bush. Ecco il testo dell'articolo di Rezzo:
UN DURO CONFRONTO a distanza sui fronti di guerra ha impegnato nel fine settimana i candidati in corsa per la Casa Bianca. Barack Obama da Kabul fa sapere che «gli Stati Uniti non si possono permettere di perdere la guerra contro i talebani». E promette uno spostamento di truppe dall’Iraq all’Afghanistan. «Uno degli errori più gravi che abbiamo fatto dopo l’11 settembre è stato di non finire il nostro lavoro qui - ha aggiunto - Ora la situazione è precaria e occorrono misure urgenti». John McCain lo accusa di parlare senza cognizione di causa e lancia una marea di spot televisivi che mettono in discussione la competenza e il patriottismo dell’avversario. Un fattore imprevisto rovescia però le carte in tavola e da Baghdad parte un siluro contro l’ex militare che si vanta di conoscere l’Iraq come le proprie tasche. Una crisi grave abbastanza da richiedere il pronto intervento della Casa Bianca e del dipartimento di Stato americano. McCain ha sempre ridicolizzato il piano di Obama per il ritiro delle truppe dall’Iraq come una tattica per prendere voti. Eppure al primo ministro iracheno quel piano piace. Nouri al Maliki, in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel, dichiara: «Obama parla di sedici mesi e noi pensiamo che questo sia il periodo giusto di tempo per completare il ritiro, salva la possibilità di piccoli aggiustamenti». E quindi rincara la dose: «Gli americani continuano a esitare quando si discute di stabilire una data precisa perché gli sembra di ammettere una sconfitta. Non è così». Era appena stato alla Casa Bianca, pacche sulle spalle con George W, Bush, e comunicato finale congiunto in cui si affermava che il ritiro sarebbe stata subordinato esclusivamente alle condizioni sul campo. Un’espressione che è diventata sinonimo di occupazione a oltranza. A più di cinque anni dall’inizio del conflitto, in Iraq rimangono di stanza 146mila militari Usa. L’ultima svolta di al Maliki ha fatto letteralmente rizzare i capelli in testa alla squadra del candidato repubblicano. «Siamo fottuti», avrebbe scritto in un messaggio di posta elettronica uno stretto collaboratore di McCain, secondo quanto riportato da Mark Ambinder, firma del mensile The Atlantic. Un portavoce del senatore s’è affrettato a minimizzare: «I nostri militari parlano di ritiro subordinato alle condizioni. Il presidente Bush di ritiro subordinato alle condizioni. Non penso proprio che agli elettori importi quello che pensano i leader iracheni». In realtà la questione non è affatto marginale, perché rischia di mettere a dura prova la credibilità di McCain. L’anziano senatore ha fama d’essere un uomo di parola, almeno a sentire i suoi estimatori. È vero che da quando è iniziata la sua seconda corsa per la Casa Bianca ha cambiato idea su molte questioni, schiacciandosi sempre più sulla linea dell’amministrazione Bush. Ma gli osservatori concordano che questa volta gli sarebbe difficile rimangiarsi l’impegno a sostenere il ritiro se a chiederlo fossero proprio gli iracheni. La stampa americana ha immediatamente ripescato il testo esatto della dichiarazione resa da McCain nel 2004: «Se in Iraq sarà eletto un governo e ci chiederanno di andarcene, è ovvio che dovremo farlo. Non sarebbe la prima volta che accade nel mondo. Non vedo come potremmo rimanere, visto che la nostra linea è sempre stata quella di rimettere il governo nelle mani del popolo iracheno». È l’esatta fotografia della situazione attuale. Come prevedibile a Washington devono aver fatto i diavoli a quattro e un portavoce del primo ministro da Baghdad è costretto a una faticosa marcia indietro. Non potendo accusare il settimanale tedesco d’aver scritto il falso, sostiene che c’è stato un problema di traduzione. E che al Maliki non intendeva in alcun modo sostenere la candidatura di Obama. Cosa che Der Spiegel non si è mai sognato di scrivere. Anzi, in un virgolettato attribuito al primo ministro si legge: «Naturalmente con questo non voglio dare l’endorsement a Obama». Come impone l’etichetta diplomatica che regola le relazioni tra governi stranieri. E la smentita - soprattutto formulata in questi termini - appare solo come una notizia data due volte.
E' utile confrontare l'articolo di Rezzo con quello di Marcello Foa pubblicato dal GIORNALE:
Barack Obama dice che l’America non può permettersi di perdere la guerra in Afghanistan. Giusto. Critica il presidente Karzai per «non aver fatto abbastanza per la ricostruzione del Paese». Incontestabile. Annuncia, se verrà eletto presidente, una politica estera nuovamente incentrata sul dialogo e sulla cooperazione con gli alleati, innanzitutto europei. Da applausi. Eppure in queste ore il candidato democratico si accorge che il mondo è più insidioso di quanto immaginasse osservandolo da Washington. Ieri ha concluso la prima tappa a Kabul ed è subito scivolato a Bagdad. Nulla di drammatico, sia chiaro. Ma sabato i suoi collaboratori sono stati troppo precipitosi nel compiacersi per l’intervista concessa dal premier Maliki allo Spiegel online, in cui quest’ultimo annunciava il sì al piano di Barack Obama per il ritiro totale delle truppe entro la primavera del 2010. Un colpo di scena, subito enfatizzato dai media, a causa anche della goffaggine di un funzionario dell’ufficio comunicazione della Casa Bianca, che ha inviato a tutti i giornalisti accreditati il lancio di agenzia con le dichiarazioni del capo del governo di Bagdad. Il memo doveva essere spedito solo a un numero ristretto di personalità dell’amministrazione, ma l’addetto ha sbagliato tasto, con effetti disastrosi. I media hanno dedotto che la Casa Bianca attribuisse molta importanza alle frasi di Maliki e dunque la notizia è stata data con grande risalto negli Stati Uniti. Ma ieri pomeriggio è cambiato tutto, come capita sovente nel dialogo, spesso tortuoso, tra media e diplomazia. Il primo ministro iracheno ha emesso una nota in cui afferma di essere stato frainteso e tradotto male dal settimanale tedesco. Precisa che la sua posizione non è cambiata rispetto all’incontro con Bush e che pertanto si oppone alle proposte di Barack Obama.Un annuncio fermo e questa volta inequivocabile, diffuso poche ore prima che il candidato democratico lasciasse Kabul diretto proprio a Bagdad. Come messaggio di benvenuto non è proprio dei più calorosi, tanto più che lo stesso capo della Casa Bianca ha lanciato un duro avvertimento; non in prima persona, ma tramite uno dei massimi consiglieri, l’ammiraglio Michael Millen, presidente del Joint Chiefs of Staff, il quale ha affermato che fissare un termine di sedici mesi o due anni per l’uscita delle truppe del Paese sarebbe «molto pericoloso». Insomma: l’establishment politico-militare di Washington non gradisce la linea di Obama, il quale può perlomeno contare sulla simpatia del popolo iracheno, che, secondo i sondaggi, lo giudica con benevolenza. A Kabul il senatore dell’Illinois è riuscito ad evitare attriti con il presidente Karzai e nelle immagini diffuse dall’esercito (nessun giornalista è stato ammesso al seguito) entrambi sono apparsi distesi, sebbene il candidato democratico abbia definito la situazione nel Paese «precaria e da risolvere urgentemente», tra l’altro spostando qui una parte delle truppe che egli intende richiamare proprio dall’Irak. La visita a Bagdad si annuncia assai più delicata, anche perché John McCain è pronto a sfruttare errori, contraddizioni, sbavature del rivale. Intanto la squadra di Obama distrae l’opinione pubblica, annunciando il luogo dell’attesissimo discorso a Berlino. Barack sognava la porta di Brandeburgo, come Reagan nel 1987, ma la Merkel l’ha ritenuto inopportuno. E allora giovedì 24 parlerà nel Tiergarten Park, di fronte alla Colonna della Vittoria.
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