Sui rapporti occidente-Iran, due analisi sul FOGLIO di oggi, 19/07/2008. La prima dal titolo " Perchè oggi un inviato di Bush può sedersi al tavolo con un iraniano ". La seconda, di Carlo Panella, dal titolo " Modello sovietico". Sulla STAMPA l'intervista di Maurizio Molinari a Bruce Laingen, ostaggio del Pasdaran nel '79, dal titolo: " Ambasciata Usa in Iran ? Apriamola al più presto ".
IL FOGLIO- Perchè oggi un inviato di Bush può sedersi al tavolo con un iraniano:
Roma. Proprio quando gli annunci di attacco aereo preventivo contro l’Iran hanno raggiunto il parossismo, il comandante della flotta americana serra le file con i suoi parigrado delle flotte del Golfo per impedire all’Iran di “chiudere lo Stretto di Hormuz” e Israele si esibisce in un’esercitazione realistica facendo volare un centinaio di bombardieri per l’esatta distanza che la separa dagli impianti nucleari di Teheran, soltanto in direzione opposta, verso ovest, sul mare cipriota, proprio in questo momento la rincorsa verso l’attacco si ferma a mezz’aria e comincia una nuova fase di diplomazia. E’ stata ipotizzata l’apertura di una “sezione d’interessi” degli Stati Uniti a Teheran, un po’ meno di un’ambasciata, come a Cuba, ma è lo stesso uno sforzo notevole dopo trent’anni di embargo diplomatico mai interrotto. Non solo. Oggi ai colloqui di Ginevra tra Iran e “cinque+ uno” arriva anche William Burns, numero tre del Dipartimento di stato americano. Di nuovo, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno lasciato perdere le precondizioni che chiedevano all’Iran per sedersi allo stesso tavolo e hanno accettato di negoziare (Burns in teoria è a Ginevra soltanto per assistere, ma sono in pochi a credere a una presenza passiva). Ieri in Turchia si è parlato con insistenza di prenegoziati, Ankara da tempo ricopre l’incarico di mediatore discreto tra potenze nemiche nell’area mediorientale (tra Israele e Siria, per esempio), il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca è appena volato via dopo due giorni passati con il ministro degli Esteri turco, Ali Babacan, e oggi arriva come in una staffetta il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki. L’apertura diplomatica degli americani era impensabile, e alcuni commentatori l’hanno letta come segno di debolezza – ecco, gli americani dopo avere esperito tutti i metodi di pressione a loro disposizione si sono rassegnati a negoziare: ma l’apertura arriva dopo altri due fatti impensabili. (segue dalla prima pagina) Il primo è il cambio di tono interno al regime iraniano. L’apertura della sede americana a Teheran arriverebbe dopo che Teheran ha dato, in abbondanza, segnali di spaccature interne sul modo di gestire il dossier nucleare. La retorica da fine del mondo tra i lampi nucleari ha stancato. Ali Akbar Velayati, ministro degli Esteri dell’Iran per 17 anni, consigliere speciale e portavoce di fatto dell’ayatollah Ali Khamenei – che detiene l’ultima parola su ogni grande questione di stato – ha preso le distanze dal presidente Mahmoud Ahmadinejad: “Tutto è negoziabile”, dice sul programma atomico. Non potrebbe essere più chiaro (e , tanto per portare ancora più forte lo schiaffo delle autorità superiori contro il governo, ha aggiunto che “l’Olocausto è un fatto storico”). Sadegh Karzari, ex ambasciatore dell’Iran a Parigi, conferma: “Khamenei odia l’America ma non vuole né guerra né tensione. Le posizioni radicali si sono rivelate controproducenti per l’Iran, le sanzioni delle Nazioni Unite e di altri paesi stanno danneggiando il paese”. Due settimane fa Velayati sul quotidiano Jomhouri Eslami, quindi in casa dei falchi iraniani, ha ammonito di nuovo il loro capo, il presidente: “Evitare le provocazioni, gli slogan e le dichiarazioni illogiche”. Per non delegittimare troppo il governo e i suoi rappresentanti, alla fine è dovuto intervenire il Grande ayatollah stesso, Khamenei, chiarendo che il dossierdossier nucleare è materia di pertinenza del Consiglio nazionale supremo di sicurezza, guidato dal “nostro rispettato presidente”. Il secondo fatto impensabile fino a poco tempo fa è che le sanzioni incominciano a fare male sul serio, perché anche la timida Europa sta passando dalla parte degli americani. British Petroleum, l’anglo-olandese Shell e la francese Total si stanno sganciando dagli investimenti nel petrolio e nel gas naturale, anche l’italiana Eni non stipula nuovi contratti. In cerca di conferme, Asiatimes ha contattato funzionari iraniani, compreso un alto comandante delle forze armate. Tutti ammettono che le conseguenze economiche della crisi sono gravi. Ieri il Wall Street Journal ha provato a tirare le somme, e ha concluso che l’impatto è ancora “non chiaro”, dato il prezzo del petrolio che continua a salire e salva gli iraniani. Ma le sanzioni potrebbero essere davvero rovinose: per esempio, l’Iran condivide lo sfruttamento del supergiacimento di gas d South Pars, nel Golfo persico, con il Qatar. Ogni giorno, causa sanzioni internazionali, l’Iran resta sempre più indietro e il Qatar vola. Sbaglia chi è sorpreso dalla “nuova fase d’apertura” e considera soltanto l’ultimo segmento di una linea che l’Amministrazione porta avanti da tempo. La “strategia sunnital’alleanza in chiave anti iraniani tra gli impauriti regni arabi del Golfo (più l’Egitto), cucita assieme dal segretario di stato Rice negli anni scorsi, ha subito contraccolpi forti – in Libano per esempio – ma ha anche portato frutti. Sta isolando gli iraniani: ha messo sullo stesso palco di Parigi il presidente siriano Bashar el Assad e quello israeliano Ehud Olmert. In questo quadro Israele, con il muso duro e il dito sul grilletto di un airstirke tipo missione Osiraq, fa la parte del poliziotto determinato, che deve essere trattenuto da quello conciliante: gli iraniani capiscono, meglio trattare con Washington che subire un’incursione dell’aviazione di Gerusalemme. Così, anche le ultime esibizioni muscolari da ambo le parti, con gli apparati bellici in allarme, la flotta nel Golfo da una parte e l’esercitazione “Grande profeta tre” – il lancio di missili Shahab (le foto del test, per amplificare l’effetto, sono state grossolanamente ritoccate dai pasdaran) – dall’altra, sono state preliminari alla fase diplomatica. Dall’Iran Hooshang Amirahmadi, capo dell’American Iranian Council, un think tank devoto al miglioramento delle relazioni tra i due paesi (per buona misura, in Iran gira con una scorta), dice che è normale che i due schieramenti alla vigilia di un negoziato dopo anni di tensione e di confronto abbiano gonfiato il petto, per non sedersi al tavolo con la sensazione di essere la parte debole.
IL FOGLIO- Modello sovietico, di Carlo Panella
La schiarita nei rapporti tra Stati Uniti e Iran – la partecipazione di William Burns, sottosegretario di stato americano per gli Affari politici, alle trattative di Ginevra e addirittura la prospettiva di una ripresa dei rapporti diplomatici diretti – è l’esito obbligato dell’unico, vero fallimento della strategia mediorientale di George W. Bush. Meglio, di Condoleezza Rice: il fronte anti Iran. Un anno fa Maurizio Molinari, sulla Stampa, diede ampi riscontri dell’intenzione del dipartimento di stato di replicare con Teheran il modello delle amministrazioni Reagan e Bush senior che la sovietologa Rice aveva ben chiari: una specie di tenaglia diplomatico-militare che asfissiò l’Urss di Andropov, Cernienko e Gorbaciov. Una strategia non più di containment, ma di attacco flessibile che si articolò su più terreni: fatto perno sulla crisi polacca e sull’escalation degli armamenti, costrinse l’Urss alla paralisi nei suoi paesi satelliti e produsse infine il collasso interno dell’Impero sovietico. Rice ha tentato di applicare il medesimo schema al “placcaggio” dell’Iran, per bloccarne l’iniziativa su tutti i quadranti della sua area d’influenza e favorire anche l’emergere di quella alternativa interna al regime, la cui assenza è un mistero irrisolto. Nelle tappe dei suoi viaggi in medio oriente, è apparsa in trasparenza la struttura di questo “fronte anti sciita”: Cairo, Amman, Riad, Ramallah. Rice ha tentato di azionare una sorta di “falce sunnita” i cui leader sono i più acerrimi avversari storici di Teheran: Hosni Mubarak, re Abdallah II al Hashemi, re Abdallah ibn Abdulaziz al Saud, Abu Mazen. Passati tre anni, Rice ha però dovuto prendere atto che la falce – purtroppo – ha agito in senso inverso: non ha mietuto forze all’Iran, ma ha invece indebolito e fiaccato proprio i partner sunniti di Washington. Prima la conquista manu militari di Gaza a opera di Hamas nella primavera del 2007, poi – dopo la guerra del 2006, la prima “non vinta” da Israele – la vittoria politica di Hezbollah in Libano (che è riuscito a conquistare quel diritto di veto sul governo libanese per cui aveva assediato il Parlamento per due anni) hanno obbligato Washington a prendere atto dell’allargamento della sfera d’influenza iraniana, in grado di presidiare le rive del mediterraneo. In particolare, sia per Gaza sia per Beirut, il segretario di stato americano Rice ha dovuto prendere atto che è stata disastrosa l’azione della colonna portante dell’alleanza statunitense in medio oriente: l’Arabia Saudita. Sia l’accordo di Riad tra Abu Mazen e il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, sia quello di Doha tra il premier libanese, Fouad Sinora, e il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, hanno segnalato l’incapacità totale di re Abdullah di contrastare l’espansione iraniana in Palestina esattamente come in Libano (in cui peraltro è partner della famiglia Hariri). L’unico quadrante in cui il fronte antisciita ha funzionato egregiamente è l’Iraq – non a caso l’unico da cui sono totalmenteè stato il cambio di strategia operato sul campo dal generale David Petraeus. I colpi inferti dal suo “surge” ad al Qaida hanno ridotto infatti quasi a nulla le stragi di sciiti a opera degli uomini di Bin Laden e questo ha permesso all’esercito iracheno di conseguire sul terreno una serie di vittorie consistenti contro gli uomini di Moqtada al Sadr – manovrati da Teheran – in crescente carenza di consenso nel contesto sciita. Fallite a Gaza e a Beirut le strategie statunitensi di escalation reaganiana “controllata”, non resta dunque oggi a Condoleezza Rice alternativa alla partecipazione alla grande finzione della “coesistenza pacifica”. Finzione obbligata anche dai tempi della democrazia americana. Sino all’esito del voto presidenziale americano – salvo errori di qualche protagonista – il mondo resterà in artificiale sospensione anc assenti le influenze e l’azione dell’Egitto eè stato il cambio di strategia operato sul campo dal generale David Petraeus. I colpi inferti dal suo “surge” ad al Qaida hanno ridotto infatti quasi a nulla le stragi di sciiti a opera degli uomini di Bin Laden e questo ha permesso all’esercito iracheno di conseguire sul terreno una serie di vittorie consistenti contro gli uomini di Moqtada al Sadr – manovrati da Teheran – in crescente carenza di consenso nel contesto sciita. Fallite a Gaza e a Beirut le strategie statunitensi di escalation reaganiana “controllata”, non resta dunque oggi a Condoleezza Rice alternativa alla partecipazione alla grande finzione della “coesistenza pacifica”. Finzione obbligata anche dai tempi della democrazia americana. Sino all’esito del voto presidenziale americano – salvo errori di qualche protagonista – il mondo resterà in artificiale sospensione anchenelle aree di crisi più accesa. Questa attesa aggiunge un motivo in più a una trattativa diretta tra Stati Uniti e Iran, che toglie a Barack Obama il primato dell’unica proposta originale in politica estera. Trattativa, dunque, ma dentro le “linee rosse” segnate dall’ayatollah Ali Khamenei, a partire dal sonoro “no” a ogni ipotesi di sospensione dell’arricchimento dell’uranio. Trattativa che con tutta probabilità si trascinerà per settimane, forse per mesi con reciproco interesse dei due avversari. L’Iran punta infatti a consolidare il suo programma atomico, mentre Bush ha tutta l’intenzione di tentare il replay dello schema di Bill Clinton del 2000 e di usare questo apparente appeasement per chiudere un mini accordo tra il premier israeliano, Ehud Olmert, e il rais palestinese, Abu Mazen. Anche nel 2000, Clinton aprì a Teheran e Madaleine Albright arrivòarrivò sino a scuse ufficiali al popolo iraniano per le “indebite ingerenze americane da Mosaddeq sino allo scià”. Anche nel 2000 Clinton puntò tutte le sue forze per chiudere il suo secondo mandato con un accordo storico tra Gerusalemme e Ramallah, approfittando di una fase di apparente coesistenza pacifica. Si sa, purtroppo, come è andata a finire. Oggi Bush spera di obbligare Olmert a chiudere un accordo con Abu Mazen. Se ci riuscirà – e non è impossibile – l’Iran avrà una sola opzione, salvo registrare la sua prima, radicale sconfitta: riaccendere l’incendio a Gaza o in Libano. E lo farà, con la complicità della Siria baathista che da quaranta anni è maestra proprio in questo flessibile concatenamento di trattative – come quella di Bashar el Assad e Israele patrocinata dalla Francia di Nicolas Sarkozy – seguite da immancabili guerre .
LA STAMPA- " Ambasciata Usa in Iran ? Apriamola al più presto", di Maurizio Molinari.
.Questa mattina a Ginevra William Burns, braccio destro del Segretario di Stato Condoleezza Rice, vede il negoziatore iraniano Saed Jalili nell’incontro a più alto livello fra Usa e Iran dal 1979, quando le relazioni si interruppero dopo l’assalto all’ambasciata a Teheran, dove 52 americani rimasero nelle mani dei militanti khomeinisti per 444 giorni. Fra gli ostaggi c’era anche Lowell Bruce Laingen, che fu detenuto nel ministero degli Esteri iraniano e dopo la liberazione ricevette l’«Award for Valor» dal Dipartimento di Stato. Oggi Laingen ha 86 anni e, parlando al telefono dalla sua casa in Maryland, dice di sperare che «i diplomatici americani tornino presto a Teheran».
Cosa pensa dell’incontro di Ginevra e dell’ipotesi dell’apertura di una sezione di interessi Usa in Iran?
«Sono molto favorevole, ho aspettato a lungo questo momento, a mio avviso si tratta di un atto dovuto».
Nei confronti di chi?
«Del popolo iraniano. L’apertura di una sezione di interessi diplomatici è qualcosa che ha a che vedere con le relazioni fra due popoli, quello americano e iraniano. Non sono più tornato a Teheran dall’epoca della crisi degli ostaggi, ma a quanto so gli iraniani, la gente comune, aspettano il nostro ritorno, ci vogliono lì. Se i nostri diplomatici torneranno a Teheran troveranno la gente che li fermerà ed abbraccerà nelle strade. Il popolo iraniano è amico dell’Occidente e dell’America. Ma proprio per questo temo che la cosa non avverrà».
Che cosa intende dire?
«Non credo che il presidente iraniano Ahmadinejad, darà davvero l’assenso al ritorno dei nostri diplomatici. Sa bene cosa comporterebbe e non lo desidera. Non ha interesse ad aprire l’Iran al mondo esterno e tantomeno all’America. Loro hanno da tempo una folta sezione di interessi a Washington, e anche una sede diplomatica a New York presso l’Onu e sarebbe naturale stabilire la reciprocità. Ma temo che Ahmadinejad finirà per porre degli ostacoli, anche se a parole afferma di essere favorevole».
Lei è stato a lungo in servizio a Teheran, ha conosciuto l’Iran prima della rivoluzione e poi la detenzione per mano dei pasdaran. Che consiglio darebbe ai diplomatici americani che potrebbero presto aprire la nuova sezione di interessi?
«Andate al più presto. Incontrate gli iraniani, parlate con la gente. Create un ponte con un popolo che ci è amico».
Ma c’è chi obietta che riprendere le relazioni, anche se in tono minore, sarebbe una legittimazione per un presidente come Ahmadinejad che persegue atomica e minaccia Israele?
«L’America non è in grado di legittimare o delegittimare nessuno. Il governo deve fare gli interessi del popolo americano e stabilire relazioni con gli altri popoli, iraniani inclusi. Le relazioni fra i popoli contano più di quelle con i governi. Sono i popoli a scegliersi i governi. Saremmo dovuti tornare a Teheran da molti anni, è stato un grave errore non farlo. Non è una questione politica, legata a una crisi più che a un’altra, ma ha a che vedere con la volontà del popolo iraniano di avere un rapporto diretto con l’America. Chiedete ai turisti e imprenditori americani che in questi anni sono andati in Iran e vi diranno che non avere una nostra presenza diplomatica è un grave errore. Prima rimediamo a tale ritardo e meglio sarà».
Un’altra obiezione alla svolta dei rapporti bilaterali è che l’America non può tornare senza ricevere prima almeno le scuse per il sequestro degli ostaggi, del quale anche lei fu vittima...
«Certo, le scuse sono dovute. Prima o poi l’Iran dovrà ammettere che fu una lampante violazione delle regole che governano i rapporti fra Stati. Continuo ad aspettare che questo momento arrivi ma aspetto anche il nostro ritorno nelle strade di Teheran».
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