Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Riflessioni su Israele, gli ebrei , le prospettive di pace di Amos Oz, Elie Wiesel, Daniel Barenboim, Abraham B. Yehoshua
Testata:Informazione Corretta - La Stampa - La Repubblica Autore: Giorgia Greco - Elena Loewenthal - Abraham B. Yehoshua Titolo: «Israele: dialogo impossibile? - Come si dice speranza in ebraico ? - La scintilla degli ebrei»
Nell’ambito della rassegna culturale La Milanesiana, la manifestazione che ogni anno propone al pubblico incontri con esponenti del mondo della cultura, registi, scrittori, cantanti e che quest’anno ha visto fra gli altri la partecipazione della cantante israeliana Noa oltre che del Premio Nobel per la Letteratura Gao Xingjian, si inserisce l’evento “Aperitivi con l’autore” .
Domenica 29 giugno presso la Sala Buzzati del Corriere della Sera erano presenti insieme al regista Amos Gitai, al critico Enrico Ghezzi, allo storico Simon Levis Sullam, allo scrittore Ernesto Ferrero che dal 1998 dirige la Fiera del Libro di Torino, due grossi calibri della letteratura ebraica ed israeliana: Amos Oz ed Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace nel 1986.
La domanda che è stata il filo conduttore dell’incontro “Israele: dialogo impossibile”? ha impegnato gli intervenuti in un dibattito interessante e costruttivo nel quale ognuno ha portato le proprie esperienze di vita e di studioso.
Amos Oz ed Elie Wiesel incarnano due destini del popolo ebraico: il sogno della Terra promessa e l’incubo della persecuzione.
Entrambi all’età di 16 anni hanno visto la loro vita modificarsi drasticamente: Wiesel con la deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz nel quale perderà i genitori e una sorella, una tragica esperienza che sarà raccontata nelle pagine strazianti di La notte, un libro tradotto in trenta lingue; Oz, uno pseudonimo che significa forza, coraggio, lascerà la sua famiglia a Gerusalemme per andare a vivere nel kibbutz Hulda, laboratorio dell’utopia del nuovo Stato d’Israele.
Per Elie Wiesel il dialogo è possibile perché tutto quanto riguarda la storia ebraica dimostra che ciò che è impossibile può trasformarsi in “possibile”.
Storicamente gli ebrei avrebbero dovuto cessare di esistere secoli addietro: tante le persecuzioni e le possibilità di assimilazione per conversione forzata, tanti problemi e tanti esili e tuttavia “siamo ancora qui, siamo l’unico popolo dell’antichità che è sopravvissuto all’antichità stessa”. “Quando il dialogo fallisce – continua Wiesel – prende il sopravvento la violenza e noi dobbiamo opporci e difendere le parole contro i pugni”.
I coniugi Wiesel organizzanoregolarmente una conferenza con il re di Giordania a Petra e in un recente incontro hanno avuto come ospiti il premier israeliano Olmert e il palestinese Abbas. Di fronte alla commozione del pubblico nel vedere l’abbraccio fra i due leader, Wiesel ribadisce che la pace è possibile perché questo incontro è preludio di un nuovo inizio e gli ebrei sono il popolo dei nuovi inizi.
Amos Oz, alfiere del pacifismo israeliano,è ottimista perché ritiene che la maggioranza degli arabi palestinesi e degli ebrei israeliani sia pronta ad accettare ilcompromesso della spartizione che del resto è l’unica soluzione, seppur dolorosa, per due Stati.
Non ci sono alternative per lo scrittore israeliano perché sia i palestinesi che sono circa 4 milioni sia gli israeliani che ormai contano quasi 7 milioni di abitanti, non hanno un altro posto dove andare.
Non possono essere un’unica famiglia felice sia perché non sono una famiglia sia perché non sono felici; potranno soltanto essere vicini di casa.
I problemi da affrontare sono numerosi: i confini, la sicurezza, Gerusalemme, gli insediamenti. L’unico nodo che non può essere risolto con un compromesso, secondo lo scrittore, è la disputa sui luoghi sacri. “Per me – continua Oz – è giusto lasciare che la gente possa pregare, che vi sia libero accesso ai luoghi sacri e poi sarà il Messia quando verrà a dirci a chi appartengono quei luoghi”.
Per il regista Amos Gitai che è a Milano per presentare il suo ultimo film “Disengagement” , gli israeliani non si possono permettere di essere pessimisti perché quando si vive il conflitto dall’interno l’ottimismo e cioè l’idea di un dialogo possibile, non è solo un’analisi ma un desiderio che conduce alla volontà di reagire. Come cineasta – continua Gitai - il mio compito è porre dei quesiti, provocare delle domande perché solo in tal modo si può influire sulla realtà e indurre le persone a riflettere su tutti gli aspetti del conflitto.
Ernesto Ferrero non si sofferma sulle polemiche che hanno accompagnato la Fiera del Libro di Torino etichettandole come “polemiche di persone in cerca di visibilità”. Ciò che invece lo ha colpito è la difficoltà di dialogo fra la società israeliana democratica e tollerante e le società arabe vicine dove non è possibile alcun dibattito. Lo sdegnato rifiuto opposto dagli scrittori arabi all’invito a partecipare al Salone del Libro è tanto più incomprensibile in quanto non proviene dall’”uomo della strada” che reputa Israele il “male assoluto” ma da intellettuali che sono ritenuti “moderati” e illuminati.
Per Ferrero è molto grave constatare che questi scrittori anziché costruire ponti (che è poi “il loro mestiere”) erigono muri ancora più alti. Lo scrittore italiano non vede fra l’altro molte possibilità di dialogo neppure quando verranno costituiti due Stati perché ribadisce: “Stiamo ancora aspettando una società araba moderata: l’islam moderato o non esiste o se esiste non ha il coraggio di parlare”.
Simon Levis Sullam oltre al suo punto di vista di storico, più pessimista rispetto a chi lo ha preceduto, ritiene di estrema importanza il dibattito sul Medio Oriente avviato in Israele dai nuovi storici quali Benny Morris o Zeev Sternhell.
“Qualsiasi accordo di pace non può esimersi dall’indagare le lacerazioni sul passato oltre alla questione delle origini dello Stato d’Israele”.
Come ebreo diasporico insiste sul ruolo non solo delle leadership mediorientali ma anche della Diaspora. Il rapporto tra esilio e nazionalismo è un punto nel quale ebrei ed arabi possono incontrarsi perché la pace parte anche dal riconoscimento delle differenze reciproche. Il contatto nell’esilio con altre culture può consentire ai soggetti coinvolti nella regione e nel conflitto stesso di recuperare le radici della loro esperienza, in quanto le identità si costruiscono attraverso un intreccio di esperienze storiche e culturali e non nella contrapposizione.
Da ultimo Elie Wiesel riprende un tema di grande attualità: la posizione dell’Iran e del suo presidente. Senza mezzi termini Wiesel afferma che Ahmadinejad non è pazzo ma “intende dire esattamente ciò che dice”.
“La storia mi ha insegnato che le minacce dei nemici sono molto più vere che non le promesse degli amici”. Ahmadinejad è il primo negazionista dell’Olocausto a livello mondiale. Ha ripetuto più volte che l’Olocausto non è mai accaduto ma accadrà. Infatti si sta armando con armi nucleari e il primo obiettivo è Tel Aviv.
Dinanzi a questa minaccia concreta Wiesel sta organizzando una campagna presso i capi di Stato che incontra e presso la gente comune affinché questo individuo venga dichiarato “persona non grata” in tutto il mondo e non venga accettato da alcuna società civile. “E’ una persona – ribadisce il Premio Nobel per la Pace – che non è degna di un dialogo”.
……”Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte, mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visti i corpi trasformarsi in volume di fumo sotto un cielo muto, mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere, mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai”
(Elie Wiesel – La notte)
Giorgia Greco
Elena Loewenthal racconta un dialogo tra Amos Oz e Daniel Barenboim, su La STAMPA
Una colazione a casa Feltrinelli in una torrida Milano di fine giugno. Gli ospiti vagano tra il buffet e i divani. Sono seduta a tavola accanto ad Amos Oz - «Il caldo del mio deserto - dice con un sorriso sudato di stanchezza - è una brezza al confronto di questo». Ma il peso dell'afa svanisce: sarà merito dei libri tutt'intorno, della storia che queste pareti raccontano, delle non meno storiche (e tiepide, per fortuna!) cotolette formato scottadito. Amos Oz e Richard Ford, entrambi ospiti della Milanesiana, chiacchierano da vecchi amici. Gli altri commensali ascoltano - perché questa casa sa la magia di insegnarti quand'è giusto tacere, sentire. Com’è duro il mestiere di scrittore. Altro che divertente! È dolore puro. Dice Oz, Ford ascolta e assente. Da due anni non produco più, confessa Ford dopo una pausa, sto meglio se non scrivo. E leggere?, continua Oz. Mai! Se leggo qualcosa di mio, è garantita la frustrazione: o mi piace tanto e penso che non sarò mai più capace di scrivere così; o lo detesto e mi dico: come ho potuto scrivere una cosa del genere? Ford ride con rassegnazione convinta. Torna al buffet. Mentre Oz e Ford discorrono dell'ingrato destino di scrittore costretto a reinventarsi - e a reinventare - ogni volta daccapo (un bravo falegname fa sempre la stessa sedia, lo scrittore che si ripete è inutile), ecco il colpo di scena. La sorpresa travolge la padrona di casa, ma c'è da giurarci che l'ha orchestrata lei, con la perfezione dell'entusiasmo. Orchestrata nel vero senso della parola, ché di Daniel Barenboim si tratta. Inge Feltrinelli lo accoglie in un misto di italiano e tedesco, «Non sembra arghentino?» (in effetti, è nato a Buenos Aires). «Tutto bianco! - prosegue Inge - Ma il panama no, mi raccomando, niente panama, da quando lo mette anche...». Il maestro parla italiano, ma quando vede Oz nessuno lo scosta più dal suo, dal loro ebraico. È una lingua densa e profonda, va al ritmo dei pensieri e delle battute da lasciar depositare, prima di afferrarle. Intorno al tavolo, nessuno (a parte me) capisce che cosa i due stiano dicendo, eppure tutti continuano a tacere, e ascoltare. Oz: «Daniel, hai sentito il discorso del marito di Carla Bruni, l'altro giorno alla Knesset? Ma sì! I giornali israeliani non parlavano che di lei - Carla». (Oz mette l'accento sulla prima e non sull'ultima «a». In un romanzo di tempo fa giocava con questo nome addosso a un personaggio, perché in ebraico Car-lah significa «lei ha freddo») Barenboim: «Sì. Mi è piaciuto. Molto. Profondo. Molto umano». (Il presidente francese ha usato parole molto equilibrate: no al terrorismo ma anche no agli insediamenti. Ha toccato il cuore degli israeliani parlando dell'importanza di Israele per gli ebrei). Oz: «E poco politico. È piaciuto molto anche a me. Meqawwim...». (Significa «speriamo», in ebraico. Ma è seguito da una sequenza infinita di puntini di sospensione). Barenboim: «Amos, perché non vieni a parlare ai ragazzi della mia orchestra? Ci faresti un grande regalo. Quando vuoi. Sai che con me ci sono palestinesi, siriani, libanesi, persino dei ragazzi iraniani. Questa estate, che dici?». Oz: «Mi piacerebbe molto, ma l'estate è per me, sai, periodo di clausura. Sono in clausura di scrittura». (Sta lavorando a dei racconti). Barenboim: «Amos, come vedi la situazione? Io sono preoccupato. Non pensi che noi israeliani dovremmo avere più coraggio?». Oz: «Guarda, Daniel, io sono convinto che la gente sia rassegnata. Da una parte e dall'altra, sa che il nostro e loro destino è quello di vivere vicini, uno accanto all'altro. Credo che questa consapevolezza sia ormai scontata. Come quando si decide che un paziente è da operare: bisogna tagliare e fare due Stati, che piaccia o no». Barenboim: «Hai ragione. Ma io penso che ci vorrebbe più coraggio da parte nostra. Dovremmo aprirci di più. Penso che tocchi a noi, lo slancio. Mi sembra come se ci mancasse qualcosa, senza questa volontà, da parte nostra, di fare il primo passo. Aprire, in tutti i sensi». Oz muove le mani. Le accosta, le incrocia: «Con prudenza. Dopo tanto scontro, prima di abbattere le barriere ci vuole pazienza. Bisogna imparare a vivere vicini. Bisogna prima abbattere le paure reciproche». Barenboim ha un eloquio più andante. Ascoltarli insieme è come salire e scendere lungo lo spartito. «Ma la situazione è quella che è. Non mi convince. Tu vedi la reale possibilità che questa classe dirigente faccia dei passi avanti?». Oz: «Daniel, sottovaluti l'effetto sorpresa della storia. Secondo te, se qualcuno avesse detto a Gorbaciov, solo qualche anno prima, tu sarai la glasnost, lui ci avrebbe creduto? E che Sadat sarebbe venuto a Gerusalemme, chi l'avrebbe mai detto? Nemmeno lui, no di certo, fino a poco prima! Chi fa la storia non ne è quasi mai consapevole!». Barenboim: «Hai ragione, hai ragione... speriamo. Ma quando vieni a parlare ai miei ragazzi?».
L'intervento di Abraham B. Yehoshua alla Milanesiana:
Il fuoco è l´unico elemento che non ci è stato dato dalla natura ma che l´uomo ha conquistato da sé e preserva. Non è quindi oggetto di contrasti come la terra, o l´aria, ma è un elemento asservito all´uomo. Non a caso è al centro di così tanti miti, in culture differenti e distanti tra loro, che narrano dello scontro tra l´uomo e forze vigorose e malvagie per impossessarsene. A partire da Prometeo, duramente punito per aver sottratto il fuoco agli dei e averlo donato agli umani, fino ad arrivare al polinesiano Maui, che discese negli inferi per imparare ad accendere il fuoco sfregando due legni. (...) Nella tradizione ebraica non vi è menzione di lotte contro forze malvagie per appropriarsi del fuoco. È l´uomo, con la sua intelligenza, a produrlo. Nei sei giorni della creazione Dio creò la luce, non il fuoco. Fu l´uomo, plasmato nel sesto giorno e ispirato da Dio, che la sera del sabato sfregò due pietre, sprigionò una scintilla e poi una fiamma. Ancora oggi gli ebrei osservanti evitano di avere contatti con il fuoco o di accenderlo di sabato. Attendono che in cielo siano apparse almeno tre stelle per avere la certezza che il sabato sia finito e poter riattivare il fuoco recitando una benedizione. Persino io, ateo convinto nonostante sia cresciuto in una famiglia in cui si rispettavano le tradizioni ebraiche, ancora oggi, a causa del timore religioso inculcatomi dai miei genitori, faccio fatica a fumare di sabato l´unico sigaro che mi concedo una volta al giorno. Nelle ore crepuscolari mi ritrovo a scrutare impaziente il cielo per vedere quando appariranno le tre stelle per potermi godere il mio piccolo sigaro. Il fuoco è dunque importante e l´uomo non lo ha padroneggiato facilmente né ha superato senza sforzo il terrore che gli incuteva. Ricordo un´arguta frase di Jean Cocteau: «A chi mi chiede che cosa salverei della mia casa, se bruciasse, rispondo: il fuoco. È il fuoco, infatti, la cosa più preziosa». Ancora oggi gli studiosi non capiscono fino in fondo come e perché l´uomo preistorico abbia superato la sua paura naturale del fuoco, l´abbia dominato e piegato al suo volere. Il controllo e l´uso domestico delle fiamme non solo è un evento strano e inusuale, è persino contrario al nostro istinto di sopravvivenza giacché introduce nelle nostre case un pericolo mortale. Comunque sia, vi sono attendibili testimonianze che già ottocentomila anni fa gli ominidi preistorici facevano uso del fuoco. (...) L´incontro intorno al falò incoraggiava inoltre la conversazione, lo scambio di esperienze, e ha portato allo sviluppo della famiglia e alla sua coesione. Ma ancora più profonda è l´influenza psicologica che il fuoco ha avuto sugli esseri umani. Contrariamente agli altri tre elementi naturali esso si comporta come una creatura viva, è mobile, cambia continuamente forma, produce suoni, consuma combustibile ed emana calore. È l´esatto contrario della morte e probabilmente già in passato veniva considerato una metafora della vita. Per questo nella cultura di molti popoli, simboleggia la vita dopo la morte, un simbolismo che si esprime mediante l´accensione di ceri, candele, o mantenendo una fiamma perenne in importanti luoghi di sepoltura. L´uomo può accendere e spegnere il fuoco a piacimento, può sopprimerlo e ravvivarlo secondo la sua volontà. Ed è forse in questa sua capacità che si nasconde la chiave della consapevolezza della morte perché fra tutte le creature del mondo l´uomo è l´unico ad avere il controllo del fuoco e la coscienza della propria fine. Le due cose sono collegate. Il fuoco ha trasformato l´uomo in una creatura dotata di grandi poteri ma al tempo stesso infelice, impotente di fronte all´ineluttabilità della morte. È questo il paradosso umano. Tornando al sabato ebraico ecco che ai credenti non solo è proibito accendere il fuoco e farne uso ma anche manifestare dolore e tristezza. I tradizionali sette giorni del lutto vengono interrotti il sabato e in quel giorno non vengono celebrate esequie. Tutte le cerimonie funebri sono posticipate ai giorni feriali. Come se nel settimo giorno l´uomo tornasse a essere una creatura fra le altre, retrocedesse a un´epoca primordiale, antecedente alla conquista del fuoco e alla consapevolezza della morte. In termini biblici, nel settimo giorno della settimana, è come se l´uomo facesse ritorno al giardino dell´Eden, una concezione che non trova paragoni in altri popoli. Concedetemi di concludere con una nota personale. Nelle mie opere, di tanto in tanto, il fuoco fa la sua comparsa. L´ultimo mio romanzo è intitolato Fuoco amico e il fuoco vi appare con molteplici e contrastanti significati. Ma è in un racconto scritto agli inizi della mia carriera che ho dato alle fiamme un ruolo da vero protagonista. Il racconto si intitola "Di fronte ai boschi", è stato scritto nei primi anni sessanta, più di quarantacinque anni fa, e tocca il tema profondo della negazione e della rimozione da un punto di vista sociale e politico. È la storia di un eterno studente, ormai non più giovane, che non riesce a portare a termine la sua tesi di laurea perché preferisce passare il tempo festeggiando con gli amici o intrattenendo relazioni amorose. I suoi compagni più devoti "organizzano" per lui un periodo di isolamento: gli trovano un lavoro come guardaboschi e gli permettono di stare solo con i suoi libri e i suoi appunti e di terminare i suoi doveri accademici. La mansione che gli è affidata è facile, consiste nello stare su un´alta torre di vedetta che domina foreste piantate di recente e dare l´allarme in caso di incendio. In quel luogo l´eterno studente trova un vecchio arabo dalla lingua mozzata, incaricato di piantare i piccoli alberi. Poco alla volta il giovane si rende conto di non riuscire a concentrarsi negli studi. Scopre anche che l´arabo era residente di un villaggio distrutto durante la guerra di indipendenza del nuovo stato ebraico e sulle cui macerie è stato piantata la foresta. Quando domanda al suo superiore come si chiamava il villaggio e come è stato distrutto, costui nega che sia mai esistito. A provocare lo sdegno dello studente non è il fatto che il villaggio sia stato raso al suolo, e nemmeno che una nuova foresta ne copra i resti, ma il diniego del suo superiore, il suo rifiuto di ammettere il passato. Per esprimere il proprio biasimo per quell´atteggiamento e condannarne l´immoralità, lo studente, spinto anche dalla frustrazione di non essere in grado di portare a termine la tesi di laurea, incoraggia il vecchio arabo a bruciare la foresta e a riportare alle luce i resti del suo villaggio. E così, anziché adempiere al ruolo di vedetta che dà l´allarme in caso di incendio dei boschi sotto la sua tutela, il protagonista si trasforma assurdamente in un complice passivo del fuoco che dovrebbe cancellare la negazione della realtà. Ed ecco la descrizione del fuoco nel racconto: «Sorride mestamente tra sé. Nel bosco oscuro che gli si stende davanti l´arabo si sta muovendo come un pugnale silenzioso. E lui osserva il mondo come si osserva una rappresentazione importante poco prima che si alzi il sipario. Emozione leggera, un lieve sonno sulle poltroncine. È il teatro di mezzanotte. E in un istante, tutto insieme, il fuoco. Un fuoco inatteso da un´estremità. Una fiamma alta e superba. Un albero è bruciato, un altro si avvolge in preghiera. Un altro resiste a lungo nel giorno del suo giudizio, e muore infine. Alza il telefono. Sì, la linea è interrotta. Domani mattina lascia questo posto. Una fiamma isolata nel grande bosco. Comincia a temere che il tappeto delle foglie cadute sia bagnato, e i rovi troppo pochi, e che lo spettacolo si concluda con quella sola fiamma. Non riesce a tenere gli occhi aperti. Il sonno è al suo livello massimo, proprio in questo momento eccezionale. Si alza e comincia a camminare nervosamente nella stanza esposta al vento, per allontanare la stanchezza. Passa poco tempo, e la bocca si distende nel sorriso. Comincia a contare le fiamme. «Alle quattro estremità l´arabo sta appiccando il fuoco al bosco e poi prende un tizzone e corre come un vento cattivo verso un quinto punto, dà fuoco al resto. La serietà che mette nel suo lavoro sorprende la vedetta. Scende dalla bambina. Sta dormendo. Sale di nuovo al posto di guardia: il bosco sta bruciando. Bisogna dare l´allarme in fretta, chiedere aiuto. Ma i suoi movimenti sono così lenti. Le sue membra sono di piombo. Scende ancora, sistema la coperta sulla bambina, le sposta un ricciolo dagli occhi, risale, e lo accoglie una ventata calda. Davanti a lui una grande luce. Le cinque colline stanno bruciando. Lingue di fuoco si alzano come impazzite sulle cime degli alberi, gridano al cielo illuminato. Esplodono in canti di esultanza i pini, e barcollano. È agitato da un´emozione profonda. È felice. Dov´è adesso l´arabo? L´arabo gli sta parlando col fuoco, vuol dirgli tutto, e tutto insieme. Saprà capirlo?».