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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.06.2008 I gay musulmani trovano rifugio in Israele
ma è con Israele che continuano a prendersela, non con chi li opprime

Testata: Corriere della Sera
Data: 23 giugno 2008
Pagina: 15
Autore: Davide Frattini
Titolo: «Tel Aviv, va in scena l'intifada delle drag queen»
Sul CORRIERE della SERA di oggi, 23/06/2008, a pag, 15, con il titolo " Tel Aviv, va in scena l'intifada delle drag queen", un accurato servizio del corrispondente Davide Frattini sull'esistenza in Israele dei gay musulmani.  Cioè arabi israeliani, ma anche  quelli che vivono nei territori dell' Autorità palestinese, in Cisgiordania, per i quali anche il solo sospetto di appartenere alla comunità gay può costare la vita. Per questo cercano in Israele, dove l'omosessualità non subisce alcun tipo di discriminazione, una libertà di espressione altrimenti negata. Frattini, nelle interviste riportate, dà risalto al disagio nel quale vivono i gay musulmani, sia in Israele che nei territori, sottoposti ad una doppia diversità, in Israele come arabi e nei territori palestinesi come gay. C'è un altro aspetto che  a noi pare rilevante, e che non riguarda solo i gay musulmani, e che nell'articolo di Frattini viene alla luce. Pur vivendo in una società che li discrimina fino alla condanna più spietata, la morte, quando possono esprimersi culturalmente, come negli spettacoli descritti nell'articolo, invece di descrivere l'oppressione derivante dalla tradizione islamica, se la prendono contro l'occupante israeliano. Grazie al quale, e a lui solo, possono trovare un'isola felice nella quale sopravvivere. Se non ci fosse Israele ci sarebbe uno stato musulmano, nel quale è semplicemente inimmaginabile pensare ad una vita libera e riconosciuta in quanto omosessuali. Pur raccontando la miseria sessuale nella quale sono costretti a vivere, l'argomento dello spettacolo è Israele, nelle vesti dell'oppressore. Sono i martiri suicidi gli in scena, sono i rifugiati fuori Israele dei quali si richiede il ritorno. E' vero che il masochismo degli oppressi non conosce confini, ma avremmo sperato che almeno l'anonimità di queste interviste, avrebbe potuto far emergere una generazione nuova di omosessuali musulmani. Anche se qualcuno respinge la violenza come soluzione, Israele, come paese della modernità e della democrazia, è assente. Capiamo allora perchè le autorità israeliane vedano con sospetto la legalizzazione delle , come correttamente le definisce Frattini. Se sul palcoscenico esaltano i kamikaze, ottenere il permesso di risiedere in Israele solo perchè il partner è israeliano, ci sembra una pretesa eccessiva. Questa ambiguità, così comune in molti movimenti gay, assume in un paese ancora in guerra come Israele, un aspetto ancora maggiore e grave. 
Ecco l'articolo:

TEL AVIV — La keffiah scende lungo le gambe come una sottana, lacrime rosse di trucco scendono dagli occhi. R. canta un inno della seconda intifada. In falsetto. Nel buio di una stanza scura alla periferia di Tel Aviv, la rivolta palestinese va in scena «en travesti».
E' l'esibizione più attesa di una serata cominciata presto, per tornare a casa senza che i genitori (o le mogli inconsapevoli) facciano troppe domande. Il pubblico è composto di gay palestinesi che arrivano da Gerusalemme Est e arabi che vivono a Jaffa. La festa è clandestina come la loro omosessualità. «Non ho scelto questo posto, è questo posto che mi ha trovato, l'unico dove posso essere me stesso», urla A., mentre la voce strozzata di R. celebra la storia di Lina, uccisa dai soldati israeliani sulla strada per andare a scuola: «E' caduta, ma il suo sangue cantava ancora per Gerusalemme / Palestinesi della Cisgiordania / costruite un ponte con i vostri corpi / per far tornare i rifugiati». Le coppie che prima ballavano la tecno di importazione libanese, alzano due dita in segno di vittoria. Qualcuno piange, non si sa per la vita perduta di Lina o per quanto sia complicata la sua, presa in mezzo tra due identità difficili da fare accettare.
«Sono un arabo che vive in Israele e un gay che vive in mezzo agli arabi. Non mi sento accolto da nessuna delle due società, sono doppiamente oppresso», dice R. Ha 26 anni, è un artista-fotografo e abita a Jaffa, ancora con i genitori. Che gli hanno chiesto di sposarsi (o almeno tagliare i lunghi capelli a riccioli) per salvare le apparenze e il rispetto dei vicini. «Nei miei show, metto insieme i simboli della causa palestinese con quelli del movimento omosessuale. Io lotto per la mia identità palestinese tra gli israeliani e per quella gay tra gli arabi». La Sposa della Palestina, nome d'arte, è la più popolare tra le drag queen, il messaggio politico esalta gli ammiratori. Per un altro spettacolo, ha scelto una canzone di Marcel Khalife: racconta di un bambino che sta giocando con un aquilone e quando vede un aereo israeliano in cielo esclama «guarda un aquilone che può volare senza filo». Il jet bombarda la casa, tutto finisce in fiamme.
Le feste sono organizzate dall'associazione Al Qaws (L'arcobaleno), che prova a riunire gli omosessuali arabi, a fornire un rifugio segreto. Vengono pubblicizzate con il passaparola o pochi sms riservati. «Una lesbica o un gay palestinese possono vivere la loro sessualità in Israele — spiega la direttrice Hanin Maikey al quotidiano
Haaretz —. Allo stesso tempo, ci sentiamo come stranieri, ospiti di un'altra cultura. Gli incontri, le relazioni vengono portati avanti in ebraico. Alle nostre manifestazioni invece si parla arabo, senza paura di essere scoperti dai parenti. Ed è liberatorio ». E' liberatorio sentire cantare un travestito, pelle nera e parrucca bionda, «vuole essere. «E' impossibile parlare apertamente nell'ambiente in cui siamnon m'importa quel che dicono, ogni giorno sarò quel che voglio essere». A casa lo aspettano la moglie e cinque figli, per questa notte può essere quel che o cresciuti — continua R. —. Siamo visti come una perversione, una malattia, una disgrazia per la famiglia. La gente è convinta che siamo stati corrotti da valori occidentali che mettono in pericolo la civiltà araba».
Anche M., una lesbica, sceglie canzoni di amore e di lotta, dove è l'amore a vincere sulle armi. Indossa pantaloni mimetici e impersona un militante che si prepara a una missione suicida. L'amante, un'altra donna, veste abiti tradizionali e la implora di non andare. Quando la musica finisce, M. ha messo da parte il fucile (e le aspirazioni da kamikaze). «Preferiamo gli inni degli anni Ottanta — commenta R. — perché quasi nessuno li ascolta più. Testi laici, invocano la fine della violenza. La battaglia per uno Stato palestinese non può essere trasformata in una guerra di religione, guidata dai conservatori». La battaglia di R. è culturale. «Nessuno ascolta più le musiche tradizionali, anche noi siamo stati travolti dal pop. Molti giovani tra il pubblico sentono per la prima volta queste canzoni e per me è un modo di preservare il nostro passato».
Alle feste di Al Qaws vengono anche omosessuali ebrei. Nella sala ci sono coppie miste, A. e U. si sono conosciuti ad Haifa e vivono insieme, ufficialmente perché condividono un appartamento per risparmiare sull'affitto. «Se i mie genitori scoprono che sono gay, non mi parlano più — dice U —. Se scoprono che sto con un arabo, mi diseredano ». Il fidanzato gli traduce le parole e lui applaude divertito. Quando esce alla luce dei lampioni, legge il nome sul cartello della strada e sorride, pensando allo Stato dov'è immigrato dall'Ucraina. Le Drag Queen palestinesi cantano in Via Herzl.

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