Sul CORRIERE della SERA di oggi, 22/06/2008, a pag. 33, un servizio di Ennio Caretto, su un tema di forte attualità. Si deve dialogare con il fondamentalismo, con l'estremismo, oppure combatterlo ? Nel 1981, con un libro pubblicato otto anni dopo in Italia dal Mulino, Pellegrini politici, lo storico di origine ungherese Paul Hollander mise sotto processo l'intellighenzia di sinistra, da Jean-Paul Sartre a Pablo Neruda a Susan Sontag, che si era schierata per Stalin, Mao Zedong e Castro: difensori della libertà per definizione, scrisse tra l'altro, questi intellettuali alienati dalla democrazia si erano lasciati ingannare, erano divenuti compagni di strada delle dittature. Hollander ha rinnovato l'attacco nel 2006 con un secondo libro, The End of Commitment, «La fine dell'impegno», a proposito non più del comunismo, ma dell'Islam. La intellighenzia di sinistra — ha scritto questa volta, citando oltre alla Sontag anche Noam Chomsky, Norman Mailer, Gore Vidal — rifiuta di prendere atto che il radicalismo islamico, con il suo mito del martirio, è ancora più irrazionale e più fanatico, e quindi più pericoloso, dello stalinismo: i liberal non hanno a cuore la loro società e non sono preparati a difenderla. La nuova denuncia dello storico ha innescato una polemica che ricorda quella degli anni Settanta, in Italia, sullo slogan «né con lo Stato né con le Br». Hollander afferma che nell'intellighenzia di sinistra si cela un latente antiamericanismo che converge con il fondamentalismo. L'Islam, aggiunge, è nemico della cultura democratica, nessun liberal ne accetterebbe il regime, laicità, illuminismo e tolleranza sono incompatibili con la teocrazia, ma in pratica l'intellighenzia imputa l'odio musulmano nei confronti dell'Occidente ai presunti abusi dell'America in casa e fuori. Un'aspra critica che lo storico rivolge in particolare all'Europa, «ancora più incline» ha asserito in un'intervista, «all'appeasement con l'Islam di quanto non lo fosse con il comunismo». Hollander lamenta la mancanza tra questi intellettuali di uomini di coraggio come Ignazio Silone, André Gide, Arthur Koestler e George Orwell, che ruppero i ranghi e si opposero alle dittature comuniste. Dalla parte dello storico, che lasciò Budapest quando fu soffocata la rivoluzione ungherese del '56, vi è l'intera intellighenzia americana di destra. Lo studioso del comunismo Richard Pipes considera assurdo «cercare di cooptare il radicalismo islamico » come a suo parere vuole fare la sinistra. Spiega che «non a caso esso si formò a fine anni Venti, quando in Europa nascevano il nazismo e lo stalinismo» a cui si sarebbe ispirato, ed evidenzia che si fa strada in America tra i neri e altre minoranze «più di quanto si fece strada il comunismo». Il figlio Daniel, un orientalista, va oltre, ammonendo l'Europa che rischia di essere «islamizzata ». Ma il richiamo di Hollander è condiviso anche da liberal muscolari come Andrew Sullivan e Paul Berman. Sullivan, che oggi rinfaccia al presidente Bush di «avere dato fuori di senno», fu tra i primi a tuonare che l'intellighenzia di sinistra «minaccia di configurarsi come una quinta colonna musulmana». E Paul Berman, che adopra il termine «islamofascismo», sta per pubblicare un libro dal titolo significativo, The Flight of the Intellectuals, «La fuga degli intellettuali». È sulle stesse posizioni lo scrittore inglese Ian McEwan, che ieri in un'intervista a Guido Santevecchi sul Corriere ha asserito di disprezzare l'islamismo, che «vuole una società che detesto». Appena qualcuno si esprime così, ha rilevato McEwan, «da sinistra si sostiene che è razzista, una cosa inaccettabile, io non lo sono come non lo è il mio amico Martin Amis». In maggioranza, tuttavia, i pensatori liberal ribaltano le accuse di Hollander e compagni. I più recisi sono lo storico inglese Tony Judt, di cui sta per uscire Reflections on the Forgotten XX Century, «Riflessioni sul dimenticato secolo XX», e lo storico Ian Buruma, di origine olandese, autore di Assassinio a Amsterdam (Einaudi). Entrambi ribattono che non si può fare di ogni erba un fascio, che non tutto l'Islam è composto da «teologi barbari», come li chiamò Christopher Hitchens, e che proporre il dialogo non equivale a esserne il «cavallo di Troia». Ed entrambi distinguono tra «il mainstream islamico e il terrorismo della minoranza», insistendo che il problema è impedire che il primo venga infettato dal secondo. Chi propone il dialogo «non è come il collaborazionista dei nazisti», proclama Buruma, sottolineando che i primi obiettivi del radicalismo musulmano sono i liberal laici e riformisti, non i conservatori, come i primi obiettivi dello stalinismo furono i socialdemocratici. Lo spalleggia un altro storico, Avishai Margalit: «Siamo chiamati a dimostrare che la modernità da noi rappresentata non è decadente e corrotta come l'Islam ritiene». Nel libro Riflessioni Judt contesta la dottrina dello Scontro di civiltà di Samuel Huntington e quella dell'«islamofascismo». L'Islam è un insieme di movimenti eterogenei, rileva, e la minaccia costituita da un pugno di religiosi assassini non è paragonabile a quella degli Stati totalitari dello scorso secolo. Se Bin Laden fosse davvero un altro Hitler, si chiede Judt, avremmo reagito invadendo l'Iraq? Perché non etichettammo «Euroestremismo» o «Cristofascismo» l'Eta basca, l'Ira irlandese, le Brigate rosse, la Baader Meinhof tedesca tutte assieme? La lezione dimenticata del XX secolo, prosegue, è che la paura e il dogma ci inducono a demonizzare gli altri in blocco, in questo caso l'Islam. Judt attribuisce il grido della intellighenzia di destra al trauma della strage delle Torri gemelle del 2001 e al fatto che l'America «è l'unica democrazia che glorifichi la forza militare» e difende il pacifismo europeo «frutto della consapevolezza di che cosa una guerra comporti». E rinfaccia agli avversari aberrazioni come l'accettazione delle torture, facendo i nomi del giudice della Corte suprema Antonin Scalia e del celebre giurista Alan Dershowitz.
Ennio Caretto
Bricklane, Londra: l'area a grande densità musulmana in una immagine del settembre 2001 . Sotto: Ian McEwan
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