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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
13.06.2008 La crisi iraniana, l'intesa tra Italia e Stati Uniti, il gruppo 5+1
la cronaca di Maurizio Molinari e un'intervista a Joschka Fischer

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Danilo Taino
Titolo: «Lo scambio impossibile - Roma sbaglia su Teheran: non è una gara per il prestigio»
Da La STAMPA del 13 giugno 2008, la cronaca di Maurizio Molinari:

Al termine di un’ora di colloqui a Villa Madama è stato Bush a riassumere l’esito della sesta visita in Italia, sottolineandone il risultato per lui più importante: «Plaudo alla decisione annunciata dal presidente del Consiglio al Parlamento di rimuovere i limiti all’impiego delle forze in Afghanistan e all’invio di ulteriori carabinieri per addestrare la polizia afghana». Berlusconi conferma: «Abbiamo parlato della fine dei caveat» che il governo Prodi aveva imposto all’impiego di truppe contro taleban e Al Qaeda. Il patto afghano serve a entrambi: Bush recapita al Pentagono la notizia che le truppe italiane possono essere contate a pieno titolo nelle operazioni Nato e Berlusconi toglie dai rapporti bilaterali il più fastidioso ostacolo ereditato dal centrosinistra, facendo capire a Washington che l’Italia è tornata ad essere quella che non ha remore nel «combattere il terrorismo e difendere la libertà». Anche l’incontro al Quirinale con Giorgio Napolitano ha contribuito a rafforzare in Bush l’impressione che i disaccordi con Prodi sono alle spalle perché il Presidente della Repubblica ha parlato di «clima più costruttivo nella vita politica italiana».
Prudenza sull’Iran
Sull’entrata dell’Italia nel gruppo di sei potenze (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania) che tratta con Teheran per convincerla a lasciare il nucleare Bush e Berlusconi restano su posizioni diverse. «Abbiamo chiesto di entrare perché siamo convinti di poter essere utili conoscendo l’Iran da tempo», dice il presidente del Consiglio, sottolineando come l’affidabilità italiana viene dal fatto di «aver sempre rispettato le risoluzioni Onu». Ma Bush non vuole irritare la Germania, che è contraria all’entrata italiana, e dunque non va oltre uno «stiamo considerando seriamente la richiesta». Per comprendere la prudenza bisogna ascoltare Stephen Hadley, consigliere per la sicurezza nazionale, quando spiega: «Se si fa entrare un Paese altri voglio fare lo stesso». Ovvero, c’è anche il Giappone che bussa alla porta e mettere mano all’attuale gruppo significherebbe aprire un vaso di Pandora destinato a complicare, non rafforzare, il negoziato. Ciò che conta per Washington è evitare dispute diplomatiche e fare quadrato attorno all’inviato Ue Javier Solana che, svela Hadley, lavora ad una missione spettacolare: «Rivolgersi al popolo iraniano parlando al Majlis di Teheran» per rilanciare gli incentivi in cambio dello stop al nucleare. Berlusconi non forza, dà l’impressione di aver compreso la necessità di maggiore prudenza rispetto alle pressanti richieste avanzate dalla Farnesina. Anche perché ciò che conta ora è l’applicazione delle nuove sanzioni commerciali e finanziarie Ue. «L’Italia potrà fare molto in proposito», assicura Hadley, evitando dettagli. Il messaggio è limpido: tanto più forte sarà l’impegno italiano sulle nuove sanzioni tante più probabilità avrà Roma di entrare in futuri format.
Trame russe
Pur distanti sul gruppo 5+1, entrambi i leader accennano all’importanza della Russia nel negoziato con l’Iran. Bush ricorda il «piano Putin» e Berlusconi assicura: «Lavoreremo in cooperazione con Usa e Russia». Sembra la genesi di una trama diplomatica per coinvolgere il leader russo Medvedev sull’Iran e Bush puntella il ruolo di Berlusconi come leader globale indicandolo come partner nelle trattative sul clima come sull’emergenza alimentare.
Berlusconi rende omaggio alle politiche di Bush, ne loda le doti di «persona rara, con coraggio e ideali» e gli promette l’invito a insegnare nella nascitura «Università del pensiero liberale» gemellata con il «Freedom Institute» che George W. guiderà in Texas da pensionato. E sulle presidenziali Usa se la cava con una battuta: «Sono per il repubblicano McCain perché con lui Presidente non sarò il leader più vecchio ai summit del G8».
Berlusconi e Napolitano a parte, Bush ha dedicato la tappa romana a incontrare a Villa Aurelia dieci italiani neanche trentenni, esperti di tecnologia e biotech reduci da periodi di lavoro e formazione nella Silicon Valley. È su di loro che il presidente scommette per contribuire al rilancio dell’economia italiana.

Dal CORRIERE della SERA, un'intervista a Joschka Fischer

BERLINO — La trattativa con l'Iran non è un gioco di vanità, dice Joschka Fischer. La situazione è serissima, si tratta della crisi più grave del momento e, a suo parere, rischia di esplodere in termini militari nei prossimi mesi. Che, in questa situazione, il governo italiano ne faccia una questione di prestigio non gli pare solo sbagliato: dice che è pericoloso.
Fischer è un vero esperto di Iran: è stato ministro degli Esteri della Germania nei due governi di Gerhard Schröder, dal 1998 al 2005: la nascita della questione nucleare iraniana, la risposta della comunità internazionale e l'elezione a presidente del duro Mahmoud Ahmadinejad le ha vissute direttamente. Compresa la formazione del sestetto 5+1 (i componenti del Consiglio di Sicurezza Onu — Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia — più la Germania), di fatto formatosi nell'ottobre 2003, quando Teheran accettò di trattare sul suo programma atomico con i tre Paesi europei.
Roma chiede di entrare nel gruppo che tratta con Teheran. Il governo tedesco preferisce non cambiare la formula e blocca le ambizioni italiane. Cosa ne dice?
«Dico che non è una questione di prestigio. La crisi è molto seria e non si capisce perché, a questo punto, cinque anni dopo, si debba cambiare formula. I tre Paesi europei — la Gran Bretagna con Tony Blair, la Francia con Jacques Chirac e la Germania con Schröder — furono chiamati direttamente dall'allora presidente Mohammad Khatami. Riaprire oggi la formula 5+1 creerebbe solo divisioni, nelle quali si inserirebbe sicuramente Ahmadinejad. Se entrasse l'Italia, arriverebbe poi la Spagna, e poi la Polonia. E tutto sarebbe finito. Non è una corsa per il prestigio».
Forse Roma teme che in questo modo Berlino metta un piede nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come membro permanente.
«Posso capire la preoccupazione, ma sbaglia. Le ambizioni della Germania all'Onu non beneficeranno minimamente di questa situazione. A decidere sono altre cose. Essere ipersensibili, in questo momento, non serve, anzi è dannoso. Non capisco perché si dovrebbe aprire il sestetto all'Italia. Per quale ragione?».
Roma dice che può dare un contributo al negoziato.
«L'Italia, se vuole, ha molte opportunità di dare un contributo anche senza riaprire la formula 5+1».
Ok, veniamo al nocciolo del problema: come legge la situazione del nucleare iraniano in questo momento?
«Con preoccupazione seria. Vedo segni che mi fanno pensare come sempre più probabile un'azione militare contro i luoghi dove viene sviluppato il progetto nucleare in Iran».
Quali segni?
«In Israele e negli Stati Uniti un numero sempre maggiore di persone in posizione di influenzare le decisioni si sta interrogando sulle conseguenze di un fallimento dei negoziati con Teheran Secondo, ci sono tensioni crescenti a Gaza, e questo è sempre un brutto segnale. Terzo, George Bush lascerà la Casa Bianca nel gennaio 2009 e anche questo è un fattore che intensifica il dibattito sull'opzione militare».
Ma dove finisce la retorica finalizzata a tenere sotto pressione Ahmadinejad e dove iniziano i pericoli veri di intervento?
«Di retorica ce n'è certo molta. Ma ci sono segnali sempre più forti che indicano intenzioni concrete, possibilità: soprattutto il dibattito di importanti decision maker israeliani e americani che discutono ormai di come e quando attaccare».
Qual è l'alternativa?
«Credo che il primo passo sia separare la Siria dall'Iran. Ed è possibile, lavorando sugli interessi divergenti che Damasco e Teheran hanno in più di un caso, a cominciare dall'Iraq. Per negoziare con l'Iran occorre sempre mettersi in posizione di vantaggio, per questo è essenziale dividere la Siria dall'Iran».
Poi?
«Poi, naturalmente, servono sanzioni economiche serie e convincenti».
Oltre a interventi sulla Siria e sanzioni economiche, si può anche pensare di coinvolgere Teheran in un piano più ampio, in un negoziato di scambio per ottenere la rinuncia al programma nucleare?
«Un negoziato per andare oltre quello che c'è oggi sul tavolo deve aspettare il prossimo presidente degli Stati Uniti. E, in questa crisi, quelli sono tempi troppo lunghi. Ripeto: secondo me, occorre lavorare molto sulla Siria »

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