mercoledi` 14 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - Avvenire - Libero Rassegna Stampa
03.06.2008 Dal mondo islamico e dal Medio Oriente
rassegna di notizie

Testata:Corriere della Sera - Avvenire - Libero
Autore: Stefano Montefiori - Viviana Mazza - Michele Farina - Yosef Yacoub - la redazione
Titolo: ««La satira non c'entra Ci odiano e basta» - Non sapeva a memoria il Corano Bimbo cieco ucciso dal maestro - A chi interessano le «pari opportunità» irachene? - Sì alla Fulbright per i ragazzi di Gaza -Cristiani d’Iraq, fermare il genocidio - Taslima Nasr»

Dal CORRIERE della SERA del 3 maggio 2008, un'intervista  a Flemming Rose,  il caporedattore del quotidiano
Jyllands Posten che nel 2005 ebbe l'idea delle 12 vignette, scintilla di una enorme crisi internazionale.

 I resti dell'esplosione davanti all'ambasciata danese di Islamabad
 
Flemming Rose


«Questo attentato non è una sorpresa, il livello di allerta era più alto da febbraio, quando 17 giornali danesi hanno ripubblicato una delle famose vignette su Maometto e per questo Osama Bin Laden aveva chiesto di colpirci», spiega Flemming Rose, 50 anni, il caporedattore del quotidiano
Jyllands Posten che nel 2005 ebbe l'idea delle 12 vignette, scintilla di una enorme crisi internazionale.
Perché avete deciso di ripubblicare la vignetta con il turbante del profeta a forma di bomba?
«È stata una scelta comune a tutta la stampa danese, un modo per rispondere di nuovo all'intimidazione. Lo scorso febbraio la polizia ha arrestato tre radicali islamici che volevano uccidere Kurt Westergaard, il disegnatore di quel cartoon.
Da allora Kurt, a 73 anni, è costretto a vivere sotto protezione. Abbiamo voluto riaffermare il nostro diritto alla satira, radicata nella tradizione danese. Non vogliamo mostrarci sensibili alle minacce».
C'è un legame diretto con l'attentato di oggi?
«È probabile. I terroristi ce l'hanno con la Danimarca anche perché fa parte della coalizione in Afghanistan. Comunque, è sbagliato tormentarsi, come se la colpa delle violenze fosse nostra. I radicali islamici odiano l'Occidente comunque, al di là di quello che facciamo. Domani potrebbero considerare insultanti i miei capelli rossi, o il fatto che io e lei stiamo parlando al cellulare. È un problema loro».
Quale influenza hanno avuto le vignette nella vita quotidiana in Danimarca?
«Alla fine sono state utili, la comprensione tra le comunità ha fatto molti passi avanti. Nel 2001, il 47% dei danesi di origine straniera si sentiva vittima di discriminazioni. Nel 2006 solo il 26%. Secondo un altro sondaggio del marzo scorso, oltre il 70% della popolazione pensa che non solo avevamo il diritto di pubblicare le vignette, ma che è stata la cosa giusta per affrontare i problemi. Oggi anche le autorità islamiche non contestano più i cartoon.
Una grande vittoria politica e sociale».
E il governo pakistano?
«Centinaia di persone sono in carcere per blasfemia. Quando Salman Rushdie ha ricevuto l'onorificenza della regina, l'anno scorso, il ministro per gli Affari religiosi ha incitato i terroristi suicidi all'azione. Speriamo che i pakistani collaborino con la nostra squadra di investigatori».
Lei vive ancora sotto protezione?
«No. Ma sono in contatto regolare con la polizia danese».

Una terribile vicenda avvenuta in una madrassa pakistana:

Un bambino cieco di 7 anni, Mohammad Atif, è morto ieri in una madrassa pachistana. La sua colpa: non aver imparato a memoria alcuni versetti del Corano.
Il papà, un bracciante nel paese di Vehari, zona di campi di cotone nella provincia orientale pachistana del Punjab, lo aveva iscritto 8 mesi fa in una madrassa, una scuola religiosa. Ma il maestro, Maulvi Ziauddin, ha scoperto che Mohammed non aveva memorizzato alcuni passi del Corano. Mercoledì scorso, per punirlo lo ha appeso a testa in giù al ventilatore del soffitto. Una volta liberato, Mohammad piangeva e allora il maestro lo ha picchiato con un bastone per farlo tacere. Il giorno dopo, il bambino è stato trovato morto nella stanza di Ziauddin, che si era dileguato.
Gli altri studenti e la famiglia hanno raccontato la storia alla stampa. Il cugino della vittima, Mohammad Amir, ha detto che, dopo essere stato slegato, il bambino «era isterico e gridava. Il maestro lo ha picchiato col suo bastone e Atif si è zittito. Poi lo ha fatto distendere in un'altra stanza e ha messo un lucchetto alla porta. Giovedì sera, mi ha dato la chiave del lucchetto e se n'è andato. Quando ho aperto la porta, ho trovato Atif morto ». La causa: violenze fisiche e soffocamento secondo l'autopsia. Il bambino, cieco dalla nascita, era già stato picchiato dal maestro con un bastone di ferro. Ma i genitori lo avevano curato e poi rimandato a scuola, nella speranza che diventasse un mullah un giorno. Ziauddin, catturato giovedì sera dalla polizia, ha confessato di aver picchiato il bambino e di averlo legato e tenuto appeso per mezz'ora. Aveva punito altri ragazzi in passato, ha aggiunto. A suo dire, Mohammad era troppo fragile.
Il premier Yusuf Raza Gilani ha ordinato un'inchiesta e il maestro sarà processato per omicidio. Ma agli occhi di alcuni pachistani, attenti osservatori della società, la morte del bambino non è una sorpresa. «Le punizioni fisiche sono sistematiche nelle scuole religiose», dice al telefono da Karachi Abdul Waheed Khan, fondatore della «Bright Educational Society », istituto che si occupa di formazione degli insegnanti, che ha convinto 350 madrasse a insegnare anche materie come scienze e inglese oltre al Corano. «È un problema presente anche nelle scuole statali, ma in misura assai minore», aggiunge. Nel 1990, Khan ha lavorato in una madrassa per un anno per capire come funzionano. «Che vita è questa per i bambini? — disse dopo l'esperienza — Non potevano giocare. Ho visto abusi sessuali e stupri. Apprendevano da insegnanti senza alcuna preparazione». Secondo stime ufficiali le madrasse in Pakistan sono 13.000 e contano 2 milioni di studenti. Accusate d'essere il punto di contatto tra la popolazione e i gruppi islamici estremisti, sono però anche una risposta alla carenza di scuole pubbliche, soprattutto nelle campagne. Gratuite, offrono alloggio ai bambini poveri. Nel 2002 il governo lanciò un programma per modernizzarle, includere altre materie oltre alla religione, stabilire standard educativi. Ma è stato sospeso. «Ci sono stati due o tre casi di violenze nelle madrasse negli ultimi mesi, in uno dei quali si trattava di abusi sessuali », dice Munizeh Zuberi, giornalista di Dawn, quotidiano pachistano in inglese. «Le madrasse non sono regolate in alcun modo dallo Stato — aggiunge —. Gli insegnanti, a parte il Corano, non hanno alcuna preparazione. Pensano che le punizioni fisiche siano normali perché anche loro sono stati educati così».
Khan però afferma che gli abusi sui bambini in Pakistan sono un problema sociale diffuso anche al di fuori delle madrasse. Un rapporto dell'associazione «Lawyers for Human Rights and Legal Aid» osserva che sono stati denunciati 1.595 casi di violenze su minori nel 2007 e punta il dito contro le autorità, che non fanno applicare le leggi, e la mancanza di una cultura sui diritti dei bambini. «Quei casi sono solo la punta dell'iceberg — ha osservato il direttore Zia Awan —. L'80% non vengono denunciati».

La condizione delle donne in Iraq:

Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner in Iraq: è stato a un convegno sullo sviluppo all'università di Nassiriya (a proposito: e gli italiani dov'erano?). A Bagdad ha visitato un ospedale e incontrato politici: il premier Maliki vuole armi da Parigi. La Difesa dei confini è importante. Anche quella delle donne. Non risulta che Kouchner (come tanti altri) abbia visto la ministra delle Pari Opportunità: Narmin Othman si batte (contro lo stesso Maliki) per cambiare l'articolo 111 che «depenalizza» i cosiddetti «delitti d'onore».
Ieri sul «Corriere» c'era la storia di Rand, 17 anni, uccisa dal padre perché amica di un soldato inglese. Il padre è libero. La madre, Leila, dopo l'uccisione della figlia aveva divorziato: ha pagato con la vita il suo coraggio. Chi va a Bagdad non le dimentichi. E non parta senza aver incontrato (e lodato) madame Othman.

A fronte delle notizie provenienti dal mondo islamico si sgonfia l'ennesimo pretesto della propaganda contro Israele: 

WASHINGTON — Potranno inseguire il loro sogno di una laurea negli Stati Uniti i sette giovani palestinesi di Gaza che si erano visti rifiutare da Israele il visto per uscire dal Paese. Le borse di studio del programma Fulbright sono state riattivate dal Dipartimento di Stato dopo l'annullamento deciso la settimana scorsa. Il consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme, riferiscono i media negli Usa, ha comunicato la bella notizia ai giovani palestinesi domenica scorsa. «Stiamo lavorando in stretta collaborazione con il governo di Israele per ottenere la loro cooperazione in questa vicenda». Un portavoce del governo israeliano ha detto che da parte delle autorità c'è «la sincera speranza che sia possibile far uscire gli studenti entro l'inizio dell'anno accademico».
Lo Stato ebraico ha deciso un embargo politico ed economico contro Gaza dopo l'arrivo al potere di Hamas e come risposta ai lanci di razzi Qassam sulle città nel deserto del Negev. Il governo ha dichiarato la Striscia «territorio nemico» e i valichi sul confine vengono aperti solo per ragioni umanitarie.

Da AVVENIRE, una denuncia della condizione dei cristiani in Iraq, che approda a una proposta molto dubbia. Onu e Unione Europea non appaiono i soggetti più adatti a garantire sviluppi positivi in Iraq, basta considerare i precedenti (oil for food, per esempio).
Più in generale l'articolo sorprende per il fatto che sembra condannare più lo Stato iracheno per le sue inefficienze che il terrorismo stesso:


C on la morte del vescovo caldeo di Mosul Faraj Raho a fine febbraio e poi con l’assassinio del sacerdote siro­ortodosso Yousif Adel Aboudi, il 5 aprile nel centro di Bagdad, il vaso è nuovamente traboccato. Le denunce non bastano più, poiché le parole sono paralizzate. Per quanto si parli con insistenza degli attentati gravi e massicci contro l’integrità fisica e la libertà religiosa dei cristiani del Paese d’Abramo, la parola resta priva di effetto. Questa volta si tratta di una strategia intenzionale di epurazione etnica e religiosa, destinata a svuotare il Paese della popolazione cristiana. I cristiani sono presi di mira in quanto cristiani. Urge pertanto fare un passo in più per trovare gli autori di questi crimini, che si ripetono regolarmente, e per garantire protezione a quei cristiani indifesi che, nonostante tutto, restano nel Paese. Che fare?
  Innanzitutto guardiamo i fatti e compiamo un accertamento di sicurezza e giudiziario. Invece di essere uno Stato civile, lo Stato iracheno si è frazionato e ciò ha
comportato la paralisi degli organismi giuridici e amministrativi.
  Si è dimostrato totalmente incapace di garantire la protezione e la sicurezza dei suoi cittadini. Inoltre, i cristiani sono pochissimo rappresentati in Parlamento e ancora meno nelle istituzioni pubbliche. Vengono intenzionalmente emarginati. Finora nessuna inchiesta ha prodotto risultato e la giustizia locale in pratica non conta nulla.
  Di fronte a tale vuoto di sicurezza e giudiziario, si giustifica e si rende necessaria una commissione d’inchiesta internazionale. Essa deve essere composta da personalità autorevoli per moralità, oggettività e imparzialità, che abbiano una competenza riconosciuta nell’ambito dei diritti dell’uomo e siano particolarmente sensibili ai diritti delle minoranze etniche e culturali e alla libertà religiosa. Non si tratta qui di negare la competenza nazionale dello Stato iracheno in materia di giustizia, ma è triste constatare che esso si trova nell’incapacità di fare il suo lavoro, dati gli enormi intralci che lo paralizzano. A ciò si aggiunge forse,
viste le circostanze, una mancanza di volontà politica di condurre a buon fine le inchieste e i procedimenti. Per giudicare, un sistema giudiziario deve essere indipendente e imparziale.
  A livello internazionale la commissione dovrebbe essere costituita da personalità di Paesi non coinvolti nel conflitto iracheno. A livello regionale dovrebbero essere chiamati in causa i Paesi arabi, così come personalità irachene.
  Insomma, una commissione mista – internazionale, regionale e locale – dove i tre attori, senza leadership, si completerebbero in modo paritario.
  Lungi da noi l’idea di 'diritto d’ingerenza', che davvero non rispetta la sovranità nazionale. Al posto di questo concetto, avvertito come coloniale, sosteniamo con forza 'la responsabilità di proteggere', importante nozione che ha fatto il suo ingresso nel discorso internazionale durante il vertice dei capi di Stato e di governo all’Onu il 16 settembre 2005.
  Da allora, il punto è sapere quale autorità internazionale abbia il diritto di prendere decisioni per aprire un’inchiesta e stabilire la verità
su tali gravi violazioni dei diritti dell’uomo. Naturalmente si pensa innanzitutto all’Onu, che vorrebbe essere la coscienza dell’umanità e il referente delle sue lamentele.
  Sarebbe auspicabile che il segretario generale Ban Ki-Moon prendesse l’iniziativa, poiché egli «può richiamare l’attenzione del Consiglio di sicurezza su qualunque situazione che, secondo lui, possa mettere a rischio il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale» (articolo 99 della carta dell’Onu).
  Riuscirebbe, però, a superare gli incresciosi fardelli politici ereditati da tale organizzazione?
  Dal momento che un eventuale passaggio attraverso il Consiglio Onu dei diritti dell’uomo non sfuggirebbe alle considerazioni politiche degli Stati membri, suggeriamo piuttosto l’Unione Europea. In collaborazione con la Lega degli Stati arabi, potrebbe svolgere un ruolo di equilibrio. Se tutta la società irachena vive nella sofferenza, quella sopportata dai cristiani d’Iraq è ancora più grave. Ne va della loro sopravvivenza nella terra dei loro padri.


La scrittrice del Bangladesh Taslima Nasreen si è rifugiata in Svezia:

La scrittrice del Bangladesh Taslima Nasreen (nella foto), minacciata di morte da parte dei fondamentalisti islamici, ha trovato rifugio e protezione in Svezia. La Nasreen fu costretta a fuggire dal Bangladesh nel 1994. Gli estremisti la accusavano di aver infangato l’immagine dell’islam nei suoi libri. Iniziò così per la scrittrice un periododi peregrinazioni fra Europa e America. Nel 2004 scelse come patria Calcutta, in quanto città di linguabengalese. Nel novembre scorso si vide costretta a lasciareanchel’India, a seguito di nuove minacce. Nel marzo 2007 un gruppo musulmano indiano impose addirittura una taglia di 500 mila rupie per la sua decapitazione.

Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera cliccare sul link sottostante


lettere@corriere.it
lettere@avvenire.it
segreteria@libero-news.eu

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT