Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Dossier Iran la repressione, il sostegno al terrorismo , le strategie di intervento
Testata:Il Foglio - Il Riformista - donneiran.org Autore: la redazione - Caren Davidkhanian - Aurelio Mancuso - la redazione Titolo: «Come contro l’apartheid. La ricetta di McCain per l’Iran - Perché l’occidente farebbe meglio a evitare il risky business dei pasdaran -“Pericoloso per la sicurezza”. Così si finisce (dimenticati) nel carcere di Evin - Mr Hezbollah - Raccontare barzellette»
Da pagina 1 dell'inserto del FOGLIO del 2 giugno 2008: La ricetta del candidato presidenziale repubblicano McCain per l'Iran:
Settemila persone, ieri mattina, hanno applaudito l’intervento di John McCain all’Aipac, l’American Israel Public Affairs Committee. L’Aipac è la più importante lobby filo israeliana d’America, alla cui conferenza annuale di Washington partecipano i candidati presidenziali e i leader congressuali democratici e repubblicani. La conferenza si è aperta con il discorso di McCain e si concluderà domani con l’intervento di Barack Obama e Hillary Clinton, in mezzo parlerà il gotha della politica e dei centri studi americani e israeliani (c’è anche il premier Ehud Olmert). Il punto centrale, come l’anno scorso, è l’Iran, nelle parole di McCain “il principale sponsor mondiale del terrorismo nonché minaccia destabilizzatrice dell’intero medio oriente, da Bassora a Beirut”. L’Aipac, con una lettera, ha invitato i partecipanti a “trattare con calore, deferenza, rispetto e apprezzamento” gli interventi degli oratori, perché “come ci comporteremo durante la conferenza, individualmente e collettivamente, sarà una questione di grande importanza”. Difficile che l’avvertimento riguardasse un’improbabile reazione scomposta al discorso di McCain. L’Aipac, piuttosto, teme che Obama e la sua proposta di voler incontrare senza condizioni Ahmadinejad possa essere accolta male. McCain ha cominciato col ricordare la relazione speciale tra Stati Uniti e Israele, iniziata con la decisione del presidente democratico Harry Truman sessant’anni fa. Nessuno, in America, mette in dubbio la difesa di Israele, ma sullo sfondo c’è la partita presidenziale su come affrontare la ricorrente minaccia iraniana, reiterata ancora ieri dal presidente Mahmoud Ahmadinejad e dal neo speaker del Parlamento Ali Larjani. McCain ne ha approfittato per giudicare sbagliata, illusoria e ingenua la proposta di Obama e per ricordare la sua opposizione all’emendamento, approvato da tre quarti del Senato, che ha definito “organizzazione terroristica” la Guardia Rivoluzionaria iraniana. Obama ha replicato accusando Mc- Cain di voler continuare la politica di George W. Bush, sottolineando però di essere impegnato a difendere Israele. McCain ha ridicolizzato l’idea che gli iraniani stiano facendosi la bomba perché Bush non vuole sedersi a un tavolo con Ahmadinejad: “Come se non ci avessimo pensato”. Gli europei, ha ricordato McCain, sono in trattative con Teheran da molti anni e varie Amministrazioni americane hanno provato a parlare con gli ayatollah, a cominciare da quella Clinton. Ci sono state aperture, proposte di normalizzazione dei rapporti, allentamenti delle sanzioni e le scuse pubbliche di Madeleine Albright, “ma l’Iran ha rifiutato, anche con Khatami – un uomo meno radicale dell’attuale presidente”. Un vertice con Ahmadinejad, secondo McCain, non porterebbe a nulla se non a trovare “un pubblico mondiale per le chiacchiere antisemite di un uomo che nega l’Olocausto e ne vuole cominciare un altro”. Uno spettacolo di questo tipo, secondo il candidato repubblicano, danneggerebbe i moderati e i dissidenti iraniani, assicurando rispettabilità ai radicali e ai falchi del regime. Obama è stato criticato anche per aver scommesso sul fallimento della nuova strategia irachena di David Petraeus, un cavallo di battaglia di McCain, specie ora che tutti, anche i giornali liberal, si accorgono che sta funzionando. McCain crede che la sicurezza di Israele e la deterrenza nei confronti di Teheran passino dal successo in Iraq, dove gli iraniani sostengono gli estremisti sciiti che uccidono gli americani e gli iracheni. “La continua ricerca iraniana di armi nucleari – ha detto McCain – pone un rischio inaccettabile, un pericolo che non dobbiamo permetterci”. Il senatore non ha parlato di intervento militare, ma ha indicato una via internazionale, con o senza l’Onu, per imporre progressivamente sanzioni politiche ed economiche sempre più forti e, soprattutto, per lanciare una grande campagna di disinvestimenti dall’Iran, sul modello di quella che ha aiutato il Sud Africa a liberarsi dell’apartheid: “Se le persone, le aziende, i fondi pensione e le istituzioni finanziare di tutto il mondo disinvestiranno dalle società che fanno affari con l’Iran, le élite radicali che guidano il paese diventeranno ancora più impopolari di quanto lo siano adesso”.
I rischi dell'investimento in Iran:
Roma. Sull’isola di Kish, a poche miglia di mare dallo stretto di Hormuz, la striscia di mare che separe l’Iran dalla penisola arabica, i turisti non mancano mai. Sono vacanzieri e uomini d’affari venuti dall’Europa, dalla Russia e dall’estremo oriente. Visitano l’acquario appena costruito non lontano dalla piazza Kabir, fanno shopping nei negozi del centro e dormono in alberghi dai nomi esotici come il Venus o il Flamingo. Oppure al Dariush, primo hotel al mondo che funziona solamente ad energia solare. Kish non è una provincia degli Emirati ma l’oasi fiscale iraniana voluta, a metà degli anni Novanta, dal governo di Teheran. Un modo semplice per attirare gli investimenti stranieri senza incorrere nelle sanzioni appena varate negli Stati Uniti dall’Amministrazione Clinton. Da allora l’isola è la porta d’ingresso per i dollari e i rubli che finanziano il regime dei pasdaran e il controverso programma nucleare iraniano. Per molti è stato l’affare del secolo: nelle acque del Golfo Persico ci sono le maggiori riserve di gas e petrolio dell’intero pianeta. Ma i rischi del business non sono da meno, dice al Foglio Ethan Chorin, senior fellow al Center for strategic studies & international studies di Washington. Non è soltanto un fatto di sanzioni: “Chiunque voglia investire nell’Iran dei giorni nostri – spiega – deve fare i conti con una situazione interna assolutamente preoccupante. L’inflazione è vicina al trenta per cento, la politica della redistribuzione delle entrate che derivano dall’industria petrolifera è fallita e nelle strade aumenta il malcontento verso il regime. Credo sinceramente che qualcosa cambierà a Teheran nel giro di un anno e mezzo. La guida del paese, l’ayatollah Khamenei, ha compreso la situazione e non ha evitato di scontrarsi con il presidente della Repubblica, Mahmoud Ahmadinejad. La fresca nomina di Ali Larijani alla guida del Parlamento è l’ennesimo segnale della situazione”. Secondo Chorin, già consulente della compagnia petrolifera Shell in medio oriente, le società occidentali che lavorano in Iran sono sottoposte a grande pressione su tutti i fronti. “C’è quella sul versante pubblico che deriva dalla cattiva reputazione dell’Iran sulla scena internazionale. C’è quella sul versante interno, data la situazione di instabilità che regna a Teheran. E c’è quella politica esercitata in primo luogo dagli Stati Uniti attraverso le sanzioni unilaterali in vigore ormai da più di dieci anni”. Sanzioni alle quali si avvicinano con maggiore compattezza anche i paesi dell’Onu. A marzo, persino la Russia ha sottoscritto le misure restrittive contro Bank Melli e Bank Saderat, due forzieri dei pasdaran che, dice il Tesoro americano, finanziano il programma nucleare iraniano e numerosi gruppi terroristici in medio oriente, Afghanistan e Pakistan. “Quel modello di coesione – dice Chorin – dovrebbe essere lo stesso a guidare le prossime mosse dell’occidente. Ma quando si passa a parlare di imprese private il discorso cambia. Le multinazionali non sono associazioni benefiche, puntano al profitto e in Iran le possibilità sono tante. E’ difficile, se non impossibile, ricondurre la loro azione a un piano politico appoggiato dalla comunità internazionale”. Tanto che, nel 2007, quando le sanzioni occidentali hanno raggiunto un livello senza precedenti, il flusso di valuta straniera in Iran è arrivato al massimo storico: 10,2 miliardi di dollari, dice l’American Enterprise Institute, che prevede un trend in ascesa per il 2008. Non è un caso che il paese, sotto Ahmadinejad, abbia abbassato le restrizioni agli investimenti internazionali. La fetta più grande è quella del settore energetico. Qui, le multinazionali russe e cinesi stanno rapidamente occupando i banchi vuoti lasciati dalle compagnie europee e americane. A South Pars, il principale gas field del medio oriente, nelle acque fra Iran e Qatar, Gazprom sta per sostituire Shell e Repsol, che hanno lasciato un affare da dieci miliardi di dollari a causa delle sanzioni dell’Onu e delle pressioni americane. A Kish, però, i charter non hanno smesso di portare politici e affaristi europei. La Svizzera ha siglato un accordo di fornitura energetica con l’Iran, un gruppo tedesco, Mrk, costruirà la linea metropolitana di Ahvaz, un colpo da due miliardi e mezzo di euro. Una banca di Berlino, Eihbank, ha aperto una filiale a Teheran: è la prima volta che accade dal 1979. E dalle parti di piazza Kabir, da febbraio, non c’è soltanto l’acquario, c’è anche la Borsa iraniana del petrolio.
La repressione politica:
L’accusa è sempre la stessa: “Attentato contro la sicurezza nazionale”, che poi è la formula classica di tutte le dittature. Solo che basta davvero poco in Iran, a ventinove anni dalla rivoluzione khomeinista, per passare dalla parte dei sobillatori. E’ sufficiente essere un bahai, ossia un seguace della principale minoranza religiosa del paese, con trecentomila adepti apertamente osteggiati dalle autorità fin dall’arrivo al potere degli ayatollah. Che lo stile di vita dei bahai preveda “la ricerca della pace mondiale e la difesa dei diritti umani” sembrerà forse un’aggravante, agli occhi di un giudice di Teheran. Così, quando qualche giorno fa sei appartenenti alla setta (cinque uomini e una donna) sono stati arrestati e tradotti nel supercarcere di Evin, la prigione dei detenuti politici, nessuno s’è stupito più di tanto. E nessuno deve aver creduto troppo alla trita formula della sicurezza nazionale violata, la stessa utilizzata per giustificare l’anno di detenzione al quale è stato condannato ieri un giovane iraniano di 21 anni, Amir Yaghoub Alim, per aver partecipato alla campagna “Un cambiamento per l’uguaglianza” volta a modificare le leggi che tuttora discriminano le donne nel paese. Erano “un pericolo per la sicurezza nazionale”, d’altro canto, pure i convertiti al cristianesimo che sono stati arrestati a metà maggio all’aeroporto internazionale di Shiraz mentre cercavano di imbarcarsi su un volo diretto all’estero. Secondo il racconto dell’agenzia Compass Direct i sospetti di apostasia “sono stati sottoposti a diverse ore di interrogatorio, tutto incentrato sulla loro fede e le attività delle loro chiese domestiche”. Per loro, come per i sei bahai, il rischio è di terminare il soggiorno nella prigione degli oppositori con una condanna a morte per impiccagione. Ne sono state eseguite quattro, all’inizio del mese scorso e venticinque nel complesso in meno di venti giorni tra la fine di aprile e la metà di maggio. Nelle prossime ore è attesa anche l’esecuzione della pena capitale per tre giovani che al momento di commettere i crimini a loro attribuiti erano minorenni. L’esecuzione della sentenza di morte per Behnoud Shojaii, Mohammad Fadaii e Saiid Jazi, secondo quanto si legge sul sito degli studenti del Politecnico Amir Kabir di Teheran, è stata già fissata e avverrà, come di consueto, per impiccagione. Behnoud Shojaii e Saiid Jazi, per i quali la presidenza di turno dell’Unione europea aveva chiesto clemenza, saranno impiccati l’11 giugno nel carcere di Evin, mentre Mohammad Fadaii salirà sul patibolo due settimane dopo. Colpevoli di aver ucciso un coetaneo in una rissa quando erano ancora minorenni, i tre sono soltanto i primi di una lunga teoria di cento adolescenti iraniani che aspettano di incontrare il boia. Che la repressione della Repubblica islamica presieduta da Mahmoud Ahmadinejad abbia nei giovani il proprio bersaglio preferito è un dato di fatto avallato dalle cronache degli ultimi mesi. E’ tra gli studenti, universitari e liceali, che il risentimento verso il regime clericale di Teheran cova sempre più forte. Tre degli studenti che, alla fine del 2006, affrontarono Mahmoud Ahmadinejad al Politecnico di Teheran gridandogli “dittatore” sono scomparsi. Uno di loro è andato a Evin. Non se ne sa più nulla. E’ andata meglio a Babak Zamanian: un paio di giorni fa il giudice d’appello ha commutato in una multa da cinque milioni di rial (circa 500 euro) la sentenza di primo grado che lo condannava a un anno di carcere. L’accusa, come al solito, parlava genericamente di “attentato alla sicurezza nazionale”. Ma l’isolato atto di clemenza – a pochi giorni dall’apertura della conferenza internazionale della Fao alla quale prenderà parte lo stesso ex sindaco di Teheran – sembra più che altro un segnale del regime alle critiche dei governi stranieri e delle organizzazioni umanitarie, un’escamotage per allentare la pressione sul capitolo dei diritti umani mentre ce n’è un altro, quello sul nucleare, più aperto che mai. Che la politica dell’Iran nei confronti degli studenti e dei dissidenti non sia cambiata lo dimostrano i pestaggi subiti dai ragazzi degli istituti tecnici Shariati, Vali-e- Asr e Shamsipour di Teheran, che lo scorso 5 maggio sono stati dispersi dai militi delle unità speciali della Guardia rivoluzionaria. Gli stessi che, lo scorso 30 aprile, hanno malmenato fino a ucciderli tre giovani di Ivan-e-Gharb, nella provincia occidentale dell’Ilam. Avevano 12, 16 e 17 anni, ma questo non ha impedito a Said Hashemi, vicedirettore locale agli Affari politici e alla sicurezza, di definirli “hooligan”.
La mediazione tedesca tra Israele ed Hezbollah, gruppo terroristico sponsorizzato dall'Iran:
Icolleghi lo chiamano Mr. Hezbollah. E’ l’agente dei servizi segreti tedeschi (Bnd) Gerhard C. che, da due anni, secondo lo Spiegel, si adopera come mediatore per un nuovo scambio tra i miliziani filo iraniani e Gerusalemme. Grande esperto dell’area – ha collaborato anche allo scambio del 2004 – non ha mai avuto cedimenti, nemmeno durante la grave crisi libanese di un paio di settimane fa. E così, finalmente, settimana scorsa Mr. Hezbollah portava buone notizie sia a Berlino sia a New York. L’accordo era praticamente fatto. Notizia con la quale il settimanale tedesco è uscito proprio il giorno, questa domenica, in cui si apprendeva che Hezbollah consegnava una cassa con i resti di soldati israeliani caduti durante il conflitto israelo libanese dell’estate 2006. Qualche giorno prima Israele aveva rilasciato il miliziano Nassim Nasser, dopo che questi aveva scontato una pena di sei anni per spionaggio: il gesto di Hezbollah potrebbe ricollegarsi alla liberazione di Nasser e non strettamente con il piano dello 007. Stupisce però il fatto che i giornali tedeschi si siano limitati a riprendere la dichiarazione del ministro degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, il quale, in visita a Beirut, ha detto di augurarsi che la restituzione delle spoglie sia un primo passo verso una normalizzazione dei rapporti, senza nemmeno ipotizzare una correlazione. Il masterplan tedesco prevede la liberazione da parte del governo israeliano di quattro miliziani di Hezbollah catturati nell’estate di due anni fa; restituzione anche delle spoglie di altri dieci libanesi morti durante quel conflitto così come i resti di vittime di scontri precedenti; infine consegna delle mappe sui campi minati nel sud del Libano redatte dagli israeliani. A queste richieste se ne aggiunge poi un’ultima, altrettanto spinosa: il rilascio del druso Samir Kuntar condannato per la brutale uccisione, durante un assalto terroristico del 1979, di quattro israeliani. In cambio Hezbollah consegnerebbe le salme dei due soldati israeliani Eldad Regev e Ehud Goldwasser, il cui sequestro scatenò il conflitto nel 2006. Fino a oggi non vi è conferma della morte dei due militari, ma negli ambienti dell’intelligence la danno per certa. Israele, ed è questa la moneta di scambio per Kuntar, vuole poi sapere anche del destino di Ron Arad, pilota ed eroe nazionale, abbattuto nel 1986 mentre sorvolava il Libano. E’ probabile che Arad sia stato catturato e portato in Iran, dove poi sarebbe morto, ma gli israeliani vogliono un rapporto dettagliato. I miliziani di Hezbollah sembrano piuttosto sicuri di riuscire da qui a poco a riportare Kuntar in patria. Ma non è detto. Sempre stando a Spiegel il piano di scambio tedesco prevede anche una seconda parte assai più difficile da onorare. Almeno per Olmert, sempre più sotto pressione per gli scandali di corruzione, e sempre più solo (il partner di coalizione Ehud Barak ha chiesto le sue dimissioni, il ministro degli Esteri Tzipi Livni auspica elezioni anticipate). La seconda parte prevede, infatti, la liberazione di 450 palestinesi, in cambio del rilascio del sottoufficiale Gilad Shalit in mano a Hamas. Includere nel pacchetto anche Hamas è stata indubbiamente una mossa astuta del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che così può presentarsi come interlocutore strategico nell’area. Ma fa venire in mente pure il commento dell’ex ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, riguardo al conflitto israelo-libanese: “Una guerra su procura strumentalizzata da Hamas e che fa gli interessi di Siria e Iran”. Anche per questo firmare la seconda parte dell’accordo potrebbe essere particolarmente indigesto per Olmert, come scrive lo Spiegel: 450 palestinesi in cambio di due cadaveri e un militare vivo? Forse con quella cassa consegnata agli israeliani domenica, forse, dando la possibilità di seppellire i soldati israeliani nella loro terra, si vuole rendere più facile la firma di Olmert sul masterplan tedesco?
Dal RIFORMISTA, un articolo di Caren Davidkhanian sull'opposizione iraniana:
"Opposizione" non è il termine giusto per descrivere la galassia di gruppi e gruppuscoli iraniani che esistono all'interno del paese e sparsi per l'Occidente. Non lo è perché suggerisce l'esistenza di un movimento organizzato e unificato, con precisi obiettivi e interlocutori. Nella realtà delle molteplici opposizioni iraniane, invece, di definito c'è soltanto l'obiettivo: la fine della nefasta teocrazia islamica. Obiettivo, tra l'altro, condiviso con la maggioranza della popolazione. Ma manca il resto. Per esempio, all'interno del paese sono pochi a conoscere la miriade di gruppi che si sono formati negli ultimi anni. Tuttora, la gente ordinaria, soprattutto nelle province, conosce solamente alcuni nomi: i Mujaheddin del Popolo, detestato all'interno del paese per aver aiutato Saddam Hussein durante la guerra contro l'Iran negli anni Ottanta; Reza Pahlavi, il figlio dello scià, molto amato sia per la sua discendenza, sia per le sue posizioni moderate (per le quali, invece, è stato paradossalmente abbandonato dalla maggior parte dei gruppi monarchici in Europa e Stati Uniti); e, infine, i ragazzi di Tahkim-e-Vahdat, l'ex organizzazione messa su dai khomeinisti alla fine degli anni Settanta per imporre con la violenza la linea dell'Ayatollah che, però, negli anni Novanta si trasformò gradualmente in un gruppo anti-clericale che chiedeva un referendum sulla teocrazia. È stato Tahkim che ha portato gli studenti in piazza nel 1999 e nel 2003. Ma la repressione è stata pesante e molti dei suoi personaggi chiave sono finiti in prigione con sentenze assurde, come nel caso di Ahmad Batebi che ha ricevuto una condanna a 15 anni per essersi fatto fotografare mentre mostrava la t-shirt insaguinata di uno studente ferito durante una carica contro gli studenti. Di queste sigle, soltanto i Mujaheddin del Popolo, e la loro organizzazione ombrello (il Consiglio nazionale per la resistenza in Iran), si presentano come un fronte unico, perché sono un'organizzazione di tipo militare con un forte culto della personalità, nonché la capacità di reprimere qualsiasi voce dissonante. Motivo per cui non devono essere considerati una forza politica, e men che mai democratica. Hanno però ottime capacità di spionaggio. Infatti, sono stati loro a svelare i programmi nucleari degli ayatollah. Ma in Iran i proclami dei Mujaheddin non sono praticamente ascoltati da nessuno, contrariamente ai discorsi radiofonici di Reza Pahlavi che vengono seguiti come i notiziari della Bbc in Europa ai tempi della seconda guerra mondiale. Gli altri gruppi invece, sono pressoché sconosciuti alla massa della gente. Si tratta di piccole formazioni che spesso nascono da altri gruppi o vecchi partiti. C'è, per esempio, lo Student Movement Coordination Committee for Democracy in Iran di Aryo Pirouznia, che sostiene di rappresentare gli studenti iraniani. I diretti interessati, però, negano di avere qualsiasi rapporto con lui. Un'altro mini gruppo si fa chiamare Marz-e Por Gohar, ovvero "la terra ricca" e lancia proclami in rete per il boicottaggio di società occidentali come Shell, Renault o Eni, firmatari di accordi miliardari con i mullah. Poi ci sono i gruppi neo-zoroastriani che, stufi della «religione imposta dagli arabi», vorrebbero tornare all'epoca pre-islamica; oppure i comunisti in naftalina, e altri gruppi, tanti per la verità, ultra-nazionalisti, anche essi piuttosto superati. Infine, ci sono i vecchi gruppi di opposizione (o ciò che rimane di loro) che, nelle stesse parole di alcuni analisti iraniani, non fanno altro che incontrarsi una volta all'anno per proclami grandiosi, subito dimenticati. I problemi fondamentali di queste opposizioni sono la mancanza quasi totale di fondi e la diffidenza. Diffidenza tra coloro che devono lavorare insieme all'interno della stessa organizzazione, e diffidenza verso gli altri gruppi. Ma anche diffidenza da parte di chi invece dovrebbe aderire alle loro proposte e fornire i fondi necessari per far arrivare le loro voci all'interno del paese. Gli iraniani, soprattutto quelli che vivono negli Stati Uniti, sono molto benestanti. I soldi per sostenere l'opposizione iraniana non dovrebbero mancare, dunque. Ma qualche brutta esperienza del passato e la mancanza di fiducia nella capacità di questi stessi gruppi di poter cambiare le cose a Teheran, ha fatto sì che nessuno apra i cordoni della borsa. Eppure ci sono buoni motivi per continuare a sperare in un cambio di regime dall'interno del paese. Ahmadinejad, che viene spesso preso un tantino troppo sul serio all'estero, è oggetto di ogni tipo di barzelletta nel suo paese. Il satirista più amato dagli iraniani, Ebrahim Nabavi, gli ha dedicato un libro intero, vietato ma, naturalmente, facilmente reperibile, dal titolo AN , le iniziali di Ahmadi-Nejad (letteralmente, dello stirpe di Ahmad), che in persiano significa «cacca». Ma per la maggior parte della gente il presidente è semplicemente Antari Nejad - dello stirpe delle scimmie. L'opposizione più formidabile ai mullah viene proprio da questa gente, dalla società civile, gli insegnanti e gli autisti di mezzi pubblici che vivono con stipendi da fame (che spesso non gli vengono neanche completamente saldati), dalle donne e dai giovani che hanno pagato un altissimo prezzo per la chimera della cosiddetta democrazia islamica. Gente che sta pian piano perdendo la paura e la pazienza. Qualche tempo fa, tra le donne giovani, esasperate dalle angherie del regime che le imprigiona perché magari portano un vestito un po' corto, era iniziata una campagna spontanea soprannominata "shock and awe". Lo slogan principale era: «Riempiamogli le prigioni!». Così, gruppi di giovani donne uscivano per strada con vestiti colorati e per niente islamici nel tentativo di farsi arrestare. In un anno, ci sono stati 649 arresti. In un caso particolarmente tragico, visionabile su YouTube, si vede una giovane donna che si mette completamente nuda in una strada trafficatissima e grida frasi incomprensibili finché viene arrestata. Questo mentre nelle università si osa gridare «fascista» e «dittatore» ad Ahmadinejad. L'Iran di oggi non è molto diverso dall'Iran di qualche anno fa, quando gli iraniani esultavano al messaggio di Bush che prometteva di star loro accanto nella loro lotta per la democrazia. Certo quel messaggio è rimasto senza conseguenze concrete. Ma la richiesta che arriva dall'interno del paese è sempre la stessa: gli iraniani chiedono aiuto alla stampa, ai think-tank, alle organizzazioni non-governative, ad artisti e musicisti occidentali affinché facciano per loro quello che stanno facendo per il piccolo Tibet.
Un articolo di Aurelio Mancuso sulla condizione degli omosessuali in Iran:
Dal 1979 ad oggi, secondo le organizzazioni internazionali umanitarie più di 4 mila gay e lesbiche sono stati condannati a morte. La guida spirituale e politica della rivoluzione islamica iraniana, l'ayatollah Khomeini, pubblicò una fatwa sulla transessualità che la definiva una condizione medica che andava curata con la chirurgia. Da allora sono state migliaia le operazioni effettuate sotto la stretta sorveglianza dei guardiani della rivoluzione. Quindi, la legge in Iran prevede la morte per chi pratica l'omosessualità mentre il governo iraniano fornisce 5 mila dollari a ogni persona che vuole cambiare sesso, oltre ai costi della terapia ormonale. Le transessuali sono oggi in Iran circa 150 mila, un numero percentualmente spropositato se si pensa che le transessuali italiane sono circa 25 mila. Moltissimi gay iraniani, pur di scampare a persecuzioni e morte, sono «portati» a operarsi, a mutilare il proprio corpo, vittime di un'inaudita violenza psicologica. Con questi numeri si presenta il presidente della Repubblica Islamica dell'Iran a Roma per la Conferenza della Fao. Ringrazio il Riformista di aver acceso un potente faro sul caso Iran. Per Arcigay, questa è anche la migliore occasione per rilanciare l'allarme sulla situazione dei diritti umani in Iran, diventata sempre più insostenibile a seguito di un'articolata campagna repressiva. L'Iran non è l'unico paese al mondo che ammazza per legge i gay e le lesbiche, gli fanno compagnia Arabia Saudita, Sudan, Yemen, Mauritania, Pakistan. Un'altra ottantina di Stati prevede condanne severe, anche il carcere a vita, e permette, quando non sollecita, torture, violenze, discriminazioni. Ma l'Iran ha un triste primato nel reprimere con la violenza ogni diritto delle persone omosessuali. Nei primi anni '80, per esempio, 70 persone sono state trucidate dopo aver tentato di organizzarsi in un'associazione gay e lesbica. Altri 100 omosessuali sono stati condannati a morte nel 1992 dopo un'incursione della polizia a una festa privata. Negli ultimi anni, proprio da quando si è insediato Ahmadinejad, la persecuzione contro gli omosessuali ha conosciuto un'escalation. Sotto il suo governo sono state portate a termine esecuzioni pubbliche dimostrative di giovani accusati di violenze contro i minori, ma in verità solo incolpevoli vittime, orrendamente scelte come prova di forza. D'altronde l'accusa di sodomia è utilizzata, e in questo l'Iran fa buona compagnia a tanti regimi sanguinari odierni e del passato, come arma politica di eliminazione dei dissidenti e degli avversari politici. I metodi più usati per uccidere le persone accusate di omosessualità sono la decapitazione, il taglio in due con la scimitarra, la lapidazione, il rogo al palo e il lancio da un precipizio o dal tetto di un palazzo, anche se di recente si preferisce l'impiccagione perché consente una maggiore teatralità e coinvolgimento popolare. Ho avuto un sobbalzo quando ieri ho letto sulla Repubblica l'intervento di Lucio Caracciolo, che derubrica Mahmud Ahmadinejad a diavoletto subdolo e odioso. L'articolo, summa di real politik, non può certamente tenere conto della scia di sangue che accompagna il presidente iraniano. Quando si tratta di diplomazia tra stati, strategie regionali e mondiali, per alcuni la vita delle persone slitta in secondo piano, diventa una variabile indifferente. Sappiamo bene che l'Italia, sia per ragioni commerciali sia per il suo ruolo di componente della Comitato per diritti umani dell'Onu, assunto il 20 giugno 2007, sarebbe una voce ascoltata in Iran. Per queste ragioni e per riaffermare la ferma e fattiva promozione del diritto alla vita, che ha fatto dell'Italia uno dei principali attori della battaglia per la moratoria universale contro la pena di morte, chiediamo che il governo, sia con azioni diplomatiche dirette, sia con iniziative coordinate in sede europea, faccia il possibile per scongiurare il perpetuarsi di questa situazione di oltraggio alla vita e ai diritti umani fondamentali, richiami l'Iran al rispetto dei trattati internazionali e sostenga i movimenti per i diritti civili presenti nel paese.
Un analisi su una struttura centrale della repressione e del sostegno al terrorismo in Iran, dal sito donneiran.org:
08 novembre 2007 Il Corpo delle Guardie Islamiche Rivoluzionarie (IRGC) è stato costituito principalmente per reprimere le forze progressiste in Iran. Durante tutti questi anni l’IRCG ha svolto un ruolo attivo in ogni organismo di repressione della “Repubblica Islamica dell’Iran”, di seguito una sintesi:
L’IRGC nel Ministero dell’Intelligence
Fin dalla sua istituzione nel 1984, il Ministero dell’Intelligence (MoI) ha sempre svolto un ruolo centrale nell’imposizione di una repressione interna e nel favoreggiamento delle attività terroristiche all’estero.
L’IRGC costituisce l’ossatura del MoI. Ad esempio:
1. Il 90% del personale del MoI è stato reclutato dall’IRGC da parte del Primo Ministro del MoI, Mohammad Mohammadi-Rayshahri. 2. Le posizioni chiave a livello di direttori e dirigenti provinciali del MoI sono ricoperte principalmente da membri dell’IRCG e gli incarichi nell’ambito del Ministero sono assegnati da tali individui.
L’IRGC nelle Forze di Polizia
1. Fin dall’inizio della rivoluzione Iraniana nel 1979, i neo-costituiti Comitati Rivoluzionari presero il posto delle forze di polizia urbana, ed il loro scopo principale era la repressione della libertà. I membri di questi comitati erano elementi dell’IRGC di basso livello. 2. Durante la presidenza di Rafsanjani, la polizia urbana e la Gendarmeria si sono unite ai Comitati Rivoluzionari per formare le nuove Forze di Sicurezza Statali (SSF) su proposta del Ministro dell’Interno Abdullah Nouri. In altre parole, il corpo ufficiale di repressione era costituito da membri dell’IRCG. 3. Il Capo delle forze di polizia, fin dalla sua istituzione, è sempre stato un Brigadier Generale dell’IRCG.
Le Forze (paramilitari) Bassij
Nel 1990, in aggiunta alla formazione delle tre Forze terrestre, marina ed aerea, Ali Khamenei, il leader supremo del regime, ha creato due nuove forze, Bassij e Qods. La Basij fu creata per la repressione interna e la Qods per l’esportazione del fondamentalismo islamico.
Attraverso la Bassij , una delle sue cinque forze, l’IRGC ha diffuso il regno della repressione a tutti i ministeri, ai dipartimenti governativi e non-governativi, alle banche, alle fabbriche private e pubbliche, alle scuole, alle università, agli uffici del governatorato, ai villaggi, alle tribù, e in ogni luogo. A questo scopo, basi della Bassij Force sono state create per imporre la repressione in tutta la nazione.
Grazie all’importante funzione della Bassij nel salvaguardare il ruolo del clero, Khamenei le ha conferito speciali poteri. La maggior parte dei piani segreti e non di Khamenei sono portati avanti nel paese da questa Unità, soprattutto in periodo di elezioni. E’ stata questa Forza a tirar fuori Ahmadinejad dalle cosiddette urne elettorali nelle ultime elezioni presidenziali fittizie. Alcuni poteri della Bassij comprendono:
- Nessuna limitazione rispetto ai locali in cui condurre indagini senza alcun precedente coordinamento con le autorità competenti, - Costituzione di posti di controllo nelle città per controllare il traffico e le persone, - Possibilità di arresto di individui ai posti di controllo, - Ingerenza in argomenti che riguardano la SSF e il Ministero dell’Intelligence, - Sicurezza di tutti i voli nazionali ed internazionali.
Il ruolo dell’IRGC nell’ambito del terrorismo.
Fin dalla sua formazione, l’IRGC è stato coinvolto nella cattura di ostaggi ed in azioni terroristiche all’interno ed all’esterno del paese. La maggior parte dei suoi comandanti supremi sono coloro che presero parte alla presa di ostaggi nell’ambasciata USA nel 1980.
La presa di ostaggi e le attività terroristiche sono iniziate in Libano quando la brigata "Mohammad Rassoul-Allah" dell’IRGC ha fatto ingresso nel paese nel 1982. Le informazioni che seguono sono di grande importanza:
- Il 6 giugno 1982, la brigata Mohammad Rassoul-Alah dell’IRGC guidata da Hossein Mosleh ha fatto ingresso in Libano. Tale forza che agiva sotto la supervisione dell’intelligence dell’IRGC, fu inviata su ordine diretto di Khomeini per fondare una Repubblica Islamica in Libano.
- Dopo il suo arrivo in Libano, numerose pesanti esplosioni scossero il paese. Gli attentati all’Ambasciata USA, alla caserma dei Marine USA, al Quartier Generale delle Forze francesi, la presa in ostaggio e l’assassinio di cittadini stranieri in Libano, contraddistinsero l’inizio delle sue attività.
Hossein Mosleh nel 1983 ha guidato personalmente l’attentato alla caserma dei Marine USA a Beirut.
- Nel giugno 1985, nel terzo anniversario del suo ingresso in Libano, Mosleh ha definito in un’intervista con Payam Enqelab il compito dell’IRGC durante i tre anni di permanenza in Libano:
- Attività culturali ed esportazione della Rivoluzione Islamica in Libano;
- Addestramento dei” nostri fratelli libanesi” in due settori: ideologico e militare. L’addestramento veniva condotto a vari livelli. L’istruzione preliminare aveva luogo nelle moschee e ad essa seguiva l’addestramento generale e specialistico. Più del 40 percento delle sessioni di addestramento riguardavano aspetti ideologici.
- Organizzazione dei “nostri fratelli libanesi” alla fine del loro periodo di addestramento…
- Impiego dei “nostri fratelli”.
Il processo delineato da Mosleh è uno schema generale per la costituzione di forze delegate in altri paesi. Questo modello fu usato in Iraq, Afghanistan, Palestina e Bosnia.
Mohsen Rafiq-Doust, comandante dell’IRGC nel periodo in cui alcuni ostaggi francesi furono catturati in Libano, cominciò ufficialmente i negoziati con il governo francese per il loro rilascio. Al tavolo delle contrattazioni con il rappresentante del governo socialista francese, Rafiq-Doust gli disse che avrebbe preferito negoziare con il rappresentante di Jack Chirac, il leader dell’opposizione in Francia, perché avrebbe garantito un’offerta migliore.
Il regime andava apertamente fiero degli attentati alla caserma dei Marine USA ed all’ambasciata francese a Beirut. In un’intervista al quotidiano statale Ressalat il 20 luglio 1991, Rafiq-Doust ha affermato che: "Gli Stati Uniti sanno che il materiale esplosivo unito all’ideologia che ha spedito 400 tra Marines e funzionari all’inferno provenivano entrambi, tritolo ed ideologia, dall’Iran. Questo è il motivo per cui si trova ad un punto morto nel Golfo Persico”.
L’unità informativa dell’IRGC possiede dozzine di piani terroristici per assassinare il leader della Resistenza Iraniana in Francia dal 1981 al 1986, piani che sono stati tutti neutralizzati.
Negli anni 80, l’IRGC ha messo in piedi tre basi per il comando delle proprie operazioni terroristiche:
1- Distaccamento Ramezan, per il controllo delle operazioni in Iraq; 2- Distaccamento Ansar, per il controllo delle operazioni terroristiche nei paesi confinanti (come la Turchia ed il Pakistan); 3- Distaccamento Balal, per il controllo delle operazioni all’estero.
Sull’onda degli attacchi terroristici e degli attentati a Parigi, uno dei terroristi di nome Fuad Ali Saleh fu catturato mentre trasportava esplosivi ed un altro di nome Lotfi Ben Khala si arrese alla Polizia francese.
Essi rivelarono che gli attentati in Francia venivano pianificati da Reyshahri, a quel tempo Ministro dell’Intelligence del regime iraniano e da Rafiq-Doust, allora Ministro delle Guardie Rivoluzionarie. Il loro piano veniva sottoposto a Rafsanjani e Khamenei ed infine approvato da Khomeini nel tentativo di costringere la Francia ad accogliere le richieste del regime al tavolo dei negoziati.
Nel 1987, il Colonnello Heidari ed il Tenente dell’Aeronautica Hassan Mansour furono assassinati in Turchia da un gruppo terroristico comandato da Ahmadinejad, attuale presidente del regime.
Dalla fine della guerra con l’Iraq e dopo la morte di Khomeini, l’IRGC è entrata in una nuova fase di operazioni terroristiche. Nel 1990, Khamenei ha creato la Qods Force con alcuni dei comandanti più capaci dell’IRGC, sfruttando l’esperienza maturata dalla sua sezione intelligence nella presa di ostaggi e negli assassinii degli anni 80. Fu nominato comandante Ahmad Vahidi, la guardia rivoluzionaria che fino ad allora aveva guidato lo spionaggio militare dell’IRGC. Parlando della nuova Forza, Mohsen Rezai, comandante dell’IRGC a quel tempo, disse al giornale statale Kayhan il 21 ottobre 1991: "Un giorno la fiamma dell’ira e dell’odio dei musulmani farà bruciare il cuore di Washington e gli Stati Uniti saranno responsabili delle conseguenze. Un giorno gli ebrei come Salman Rushdie non troveranno un luogo dove vivere”.
Le operazioni terroristiche dopo la morte di Khomeini ebbero come obiettivi I leader dell’opposizione. Il 40° giorno dalla morte di Khomeini, il 13 luglio 1989, il segretario generale del Partito Democratico Curdo dell’Iran, Abdul Rahman Qassemlou, fu assassinato da un gruppo terroristico dell’IRGC al tavolo dei negoziati con il regime. Sulla scena dell’assassinio, Mohammad Sahraroudi, comandante del Distaccamento Ramezan ed attuale vice-presidente del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale , il più alto organismo decisionale, rimase ferito.
Ahmadinejad si occupava della logistica e trasferì armi dall’Ambasciata ai terroristi.
Il piano per assassinare il Professor Kazem Rajavi, fratello del leader della Resistenza Iraniana, Massoud Rajavi, il 24 aprile 1990, fu preparato dalla guardia rivoluzionaria Ahmad Vahidi, comandante della Qods Force, insieme a Fallahian, allora Ministro dell’Intelligence. Fu portato a termine dal Ministero dell’Intelligence.
Il 13 marzo 1990, in un piano congiunto tra il Ministero dell’Intelligence e la Qods Force , Mohammad Mohaddessin, Presidente della Commissione Affari Esteri del NCRI, fu designato come bersaglio ad Istanbul. L’attacco fu condotto dall’Unità 5,000 della Qods Force adoperando cittadini turchi addestrati da Teheran.
Hossein Abedini, membro della Commissione Affari Generali del NCRI rimase gravemente ferito nel corso dell’operazione. Mohaddessin restò illeso.
Il 4 giugno 1992, in un’azione congiunta del Ministero dell’Intelligence e l’Unità 5.000 della Qods Force, ancora una volta agenti turchi furono adoperati per sequestrare Akbar Qorbani, membro della Commissione Affari Generali del NCRI ad Istanbul. Il suo corpo mutilato fu ritrovato dopo pochi mesi nella vicina foresta.
Il rappresentante del NCRI in Italia, Mohammad Naqdi, fu assassinato a Roma in un’operazione congiunta della Qods Force e del Ministero dell’Intelligence il 15 marzo 1993.
Nel 1994, una 320mm di ottima qualità fu scoperta nel porto belga di Antwerpen. L’arma era stata costruita dall’industria militare dell’IRGC guidata da Mohammad Mostafa Najar, attuale Ministro della Difesa.
L’arma era destinata alla Francia, per essere usata contro il Quartier Generale del NCRI ad Auvers-sur-Oise, secondo i rapporti delle autorità. Un’arma simile fu ritrovata a Baghdad prima che fosse usata contro il leader della Resistenza Iraniana.
Una fortissima esplosione a Khobar, Arabia Saudita, il 25 giugno 1996, distrusse gran parte delle torri gemelle che ospitavano i soldati statunitensi. In tale episodio 19 americani ed un saudita rimasero uccisi ed altri 147 sauditi, 118 bangladesi e 109 americani rimasero feriti.
L’operazione fu condotta dall’Unità 6.000 della Qods Force, guidata dalla guardia rivoluzionaria Brigadier Generale Ahmad Sharifi. Intervenendo ad un meeting con i comandanti del Corpo della Guardia Rivoluzionaria il 31 luglio 1996, Khamenei sottolineò l’importanza dell’operazione, elogiò coloro che condussero l’attacco ed ammonì: "Ogni paese che sostiene il terrorismo, in particolare gli Stati Uniti che continuano a supportare il regime sionista nell’occupazione della Palestina, verrà colpito”.
Dalla seconda metà degli anni 90, la Qods Force ha concentrato le sue attività in Iraq, Palestina, Afghanistan e Libano in particolare e in altri paesi del Medio Oriente e della regione del Golfo in generale. Lo scopo è di creare gruppi delegati in questi paesi per la diffusione del fondamentalismo ed allo stesso tempo di guadagnare potere per controllare il paese.
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