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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - L'Opinione - Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.05.2008 Dossier Siria
le ragioni e le prospettive del negoziato di Israele con il regime di Damasco

Testata:Il Giornale - Il Foglio - L'Opinione - Corriere della Sera
Autore: R.A. Segre - la redazione - Michael Sfaradi- Antonio Ferrari
Titolo: «L’incognita Gaza sui negoziati tra Siria e Israele - Syiriana - Pace tra Israele e Siria? La realtà spinge al pessimismo - Se Israele e Siria fanno la pace a spese del Libano»
Dal GIORNALE del 23 maggio 2008:

Un cinico detto in voga a Beirut afferma che si può sempre affittare un libanese. Comprarlo mai. Se si sapesse chi ha affittato chi alla Conferenza di pacificazione libanese a Doha, si potrebbe capire quello che sta succedendo in Libano e il vero significato dei «contatti indiretti» fra Israele e la Siria e fra Israele e Hamas. Per il Libano si sa che il fronte pro siriano ha rimosso il suo veto alla nomina del generale cristiano Suleyman alla presidenza della Repubblica vacante da mesi. D’altra parte il fronte anti siriano ha ottenuto un ministro in più al governo e il diritto di veto su tutte le decisioni «strategiche».
Ciò che non si sa, invece, è se gli hezbollah hanno ottenuto ciò che volevano e cioè la riforma dello Stato Maggiore e dell’intelligence militare. Non si sa neppure quello che i sauditi, feriti dalla messa in fuga del loro ambasciatore a Beirut da parte degli hezbollah, intendano fare per rinforzare l’alleanza governativa fra cristiani e musulmani sunniti contro il potere degli sciiti. La trasformazione del Libano in un mini Iran non è per domani nonostante le paure americane e israeliane. Il che conduce a chiedersi se dietro la ripresa dei negoziati fra Gerusalemme e Damasco c’è qualcosa di più di un’operazione di relazioni pubbliche. Utile alle parti resterebbe dubbiosa nei risultati per varie ragioni: 1) nel quadro dell’asse Damasco-Teheran e nonostante le differenze fra i due regimi, gli interessi reciproci restano strategici. 2) la Siria pone la riconquista delle terre occupate da Israele nel 1967 (le alture del Golan) al terzo posto delle sue priorità dopo il Libano e l’uscita dall’isolamento a cui l’hanno relegata Bush e la guerra in Irak. Non potendo trattare direttamente con Washington ammicca in quella direzione parlando indirettamente di pace con Israele. 3) il motore di questi contatti è il primo ministro turco a cui né Olmert né Assad possono permettersi di far perdere la faccia in una iniziativa di pace rivolta soprattutto a guadagnarsi le simpatie europee. 4) questo riporta i negoziati alla «palude» di Gaza attraverso contatti indiretti (tramite l’Egitto che né Israele né Hamas possono permettersi di contrastare troppo).
Non si tratta di negoziati di pace e neppure di armistizio (ancora inaccettabili per le parti perché condurrebbero al riconoscimento reciproco) ma di una tregua che non è da escludere. La popolazione di Gaza e quella di Israele ne hanno bisogno; c’è la disponibilità egiziana di ostacolare il riarmo di Hamas ma ci sono problemi difficili da superare. Anzitutto l’incapacità di Hamas di controllare le sue frange radicali per le quali sparare contro Israele è questione di sopravvivenza. In secondo luogo a causa dell’opposizione dei servizi di sicurezza israeliani allo scambio fra il caporale Shalit catturato due anni fa e centinaia di prigionieri palestinesi detenuti in Israele. Per la popolazione palestinese la liberazione dei prigionieri è più importante della fine di un assedio che in pratica non c’è dal momento che i palestinesi possono circolare attraverso i Paesi arabi. Ma la restituzione di centinaia di prigionieri darebbe ad Hamas un prestigio che rinforzerebbe la sua autorità e indirettamente potrebbe essere visto un serio indebolimento da parte di Israele del prestigio di Abu Mazen. Per Olmert, screditato dall’opinione pubblica (secondo il leader del Likud Netanyahu «non ha il diritto morale» di negoziare visto il suoi coinvolgimento nelle indagini) opporsi a servizi di sicurezza non è facile. Ma l’accordo di tregua a Gaza è la chiave per sviluppare i contatti con la Siria e anche forse per la sua sopravvivenza politica.

Dal FOGLIO:

Gerusalemme. Parla con il nemico anche Israele, attualmente coinvolto in colloqui indiretti con la Siria, via Turchia, e con Hamas, via Egitto. Il rifiuto israeliano di discutere anche via terzi con il movimento islamista e con regimi come quello siriano, che ospitano uffici di organizzazioni armate palestinesi e appoggiano gruppi come Hezbollah, è sempre stato totale. Eppure, i portavoce del primo ministro Ehud Olmert hanno da poco annunciato il prossimo avvio di negoziati con Damasco. Il premier ha parlato di un passo storico, ha rivelato che i contatti sono ripresi tempo fa, dopo l’interruzione del 2000. Lo avevano già raccontato indiscrezioni della stampa israeliana, che con grande tempismo hanno sempre coinciso con la pubblicazione di nuovi dettagli sulle vicissitudini giudiziarie del leader. Olmert è infatti da diverse settimane coinvolto in uno scandalo finanziario. I colloqui con la controparte palestinese, attivi da novembre, continuano lenti; la carta siriana e l’annuncio di possibili contatti indiretti con Hamas, in vista di un’intesa per una calma relativa a Gaza, servono anche al governo sotto accusa ad attirare l’attenzione pubblica su altri dossier, queste è l’accusa del leader dell’opposizione del Likud Benjamin Netanyahu. Sostiene Olmert che negoziare con la Siria sia un obbligo nazionale anche se farlo potrebbe significare l’abbandono del Golan occupato nel 1967. Il 65/70 per cento della popolazione – rivelano i sondaggi – è contrario al ritiro dalle alture. Il premier annuncia la mossa il giorno dopo l’accordo di Doha, tra le parti libanesi in armi per le strade di Beirut fino a pochi giorni fa. L’intesa ha dato al vincitore Hezbollah, alleato di Damasco e Teheran, il potere di veto nel futuro governo libanese. E’ il momento giusto per il governo israeliano, sotto accusa per questioni interne, di guardare a nuovi negoziati, giustificando la mossa con il tentativo di strappare la Siria all’asse con l’Iran, ora che la vittoria in Libano del Partito di Dio richiede una controffensiva regionale. Da mesi Damasco si dimostra interessata, ma per molti commentatori israeliani e libanesi gli sforzi principali del regime di Bashar el Assad non sono finora stati focalizzati sul ritorno del Golan, quanto sul recupero della sovranità indiretta sul piccolo Libano, perso nel 2005 ai tempi della “Rivoluzione dei cedri” e del ritiro delle sue truppe dal paese vicino. Oggi che la Siria è “rientrata” a Beirut via Hezbollah, Damasco non teme più che un eventuale recupero delle alture tramite negoziati possa significare, in una logica di scambi, la richiesta d’abbandono delle sue mire sul Libano

Da L'OPINIONE

Il governo israeliano, siriano e turco, che ha fatto da mediatore, hanno annunciato con grandi fanfare che ci sono accordi preliminari per una pace fra Siria ed Israele, e questa notizia ha fatto il giro del mondo in pochi minuti. Non per esser pessimisti, ma realisti, qualche dubbio su tutti questi annunci lo abbiamo ed è legittimo, soprattutto quando si tratta dello scacchiere mediorientale. Già in passato ci sono state dichiarazioni che facevano credere che la pace fra le due nazioni fosse cosa fatta, annunci che si sono rivelati per quello che erano: aria fritta. Rabin, e Barak dopo di lui, in periodi in cui i loro governi erano ad un passo dalla sfiducia da parte della Knesset (Parlamento israeliano), riuscirono ad allungare la vita della loro moribonda legislatura sventolando davanti agli occhi dell’opinione pubblica israeliana l’esca di un probabile accordo di pace. Siccome non si fa cadere un governo che potrebbe portare un po’ di pace, perché non è saggio e non è una bella figura per Israele di fronte al resto del mondo, Olmert pur di salvare se stesso usa con cinismo una carta, quella della pace, che tocca nel cuore ogni israeliano. La lezione è chiara e l’ha imparata benissimo, infatti in questi giorni in cui si discute se rinviarlo a giudizio per reati finanziari e di corruzione, ha riesumato la vecchia storia dell’accordo di pace con la Siria.

Questo espediente, per niente originale, può soltanto creare ulteriori danni in una situazione che da troppo tempo si trascina in un tunnel senza uscita. Chi ha memoria storica ricorda che dalle alture del Golan, i siriani tenevano sotto scacco tutta l’alta Galilea e che i Kibbutz, i villaggi e la stessa città di Tiberiade furono, negli anni che precedettero la guerra dei sei giorni, bombardate a più riprese, come succede oggi per Sderot. Bisogna tenere conto anche che, al contrario di quello che si pensa, la pace non è legata solo alla restituzione del Golan da parte d’Israele, ma anche da precisi impegni di normalizzazione politica fra le due nazioni e il cambiamento di rotta da parte del governo siriano per quello che riguarda il suo appoggio al terrorismo internazionale. Ma davvero c’è qualcuno che crede che Assad, legato a doppio filo con l’Iran di Ahmedinejad, che vede la pace nella regione solo dopo la totale distruzione di Israele, possa liberamente firmare un accordo di pace di questo tipo? Solo qualche mese fa aerei israeliani hanno bombardato un sito nucleare dove si stava probabilmente preparando, con l’ausilio della Corea del Nord, armamento nucleare, come si spiega questa improvvisa voglia di pace da parte del governo siriano?

È reale? L’eventuale restituzione delle alture del Golan, da parte di Israele, si deciderà solo per volere popolare e come in ogni democrazia sarà un referendum a dare o no il suo consenso, credete che la popolazione israeliana, che si sente assediata a Sud da Hamas e a Nord da Hezbollah (e con l’Iran alla ricerca della bomba atomica) metterebbe in mano ad un nemico come Assad le chiavi per invadere Israele entrando dalla porta principale? A prescindere dal sensazionalismo di questi annunci che alcune testate hanno sparato in prima pagina, la nostra impressione è che presto tutto questo polverone, una volta passato il vento, ricadrà a terra così come è già successo in passato, lasciando l’amaro in bocca a chi nella pace, pure non credendoci, ancora ci spera.

Dal CORRIERe della SERA del 23 maggio 2008, un editoriale di Antonio Ferrari, con un titolo (Se Israele e Siria fanno la pace a spese del Libano " sbagliato: Israele non può certo essere ritenuta responsabile del crescente potere di Hezbollah  (nel quale giustamente Ferrari vede una minaccia all'effettiva sovranitàè libanese)

Se vincesse davvero la forza della volontà, un trattato di pace tra Israele e Siria sarebbe possibile perché mai, come stavolta, le condizioni sono favorevoli. Non soltanto perché i governi dei due Paesi hanno dichiarato d'essere pronti a riprendere i negoziati; non soltanto perché sia Gerusalemme sia Damasco hanno bisogno di superare le rispettive difficoltà: interne quelle dello Stato ebraico, internazionali quelle del regime di Bashar el Assad.
Sarebbe possibile perché vi è un diverso mediatore. Non gli Stati Uniti, ormai a cavallo fra il tramonto dell' amministrazione Bush e l'attesa per la nuova. Non l'Unione Europea, sempre divisa, spesso balbettante, e comunque a rimorchio come un imbarazzato supplente. Ma la Turchia musulmana di Recep Tayyip Erdogan, capo di un governo islamico- moderato che ha buone relazioni con Israele e con il mondo arabo, e in particolare con la Siria, dopo i venti di guerra che spiravano meno di dieci anni fa. Si rischiò il conflitto perché Ankara non tollerava l'ospitalità che il regime alauita garantiva a Abdullah Ocalan, capo dei guerriglieri turco-curdi del Pkk. Oggi, invece, il rischio di una posizione sbilanciata della Turchia, a favore dell'uno o dell' altro, è assai modesto, pur essendo Ankara alleata di Washington.
Se il problema fosse soltanto territoriale, cioè la restituzione delle alture del Golan, l'accordo sarebbe a portata di mano. Almeno due volte Israele e Siria erano in vista del traguardo, e in particolare nel 2000 a Ginevra, quando Bill Clinton tentò senza successo di superare gli ultimi ostacoli, poche centinaia di metri quadrati che però si affacciavano sul lago di Tiberiade, contando anche sullo stato di salute di Hafez el Assad che, sapendo di aver poco tempo (morirà poco dopo), voleva lasciare all'erede, il figlio Bashar, uno storico trattato di pace.
Il problema è un altro, e riguarda la radicalizzazione del regime siriano, alleato con l'Iran, e soprattutto protettore dell'Hamas palestinese e dell'Hezbollah libanese, due forze che Damasco non considera terroriste ma legittimi movimenti di liberazione. Sperare che il presidente Bashar sacrifichi pubblicamente le sue alleanze in cambio del Golan è illusorio, però potrebbero essere i fatti a spingerlo a correggere la rotta, venendo incontro alle speranze del premier Ehud Olmert. Un accordo di pace, infatti, circonderebbe Israele di Paesi non ostili (la Siria, appunto, dopo l'Egitto e la Giordania), con effetti benefici sul versante palestinese, che vedrebbe indeboliti gli oltranzisti di Hamas.
Vi sarebbero ricadute anche sull'Hezbollah, che dovrebbe fare i conti con una Siria diversa, di fatto costretta a distanziarsi da Teheran. In questo caso, la vittima sacrificale sarebbe l'indipendenza del Libano. Anzi, lo è già. Non occorre essere strateghi per capire che gli accordi di Doha, che hanno impedito una nuova guerra civile consentendo a Beirut l'elezione del presidente della repubblica e la formazione di un governo di unità nazionale dove l'opposizione avrà diritto di veto, sono in realtà una vittoria di Hezbollah, e dei suoi padrini, l'Iran e appunto la Siria. È evidente che l'intesa raggiunta nel Qatar, benedetta dalla Lega araba, che non aveva strade alternative da percorrere, è nei fatti una generosa concessione a Damasco e ai suoi alleati. Non è quindi escluso che il compromesso, dettato da realpolitik, abbia convinto il regime di Assad a raccordarsi con la decisione di Olmert (in difficoltà per uno scandalo finanziario) e con la paziente tessitura del mediatore turco. Molti sperano che l'Hezbollah, ottenuto quel che voleva in Libano, potrebbe trasformarsi decisamente in un partito politico, abbandonando le operazioni militari.
È vero: vi sono troppi se e troppi ma. Però la decisione di riprendere il negoziato, quantomeno di studiare tecnicamente come farlo avanzare, è di per sé un passo assai importante. Tuttavia è ancora poco per abbandonarsi all'ottimismo.


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