Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il Libano si arrende a Hezbollah: evviva per Barbara Uglietti il Libano esce dal tunnel, George Corm vorrebbe che la vittoria di Hezbollah fosse ancora più netta
Testata:Avvenire - Il Manifesto Autore: Barbara Uglietti - Michele Giorgio Titolo: «Il Libano trova l’uscita dal tunnel - «Troppo presto per gioire, è soltanto una tregua»»
Un esempio di "festeggiamento" dell'accordo di Doha, inconsapevole, nella migliore delle ipotesi, del suo reale significato. La cronaca di Barbara Uglietti pubblicata da AVVENIRE del 22 maggio 2008:
Il tavolo delle trattative inter-libanesi allestito a Doha su iniziativa della Lega Araba Il Qatar ha manifestato anche in questa occasione la sua ambizione a diventare teatro «neutrale» sulla scena mediorientale L’opposizione guidata da Hezbollah strappa il risultato: sarà determinante nel nuovo esecutivo. Il documento vieta l’uso delle armi. Ma il gruppo sciita: «Noi non disarmiamo» Via libera di Damasco e Teheran D opo 18 mesi di stallo, la crisi libanese è finita. Almeno questo è quello che promette il lungo documento firmato a Doha dai rappresentanti del governo di Fouad Siniora e da quelli dell’opposizione guidata da Hezbollah. Per cinque giorni, le delegazioni delle due parti, convocate in Qatar su iniziativa della Lega Araba, si sono confrontate sui punti-chiave che, da novembre fino a qui, hanno rischiato di portare il Paese a un passo dalla guerra civile. Una crisi, iniziata con l’uscita dal governo dei ministri sciiti, che ha trovato terreno fertile di scontro sulla nomina del nuovo presidente della Repubblica destinato alla successione di Emile Lahoud, il cui mandato è scaduto il 24 novembre scorso. Maggioranza e opposizione ci hanno provato per 19 volte a eleggere il nuovo capo dello Stato: voto sempre rinviato. Il nome «di consenso» c’era: quello del comandante dell’Esercito Michel Suleiman, cristiano maronita, (come, in base alla Costituzione, deve essere il presidente libanese). Ma il «sì» è sempre stato sottoposto a pregiudiziali sul futuro assetto politico che hanno alimentato lo scontro. In particolare, l’opposizione ha condizionato il suo voto alla nascita di un nuovo governo di unità nazionale. Tutti gli ostacoli sembrano essere stati superati a Doha. L’accordo prevede l’elezione di Suleiman alla presidenza « entro 24 ore » dalla firma, quindi entro oggi; anche se fonti a Beirut sostengono che molto probabilmente il presidente del Parlamento, Amal Nabih Berri, convocherà domenica la sessione di voto. Decisa, poi, la nascita di un nuovo governo di unità nazionale: 16 ministri spetteranno alla maggioranza sunnita, 11 all’opposizione sciita, tre saranno scelti dal presidente. In questo modo, di fatto, l’opposizione avrà un potere di veto nell’esecutivo. Il premier, come vuole la Costituzione, sarà un sunnita. L’intesa stabilisce anche l’adozione della legge elettorale del 1960 per le legislative in programma per la primavera del 2009. E il divieto dell’utilizzo di armi nei conflitti interni tra fazioni: punto, questo, su cui la maggioranza è stata irremovibile. Chiaro infatti il riferimento alle milizie di Hezbollah (che nelle scorse settimane hanno occupato militarmente Beirut Ovest, in un blitz che ha causato una sessantina di vittime), richiamate anche in un passaggio in cui si parla del « monopolio dello Stato sulla sicurezza e sull’attività militare » . Questa parte del documento non dev’essere piaciuta molto all’Hezbollah, che si è subito premurato di far sapere che, comunque, non intende deporre le armi («rivendichiamo un pieno riconoscimento del nostro ruolo di gruppo armato in lotta contro l’aggressore israeliano » ), ma, nel complesso, il gruppo ha parlato di un «accordo giusto». Subito dopo la firma dell’accordo, gli attivisti di Hezbollah hanno iniziato a smontare i sit-in che da 18 mesi occupano il centro di Beirut in segno di protesta contro il governo. L’intesa è stata raggiunta in Qatar, Paese ospitante con ambizioni di neutralità nell’area mediorientale, ma, soprattutto, è il prodotto di una chimica regionale tra Siria, Iran e Israele che ha sempre “usato” il Libano come fattore stabilizzante, o destabilizzante, a seconda dei singoli interessi di parte. Tutl’intervista Non può essere un caso, infatti, che proprio ieri Damasco abbia incassato la disponibilità di Israele a iniziare negoziati di pace indiretti, sotto gli auspici della Turchia e con il benestare degli Stati Uniti. Il che significa cominciare a discutere sulla questione Golan con buone prospettive di vedersi restituito il territorio conteso. Quanto a Teheran, un “ammorbidimento” delle sue posizioni aggressive a fianco dello sciiti in Libano potrebbe valergli qualche carta in più da giocare sul tavolo della partita nucleare. Così, la Siria ha salutato con grande favore l’accordo di Doha («Sosteniamo tutto ciò che i fratelli libanesi hanno concordato», ha detto il ministro degli Esteri Walid Muallem); e lo stesso ha fatto l’Iran, esprimendo «grande soddisfazione» per un’intesa che «potrà garantire in futuro radioso per il popolo libanese». L’accordo ha ricevuto il plauso dell’Onu e dell’Unione europea, che ha sollecitato una sua «immediata attuazione». Per l’Italia, ha manifestato soddisfazione il ministro degli Esteri Franco Frattini. Il vescovo caldeo di Beirut, monsignor Michel Kassarji, ha parlato di un «grande passo avanti nella soluzione della crisi». La città ha accolto la notizia con gioia. La gente è scesa in strada a festeggiare. E il cielo si è riempito di migliaia palloncini bianchi. ti, in questi giorni, sembrano essersi messi in gioco, disponibili a fare qualche passo indietro sulle proprie posizioni per guadagnarne altre. È così per la Siria, sostenitrice, insieme all’Iran, di Hezbollah.
Ad avere ben chiaro il significato dell'accordo, pur desiderando un maggiore rafforzamento di Hezbollah contro America e Israele è George Corm, "analista politico"antioccidentale intervistato da Michele Giorgio per Il MANIFESTO :
Il Libano dopo l'accordo trovato a Doha si è incamminato verso una intesa nazionale o ha solo raggiunto una tregua tra gli schieramenti contrapposti e i loro rispettivi sponsor esterni? E' questo l'interrogativo di molti libanesi e che noi abbiamo posto al professor Georges Corm, intellettuale di Beirut, brillante analista politico e finanziario nonché autore di testi importanti come «Petrolio e Rivoluzione» e «Il nuovo disordine economico mondiale». Corm, cristiano, è stato tra il 1998 e il 2000 ministro dell'economia. Professor Corm come valuta l'accordo raggiunto a Doha? Mi sembra buono, o almeno soddisfacente. Tendo però a considerarlo una tregua più di una intesa definitiva tra le due parti. Non facciamoci troppe illusioni. I nodi più difficili non sono stati ancora sciolti e dobbiamo attenderci, non so dire quando, altre forti tensioni il giorno in cui quei nodi arriveranno di nuovo al pettine. Per ora godiamoci questo risultato importante e cerchiamo di rilassarci, ne abbiamo proprio bisogno dove i combattimenti delle scorse settimane che ci hanno fatto rivivere i giorni della guerra civile (1975-90). Quali sono i punti che la convincono di più dell'accordo? Uno in particolare. La decisione di emendare la legge elettorale, tenendo presente il sistema del 1960, è molto importante perché adesso si cercherà di riequilibrare elettori e circoscrizioni dopo che erano stati disposti in un certo modo da una parte (la maggioranza, ndr) a danno dell'altra. E ne abbiamo visto i risultati alle passate elezioni. Se non ci saranno ostacoli, e purtroppo ne prevedo molti, il prossimo anno avremo risultati elettorali più rispettosi della realtà politica del paese. Di cosa ha bisogno il Libano per uscire dalla crisi? Di due cose. Del rispetto di quella «democrazia consensuale» che rappresenta il principale risultato degli accordi di Taif (che alla fine degli anni 80 misero fine alla guerra civile, ndr), e che (il premier attuale) Fuad Siniora vada subito a casa, senza indugio. Il sistema attuale infatti assegna importanti poteri al premier e, nella situazione critica che stiamo vivendo, dobbiamo nominare un primo ministro che rappresenti la maggior parte dei libanesi e non solo una parte di essi. Tuttavia questi sforzi volti a ridare slancio al paese si riveleranno inutili se non spezzeremo anche il monopolio economico e finanziario della famiglia Hariri. Il gruppo finanziario degli Hariri è il principale datore di lavoro in Libano, possiede una delle maggiori banche ed è azionista di maggioranza di molte altre. Alla Borsa di Beirut le azioni di Solidere (la società che ha ricostruito la capitale e il paese dopo la guerra civile, è di proprietà degli Hariri, ndr) sono in crescita costante nonostante guerra e disordini. Ciò mentre il Libano fa i conti con oltre 40 miliardi di dollari di debito pubblico causati più di ogni altra cosa dagli interessi gravosi che lo Stato paga o deve pagare alle banche dove peraltro sono depositati capitali tre volte più grandi del Pil. E' uno strangolamento che subiscono soprattutto le fasce più deboli della popolazione e che è frutto anche degli interessi della famiglia Hariri. Torniamo all'accordo di Doha. I libanesi sono felici, quasi non riescono a credere che le parti in conflitto abbiano trovato un compromesso, e certo sorridono anche a Teheran e Damasco. A Washington e Riyadh invece cosa pensano in queste ore. Che hanno rimediato un brutto colpo ma che non è detta l'ultima parola. A mio avviso Stati Uniti ed Arabia saudita non hanno potuto far nulla per prevenire questo accordo che non riflette i loro interessi in Libano. Non hanno potuto impedirlo perché anche i loro alleati (libanesi) volevano una pausa, un compromesso, una strada che eviti un nuovo disastro al paese. Ma il passo indietro che hanno fatto Washington e Riyadh è soltanto temporaneo, tattico direi. Quindi torneranno all'attacco. Ma ho buone speranze perché la maggioranza della popolazione, rappresentata dall'opposizione, non vuole finire sotto l'egemonia americana o israeliana dopo aver spezzato quella siriana.
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