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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Avvenire - Il Manifesto Rassegna Stampa
22.05.2008 Il Libano si arrende a Hezbollah: evviva
per Barbara Uglietti il Libano esce dal tunnel, George Corm vorrebbe che la vittoria di Hezbollah fosse ancora più netta

Testata:Avvenire - Il Manifesto
Autore: Barbara Uglietti - Michele Giorgio
Titolo: «Il Libano trova l’uscita dal tunnel - «Troppo presto per gioire, è soltanto una tregua»»

Un esempio di "festeggiamento" dell'accordo di Doha, inconsapevole, nella migliore delle ipotesi, del suo reale significato.
La cronaca di Barbara Uglietti pubblicata da AVVENIRE del 22 maggio 2008:


Il tavolo delle trattative inter-libanesi allestito a Doha su iniziativa della Lega Araba Il Qatar ha manifestato anche in questa occasione la sua ambizione a diventare teatro «neutrale» sulla scena mediorientale
 L’opposizione guidata da Hezbollah strappa il risultato: sarà determinante nel nuovo esecutivo. Il documento vieta l’uso delle armi. Ma il gruppo sciita: «Noi non disarmiamo» Via libera di Damasco e Teheran

 D
opo 18 mesi di stallo, la crisi libanese è fi­nita. Almeno questo è quello che promette il lun­go documento firmato a Doha dai rappresentanti del governo di Fouad Siniora e da quelli dell’opposizione gui­data da Hezbollah.
  Per cinque giorni, le delega­zioni delle due parti, convo­cate in Qatar su iniziativa del­la Lega Araba, si sono con­frontate sui punti-chiave che, da novembre fino a qui, han­no rischiato di portare il Pae­se a un passo dalla guerra ci­vile. Una crisi, iniziata con l’uscita dal governo dei mi­nistri sciiti, che ha trovato ter­reno fertile di scontro sulla nomina del nuovo presiden­te della Repubblica destina­to alla successione di Emile Lahoud, il cui mandato è sca­duto il 24 novembre scorso.
  Maggioranza e opposizione ci hanno provato per 19 vol­te a eleggere il nuovo capo dello Stato: voto sempre rin­viato. Il nome «di consenso» c’era: quello del comandan­te dell’Esercito Michel Sulei­man, cristiano maronita, (co­me, in base alla Costituzione, deve essere il presidente li­banese). Ma il «sì» è sempre stato sottoposto a pregiudi­ziali sul futuro assetto politi­co che hanno alimentato lo scontro. In particolare, l’op­posizione ha condizionato il suo voto alla nascita di un nuovo governo di unità na­zionale.
 
Tutti gli ostacoli sembrano essere stati superati a Doha. L’accordo prevede l’elezione di Suleiman alla presidenza « entro 24 ore » dalla firma, quindi entro oggi; anche se fonti a Beirut sostengono che molto probabilmente il pre­sidente del Parlamento, Amal Nabih Berri, convocherà do­menica la sessione di voto. Decisa, poi, la nascita di un nuovo governo di unità na­zionale: 16 ministri spette­ranno alla maggioranza sun­nita, 11 all’opposizione scii­ta, tre saranno scelti dal pre­sidente. In questo modo, di fatto, l’opposizione avrà un potere di veto nell’esecutivo. Il premier, come vuole la Co­stituzione, sarà un sunnita. L’intesa stabilisce anche l’a­dozione della legge elettora­le del 1960 per le legislative in programma per la prima­vera del 2009. E il divieto del­l’utilizzo di armi nei conflitti interni tra fazioni: punto, questo, su cui la maggioran­za è stata irremovibile. Chia­ro infatti il riferimento alle milizie di Hezbollah (che nel­le scorse settimane hanno occupato militarmente Bei­rut Ovest, in un blitz che ha causato una sessantina di vittime), richiamate anche in un passaggio in cui si parla del « monopolio dello Stato sulla sicurezza e sull’attività militare » . Questa parte del documento non dev’essere piaciuta molto all’Hezbollah, che si è subito premurato di far sapere che, comunque, non intende deporre le armi («rivendichiamo un pieno ri­conoscimento del nostro ruolo di gruppo armato in lotta contro l’aggressore i­sraeliano » ), ma, nel com­plesso, il gruppo ha parlato di un «accordo giusto». Su­bito dopo la firma dell’ac­cordo, gli attivisti di Hezbol­lah hanno iniziato a smon­tare i sit-in che da 18 mesi oc­cupano il centro di Beirut in segno di protesta contro il governo.
  L’intesa è stata raggiunta in Qatar, Paese ospitante con
ambizioni di neutralità nel­l’area mediorientale, ma, so­prattutto, è il prodotto di u­na chimica regionale tra Si­ria, Iran e Israele che ha sem­pre “usato” il Libano come fattore stabilizzante, o de­stabilizzante, a seconda dei singoli interessi di parte. Tu­t­l’intervista Non può essere un caso, in­fatti, che proprio ieri Dama­sco abbia incassato la dispo­nibilità di Israele a iniziare negoziati di pace indiretti, sotto gli auspici della Turchia e con il benestare degli Stati Uniti. Il che significa comin­ciare a discutere sulla que­stione Golan con buone pro­spettive di vedersi restituito il territorio conteso.
  Quanto a Teheran, un “am­morbidimento” delle sue po­sizioni aggressive a fianco dello sciiti in Libano potreb­be valergli qualche carta in più da giocare sul tavolo del­la partita nucleare.
  Così, la Siria ha salutato con grande favore l’accordo di Doha («Sosteniamo tutto ciò che i fratelli libanesi hanno concordato», ha detto il mi­nistro degli Esteri Walid Muallem); e lo stesso ha fat­to l’Iran, esprimendo «gran­de soddisfazione» per un’in­tesa che «potrà garantire in futuro radioso per il popolo libanese».
  L’accordo ha ricevuto il plau­so dell’Onu e dell’Unione eu­ropea, che ha sollecitato una sua «immediata attuazione». Per l’Italia, ha manifestato soddisfazione il ministro de­gli Esteri Franco Frattini. Il vescovo caldeo di Beirut, monsignor Michel Kassarji, ha parlato di un «grande pas­so avanti nella soluzione del­la crisi». La città ha accolto la notizia con gioia. La gente è scesa in strada a festeggiare. E il cielo si è riempito di mi­gliaia palloncini bianchi.
 
ti, in questi giorni, sembrano essersi messi in gioco, dispo­nibili a fare qualche passo in­dietro sulle proprie posizio­ni per guadagnarne altre. È così per la Siria, sostenitrice, insieme all’Iran, di Hezbol­lah.

Ad avere ben chiaro il significato dell'accordo, pur desiderando un maggiore rafforzamento di Hezbollah contro America e Israele è George Corm, "analista politico"antioccidentale intervistato da Michele Giorgio per Il MANIFESTO  :


Il Libano dopo l'accordo trovato a Doha si è incamminato verso una intesa nazionale o ha solo raggiunto una tregua tra gli schieramenti contrapposti e i loro rispettivi sponsor esterni? E' questo l'interrogativo di molti libanesi e che noi abbiamo posto al professor Georges Corm, intellettuale di Beirut, brillante analista politico e finanziario nonché autore di testi importanti come «Petrolio e Rivoluzione» e «Il nuovo disordine economico mondiale». Corm, cristiano, è stato tra il 1998 e il 2000 ministro dell'economia.
Professor Corm come valuta l'accordo raggiunto a Doha?
Mi sembra buono, o almeno soddisfacente. Tendo però a considerarlo una tregua più di una intesa definitiva tra le due parti. Non facciamoci troppe illusioni. I nodi più difficili non sono stati ancora sciolti e dobbiamo attenderci, non so dire quando, altre forti tensioni il giorno in cui quei nodi arriveranno di nuovo al pettine. Per ora godiamoci questo risultato importante e cerchiamo di rilassarci, ne abbiamo proprio bisogno dove i combattimenti delle scorse settimane che ci hanno fatto rivivere i giorni della guerra civile (1975-90).
Quali sono i punti che la convincono di più dell'accordo?
Uno in particolare. La decisione di emendare la legge elettorale, tenendo presente il sistema del 1960, è molto importante perché adesso si cercherà di riequilibrare elettori e circoscrizioni dopo che erano stati disposti in un certo modo da una parte (la maggioranza, ndr) a danno dell'altra. E ne abbiamo visto i risultati alle passate elezioni. Se non ci saranno ostacoli, e purtroppo ne prevedo molti, il prossimo anno avremo risultati elettorali più rispettosi della realtà politica del paese.
Di cosa ha bisogno il Libano per uscire dalla crisi?
Di due cose. Del rispetto di quella «democrazia consensuale» che rappresenta il principale risultato degli accordi di Taif (che alla fine degli anni 80 misero fine alla guerra civile, ndr), e che (il premier attuale) Fuad Siniora vada subito a casa, senza indugio. Il sistema attuale infatti assegna importanti poteri al premier e, nella situazione critica che stiamo vivendo, dobbiamo nominare un primo ministro che rappresenti la maggior parte dei libanesi e non solo una parte di essi. Tuttavia questi sforzi volti a ridare slancio al paese si riveleranno inutili se non spezzeremo anche il monopolio economico e finanziario della famiglia Hariri. Il gruppo finanziario degli Hariri è il principale datore di lavoro in Libano, possiede una delle maggiori banche ed è azionista di maggioranza di molte altre. Alla Borsa di Beirut le azioni di Solidere (la società che ha ricostruito la capitale e il paese dopo la guerra civile, è di proprietà degli Hariri, ndr) sono in crescita costante nonostante guerra e disordini. Ciò mentre il Libano fa i conti con oltre 40 miliardi di dollari di debito pubblico causati più di ogni altra cosa dagli interessi gravosi che lo Stato paga o deve pagare alle banche dove peraltro sono depositati capitali tre volte più grandi del Pil. E' uno strangolamento che subiscono soprattutto le fasce più deboli della popolazione e che è frutto anche degli interessi della famiglia Hariri.
Torniamo all'accordo di Doha. I libanesi sono felici, quasi non riescono a credere che le parti in conflitto abbiano trovato un compromesso, e certo sorridono anche a Teheran e Damasco. A Washington e Riyadh invece cosa pensano in queste ore.
Che hanno rimediato un brutto colpo ma che non è detta l'ultima parola. A mio avviso Stati Uniti ed Arabia saudita non hanno potuto far nulla per prevenire questo accordo che non riflette i loro interessi in Libano. Non hanno potuto impedirlo perché anche i loro alleati (libanesi) volevano una pausa, un compromesso, una strada che eviti un nuovo disastro al paese. Ma il passo indietro che hanno fatto Washington e Riyadh è soltanto temporaneo, tattico direi. Quindi torneranno all'attacco. Ma ho buone speranze perché la maggioranza della popolazione, rappresentata dall'opposizione, non vuole finire sotto l'egemonia americana o israeliana dopo aver spezzato quella siriana.

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