Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Politiche estere a confronto interviste a Franco Frattini e Massimo D'Alema
Testata:La Stampa - L'Unità Autore: Paolo Passarini - Umberto De Giovannangeli Titolo: «Sanzioni all’Iran? All’Onu l’Italia dirà sì - D’Alema: macché sicurezza, è solo inciviltà»
Da La STAMPA del21 maggio 2008, un'intervista ala ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini:
A Franco Frattini non piace la parola «discontinuità», parola che secondo lui, «ha una pessima fama in diplomazia», anche se il ministro degli Esteri del governo Berlusconi non nasconde alcune delle principali differenze che si noteranno tra la sua gestione e quella del predecessore Massimo D’Alema. Ma, prima di parlare di questo, desidera commentare l’intervista alla «Stampa», con la quale il primo ministro israeliano Ehud Olmert ha annunciato che, riguardo alla situazione di Gaza, la pazienza del suo governo sta per esaurirsi. «La situazione è intollerabile - ha detto.- Arriva il momento di dire basta e questo momento è sempre più vicino. Faremo di tutto per evitare di coinvolgere la popolazione». Signor ministro, il premier israeliano esclude un’invasione di Gaza, ma annuncia un’imminente azione militare. Cosa ne pensa? «Guardi, io mi rendo conto che gli israeliani hanno avuto molta pazienza e capisco bene i loro problemi di sicurezza, anche in un momento in cui i gruppi terroristici rendono sempre più invivibile la situazione agli stessi palestinesi. Sono consapevole che la madre di tutti i mali sono certamente i terroristi, gli estremisti di Hamas a Gaza. Di fronte a questo si richiede ad Israele una pazienza selettiva, cioè pazienza nei confronti della popolazione civile che soffre, mentre la comunità internazionale deve premere fortemente perché cessi la causa di tutto questo, cioè il lancio di razzi e le incursioni dei terroristi. Pienamente solidale con gli israeliani, quindi, ma auspico che Israele cerchi di alleviare le sofferenze dei palestinesi anche con medicinali e beni di prima necessità. E gli europei devono capire che chi accusa Israele e giustifica Hamas indebolisce proprio quei palestinesi che, come Abu Mazen, si battono per la pace». Più in generale, come vede le prospettive del processo di pace in medio Oriente? Olmert parla di una corsa contro il tempo... «Non sono molto ottimista. Bisogna dare a Bush a Abu Mazen e a Olmert questa carta ed è una carta che si gioca fino a ottobre. Loro ce la stanno mettendo tutta, ma se non ce la fanno di qui a ottobre, dopo sarà difficile riprendere un negoziato in tempi rapidi. Purtroppo da Annapolis a oggi molti obbiettivi individuati sono sfumati. C’è un solo elemento positivo: i tre attori sono disponibili a uno sforzo di fiducia reciproca. Basti pensare a come Abu Mazen ha saputo distinguere tra palestinesi che soffrono e quelli che compiono atti terroristici. Come Olmert, mi auguro che Abu Mazen regga e continui nella sua azione positiva». Un quotidiano israeliano ha scritto che Olmert ha sollecitato gli americani a istituire un blocco navale ai danni dell’Iran. Che ne pensa? «Intanto questa notizia dovrebbe essere confermata e precisata. Già venne smentita l’ipotesi di un attacco armato. Io piuttosto penso che tutta l’Europa, Italia compresa, dovrebbe essere unita sulla linea delle sanzioni all’Iran, già abbracciata da Germania, Francia e Gran Bretagna, insieme agli Stati Uniti. Ma noi vogliamo fare questo passo, innanzitutto, in un quadro Onu, e poi in un quadro di prospettiva europea, perché l’Italia non vuole restare fuori da questa partita politica». Ministro, se non vogliamo parlare di discontinuità con il governo precedente, in che cosa pensa che la politica estera italiana cambierà rispetto al Medio Oriente? «Non si può nascondere che certe situazioni vengono lette da noi in modo differente rispetto al governo precedente. La questione dell’Iran, di cui ho appena parlato, è una di queste, anche se il mio predecessore D’Alema, negli ultimi giorni del suo mandato, aveva finalmente aderito all’idea di un congelamento dei fondi. Un altro punto molto chiaro è quello di non considerare Hamas un interlocutore politico. Una cosa è parlarci pragmaticamente sul terreno attraverso meccanismi di intelligence per alleggerire la situazione militare, come fa l’Egitto, con cui mi complimento; un’altra è la legittimazione politica. Spostandosi un po’ verso est, come vede gli sviluppi della situazione in Afghanistan? «Spero che tra qualche giorno a Parigi, alla Conferenza dei donatori, cominceremo a ragionare più concretamente in termini di flessibilità e di duttilità sul territorio. Per esempio, come comportarsi se la Nato ci chiedesse più elesticità sui cosiddetti “caveat”. Insomma, in certe situazioni, le regole d’ingaggio devono essere più flessibili. Dobbiamo essere pronti con un pacchetto Afghanistan, che comprenda misure di cooperazione sul terreno, più forte stabilizzazione istituzionale e maggiore disponibilità sui “caveat”. È vitale anche per il nostro contingente, che sta per spostarsi da Kabul a Herat, dove passa il traffico internazionale della droga, che serve a finanziare i talebani. Che fare? Io credo che questo sarà un argomento da G8 sotto presidenza italiana». Ministro, molte persone si chiedono cosa stiamo a fare in Libano, dove la situazione sembra peggiorare... «Noi in Libano svolgiamo un compito estremamente importante. Abbiamo una missione militare che tutti apprezzano; conduciamo un’azione diplomatica di collegamento fondamentale. Io stesso conto di essere prestissimo in Libano per incontrare il nuovo presidente e testimoniare a Suleyman l’impegno dell’Italia. Quando avremo un assetto istituzionale stabilizzato e un governo di unità nazionale ci potremo finalmente chiedere se il disarmo delle milizie di Hezbollah possa riprendere e concludersi in tempi brevi». Parlando di unità tra paesi europei, sembra che, con le recenti misure sull’immigrazione, il governo italiano abbia raccolto molte critiche... «Però vede, in fondo, con un po’ di prudenza e qualche contatto giusto, è stato chiarissimo a tutti che l’Italia non è affatto sul banco degli imputati. Le misure sulla sicurezza che abbiamo adottato oggi sono assolutamente in linea con le direttive europee. Il malinteso con gli amici spagnoli è stato assolutamente chiarito. Sento soprattutto attenzione verso un’Italia che vuole rientrare nel club di coloro che si battono per una maggiore sicurezza nel mondo».
Da L 'UNITA' un'intervista di Umberto De Giovannangeli all'ex ministro degli Esteri D'Alema, che esalta la resa ad Hezbollah in Libano, propugna il riconoscimento politico di Hamas e l'apertura di credito all'Iran, senza accennare a porre come condizioni la fine del sostegno la terrorismo e il rispetto dei diritti umani. Ecco il testo:
PARTIAMO dal Medio Oriente. La discontinuità nei confronti del «filo arabismo» di Massimo D’Alema è il concetto su cui il centrodestra, durante la campagna elettorale, ha molto insistito. «E io credo che il rischio vero, al quale è esposto il nostro paese, sia quello dell’irrilevanza. E penso che un’Italia che si precludesse il dialogo con il mondo arabo - così come viene prospettato - non serva a nessuno, né ad Israele, né all’Occidente. Inoltre, sarebbe un atteggiamento gravemente lesivo dei nostri interessi nazionali. D’altra parte, il corso della politica è un altro». Ovvero? «Guardiamo proprio al Medio Oriente, dove due eventi dominano la scena. Da un lato, l’accordo in Libano lungo la strada che noi avevamo tracciato: un accordo che comprende Hezbollah... Altro che il cambio delle regole d’ingaggio. Dall’altro, i contatti con Hamas, avviati sia da Israele che li conduce attraverso l’Egitto, sia da diversi Paesi europei e non solo dalla Francia. Tutto questo non perché ci piaccia Hamas, ma perché vi è consapevolezza che solo coinvolgendo Hamas - vincolandola, naturalmente, al rispetto della sicurezza d’Israele - si possa raggiungere la pace. D’altro canto, la questione mediorientale non è riassumibile nella lotta al terrorismo, che è un aspetto di una vicenda ben più ampia. C’è una questione nazionale libanese, c’è una questione nazionale palestinese. Il terrorismo lo si sconfigge dando anche delle risposte ai problemi da cui esso trae origine o che sono utilizzati dai terroristi come pretesto. Né si possono ridurre a gruppetti di terroristi movimenti che sono rappresentativi di milioni di persone. Insomma, i problemi sono innanzitutto politici e non solo militari. Ricordo ancora una volta che Hamas ha vinto le elezioni e che Hezbollah è il partito che rappresenta la comunità sciita, la più grande del Libano. Al di là delle dichiarazioni, nella sostanza la diplomazia europea si muove nella direzione di costruire le condizioni di un processo di pace, il che lo si fa attraverso un dialogo in grado di coinvolgere il mondo arabo nelle sue diverse componenti. E una importante riprova dell’incisività di questa politica è l’avvio di colloqui di pace fra la Siria ed Israele, con la mediazione della Turchia». Rimaniamo sulla discontinuità, spostandoci sullo scenario iraniano. Il nuovo ministro degli esteri Franco Frattini ha sostenuto che il governo chiederà di entrare a far parte del gruppo «5+1», recuperando un treno perso... «Sì, certo, da loro... Ricordo, infatti, che l’Italia venne esclusa dal “5+1” nel 2003. Fu un grave errore del governo Berlusconi ed una chiara testimonianza di quel rischio di irrilevanza di cui ho parlato e che vedo correre anche oggi per il nostro Paese. L’esclusione da quel gruppo è stata gravemente dannosa agli interessi dell’Italia per diversi motivi. Intanto per ragioni di immagine, visto e considerato il valore simbolico che quell’organismo ha assunto, essendo composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e dalla Germania che ne vuole entrare a far parte. Poi, perché è diventato un luogo di consultazione politica di primaria grandezza. Ma, soprattutto, perché lì si è discusso del contenuto delle sanzioni ed è evidente che chi era a quel tavolo si è preoccupato che le sanzioni non fossero lesive dei propri interessi nazionali. Non a caso, spesso noi siamo stati tra i paesi che hanno pagato il prezzo più alto. In questi anni, mentre il governo Prodi ha lavorato per cercare di tutelare gli interessi dell’Italia, la destra ci ha accusato di essere filo iraniani, mentre noi eravamo semplicemente filo italiani nelle condizioni difficili in cui ci aveva lasciato il governo Berlusconi, costretti a partire da un gradino più in basso. Nonostante questo, ci siamo fatti sentire e alla fine siamo stati coinvolti in un meccanismo di consultazione a livello tecnico e diplomatico, recuperando possibilità di incidere sulle scelte e arrivando a raggiungere risultati importanti. Spero che questa operazione si concluda positivamente con l’inclusione dell’Italia nel gruppo “5+1”. Se questo accadrà, sarà frutto di un lavoro avviato dal governo Prodi». Più in generale, quale politica verso l’Iran? «L’Italia ha sempre condiviso l’obiettivo di evitare che l’Iran si doti di armi nucleari, sostenendo in pieno le sanzioni e - ripeto - spesso pagandone i prezzi più alti. Detto ciò, continuo a pensare che non bastino le sanzioni o una politica muscolare. Occorre un approccio più aperto verso quel Paese. Insomma, una politica di sanzioni più ferma, ma, contemporaneamente, un’offerta politica più significativa e consistente di dialogo, di coinvolgimento e di riconoscimento del ruolo dell’Iran nella regione. D’altra parte, parliamo di un Paese essenziale per la ricerca di una soluzione dei problemi in Iraq, in Afghanistan e in Medio Oriente. A mio parere, solo in questo modo potremmo riuscire ad offrire una sponda internazionale alle forze riformiste e moderate, alla società civile di un Paese che non può essere paragonato all’Iraq di Saddam Hussein. Ciò che dico non è una eresia, ma è quello che sostengono anche i candidati democratici americani». Berlusconi si è detto impegnato a «ricucire» lo strappo con gli Usa, provocato dalla vostra politica... «Noi abbiamo sempre avuto rapporti corretti e leali con gli americani. Rapporti improntati all’amicizia e alla collaborazione, ma anche alla franchezza. Ad esempio, abbiamo sostenuto la necessità che gli Stati Uniti tornassero ad impegnarsi maggiormente per la pace in Medio Oriente, così come li abbiamo incoraggiati a riprendere la strada di un ragionevole multilateralismo, abbandonando la politica unilaterale delle “coalitions of willings”. Dunque, non c’è nulla da ricucire. Il problema, semmai, è il contributo che può dare un paese come l’Italia. Noi siamo nel cuore del Mediterraneo e il nostro ruolo, in un mondo che rischia uno scontro di civiltà, è essere crocevia del dialogo, dell’iniziativa politica, della ricerca del confronto. Questa è la nostra vocazione». Questa «vocazione» come si concilia con le politiche che si preannunciano sul fronte dell’immigrazione? «La destra ha cavalcato il tema della sicurezza, con argomenti e toni pericolosi che speriamo il governo corregga rapidamente. Evocare le ronde o affermare che i cittadini possano provvedere da soli, crea un terreno favorevole a gesti violenti come gli incendi dei campi rom. Sui temi della sicurezza, viceversa, occorre grande equilibrio. Naturalmente, servono fermezza contro la criminalità, procedure rapide per l’espulsione, insomma quelle misure ragionevoli per la sicurezza che già avevamo predisposto noi, con il pacchetto Amato, che poi, purtroppo, non è stato approvato. Sappiamo anche per responsabilità di chi e il prezzo elettorale che abbiamo pagato». Il governo ha presentato il ddl sul reato di clandestinità... «Sarebbe una norma incivile, giuridicamente insostenibile, contraria ai principi europei. In più, sarebbe totalmente controproducente, perché criminogena: spingerebbe la povera gente che viene nel nostro Paese per disperazione e miseria - e che nella grande maggioranza è onesta - a diventare manodopera per la criminalità. Il problema vero è che noi non abbiamo una politica dell’integrazione degna di questo nome. Si tratta di una grande questione europea, non soltanto italiana. Ma io domando: che razza di società democratica è quella in cui il 15% della forza lavoro che produce tra il 6 e il 10% del Pil non gode di diritti civili e politici? Che razza di democrazia è quella nella quale chi vive e lavora in Italia da 15 anni non ha diritti? In definitiva, è la sostanza della democrazia ad essere intaccata. A mio parere, società di questo tipo non si reggono. Ecco perché lo considero un problema cruciale, che - insisto - riguarda l’Europa e il suo futuro. E che chiama fortemente in causa anche il centrosinistra europeo. È una sfida sulla quale ci dobbiamo tutti misurare. Una politica di sicurezza, con il rigore verso chi delinque e la certezza della pena, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è una coraggiosa strategia dell’integrazione, che punti sui diritti civili, sociali, politici e su una accelerazione delle procedure della cittadinanza. Così, a mio giudizio, una seria politica dell’integrazione diverrebbe fattore fondamentale della sicurezza. Altrimenti, temo che avremo una società squilibrata, in cui persino certi valori fondamentali come quelli democratici saranno fortemente intaccati».