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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Unità - Il Riformista - L'Opinione Rassegna Stampa
21.05.2008 Trattative con Hamas
rassegna di conclusioni quanto meno affrettate e analisi equlibrate

Testata:L'Unità - Il Riformista - L'Opinione
Autore: Umberto De Giovannangeli - Fabio Nicolucci - Michael Sfaradi
Titolo: «Chi dialoga con Hamas - In Medio Oriente sta finendo l'età dell'ideologia - Hamas alza il prezzo per la libertà di Ghilad Shalit»

La Francia dialoga con Hamas, ne segue che D'Alema ha sempre avuto ragione a volerlo fare.
E' l'incosistente ragionamento di Umberto De Giovannangeli. Da L'UNITA' del 21 maggio 2008:

«Hamas controlla un pezzo importantissimo del territorio palestinese e se si vuole la pace bisogna coinvolgere chi rappresenta una parte del popolo palestinese. E poi, non dimentichiamoci mai che Hamas vinse le elezioni...» Per averlo sostenuto, da ministro degli Esteri, Massimo D’Alema fu accusato delle peggiori nefandezze, la più tenera di essere un «amico dei terroristi islamici». Coinvolgere Hamas nel dialogo, anche perché era la pragmatica considerazione dell’allora titolare della Farnesina, «con chi si negozia la pace? Con i nemici, con gli amici non c’è bisogno di negoziare». Apriti cielo! Il predecessore di D’Alema alla Farnesina, Gianfranco Fini, spara ad alzo zero.
«È incontestabile - dichiara - che Hamas non ha mai ripudiato il terrorismo come strumento di lotta...Prodi ha il dovere di dire con chiarezza se le affermazioni di D’Alema sono condivise e sono la linea di governo...».
Chissà se oggi le stesse bordate verranno indirizzate al responsabile della diplomazione di un Paese, la Francia, il cui presidente non è certo da annoverare nel campo del centrosinistra europeo: Nicolas Sarkozy. E chissà se gli stessi toni scandalizzati, le stesse accuse al vetriolo, la stessa esibita indignazione che ha accompagnato in Italia le riflessioni di D’Alema, verranno oggi scagliati all’indirizzo del ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, capo della diplomazia di un governo di centrodestra. La notizia è che la Francia si avvicina a Hamas, Israele pure - ma senza dirlo pubblicamente - e lo stesso dicasi per diversi Paesi europei che cominciano a ritenere più utile alla pace l’avvio di «contatti» con il movimento islamico palestinese. «Non si tratta di rapporti, ma di contatti privati», puntualizza Kouchner. Ma i contatti sono bene avviati e, conferma il responsabile del Quai d’Orsay, , «non siamo gli unici ad averli».
La posizione francese non è esattamente in linea con quella ufficiale dell’Unione Europea, che ha inserito Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, e ha finora escluso l’eventualità di un dialogo diretto. Era stato Massimo D’Alema , da ministro degli Esteri, a dire in pubblico ciò che molti in privato pensano, e cioè una linea diversa dall’intransigenza pura. Tra questi non c’è Franco Frattini, suo successore alla Farnesina, che ha già annunciato come il nuovo governo italiano sia contrario a qualsiasi dialogo. Una linea dell’intransigenza che non avvicina Roma a Parigi. Spiega ancora Kouchner: «Dobbiamo essere in grado di parlare (anche con Hama) se vogliamo giocare un ruolo, se vogliamo che ai nostri inviati sia permesso di entrare a Gaza». Così pensa e agisce una diplomazia che vuole incidere sui fatti e orientare le dinamiche mediorientali. Né più né meno di quanto aveva cercato di fare, con indubbi risultati (vedi il Libano), l’azione diplomatica italiana del precedente governo. «È sbagliato regalare ad Al Qaeda movimenti come Hamas ed Hezbollah, ed è nell’interesse della comunità internazionale evitare di spingere questi movimenti nelle braccia dell’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden...». In questo approccio, condiviso nell’agire concreto anche dal governo di centrodestra francese, c’è un retroterra analitico capace di cogliere la sostanziale differenza tra movimenti islamo nazionali dal forte radicamento sociale, come sono Hamas e Hezbollah, dalla galassia dei gruppi jihadisti.
Sul Partito di Dio sciita, Frattini ha un ripensamento, annotando che «anche gli Stati Uniti si rendono conto, per consolidare la stabilità libanese e per eleggere un presidente, è evidente che ci vogliono tutte le fazioni in contrasto, compreso il partito politico di Hezbollah, che ha membri in Parlamento...». Affermazione importante che ricalca la seguente: «Hezbollah è un partito politico, con membri in Parlamento e ministri e, è vero, anche con missili katyusha...È un paradosso ma questa è la realtà, una realtà con molte contraddizioni. Il nostro obiettivo è il disarmo delle milizie e quello di obbligare Hezbollah a diventare una entità unicamente politica, affinché il Libano sia una democrazia normale...». Così D’Alema in una intervista (7 settembre 2006) al più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Ahronot. Affermarlo significa essere «amici dei terroristi»? Se è così, ad esserlo è anche Bernard Kouchner e con lui Nicolas Sarkozy...

Fabio Nicolucci sul RIFORMISTA confonde tregue di fatto (Barak ne avrebbe negoziata una in Egitto) e riconoscimenti politici.
Arguisce, acrobaticamente,  dalla "dichiarazione che Israele non è più disponibile a rilasciare prigionieri palestinesi in cambio della liberazione dei due soldati ostaggi di Hizballah dal 12 luglio 2006" una volontà di separare la fantasmatica area "libanese" del gruppo terrorista da quella impegnata nel conflitto mediorentale e legata all'Iran. Saluta (con troppa fretta?) la fine del "manicheismo ideologico" dei neocon e il ritorno della
 "politica" . Quale politica ? Quella del "dialogo" con  terroristi e dittatori. La politica che era in vigore prima del fallimento di Camp David e dell'11 settembre. e che ha fatto si che l'uno e l'altro non fossero evitati.

Ecco il testo:

Ehud Barak è tornato ieri dall'Egitto con un buon bottino: un informale accordo con Hamas per un «cessate il fuoco» a Gaza, senza condizioni né da una parte né dall'altra, nemmeno sul doveroso rilascio del caporale Gilad Shalit.
Dunque non tutto è fermo in Medio Oriente, malgrado l'attesa per le presidenziali Usa. Altri rilevanti fatti politici - perché riguardano direttamente il nodo del «se», e se sì «come», negoziare con l'Islam politico radicale - hanno infatti preceduto l'accordo egiziano. Ciò che Massimo D'Alema sosteneva, malgrado una furibonda polemica nostrana, e cioè che il disarmo si può ottenere solo usando anche la politica, e che perciò occorre porsi la questione della rappresentatività di organizzazioni certo terroristiche ma anche politiche come Hizballah ed Hamas, sembra anche in Israele diventare sempre meno tabù. Lo aveva già testimoniato il rapido estinguersi della polemica sulle regole d'ingaggio della missione Unifil.
Poi due giorni fa, un altro segno: la dichiarazione che Israele non è più disponibile a rilasciare prigionieri palestinesi in cambio della liberazione dei due soldati ostaggi di Hizballah dal 12 luglio 2006. Una decisione tanto ferma da specificare che se Hizballah dovesse insistere su questa condizione Israele è pronta a rompere le trattative e a dichiarare morti i due soldati. Data l'importanza simbolica che Israele mette sul recupero di ogni suo singolo soldato, anche fosse cadavere, si tratta di un passo significativo: indirettamente esso presuppone il riconoscimento della forza politica di Hizballah, perché il partito di Dio non viene più trattato solo come organizzazione terroristica «globale» alla stregua di Al-Qa'ida - con la quale si tratta o meno su base globale, in cui i prigionieri da scambiare sono tutti uguali - bensì le si riconosce una forza e una base nazionale, con ciò «confinandola» in Libano e dunque lavorando per separarne la parte nazionale da quella, più ideologica, che risente delle sirene del jihadismo globale extraterritoriale. Insomma, Hizballah si occupi di Libano, se ne riconosce la forza, ma lasci stare la questione palestinese.
Il tutto è forse parte di una strategia politica e di un ripensamento più globale, perché lo stesso tabù viene parzialmente rotto anche con Hamas. Dapprima facendo aprire la via al ministro degli esteri francesi Kouchner, il quale dichiara come la Francia abbia contatti informali con Hamas da mesi, in violazione della volontà Usa e di Israele.
E poi facendo seguire l'accordo egiziano di ieri: un puro esercizio di realpolitik, reso possibile dalla constatazione che le reazioni alle dichiarazioni di Kouchner erano sotto la soglia di allarme. Del resto la presidenza Bush va ad estinguersi, e già si vedono avanzare Obama e McCain, con posizioni magari diverse ma tutte convergenti nel significare che in Medio Oriente sta rapidamente finendo la stagione neocon del manicheismo ideologico e che la politica può riprendere il suo posto.

Da L' OPINIONE, un commento equilibrato alle trattative segrete in egitto. Di Michael Sfaradi:

Non è un segreto che il governo israeliano tenga contatti, direttamente o tramite intermediari, anche con le organizzazioni terroristiche. I motivi che giustificano questi contatti ci sono e sono anche seri. Il più importante fra loro è il lasciare aperta la possibilità di uno scambio di prigionieri che permetta il ritorno a casa sia di Ghilad Shalit, rapito da Hamas che di Eldad Regev e Udi Goldwasser rapiti da Hezbollah. Ultimamente sono trapelate notizie, non ufficiali, che le trattative con Hamas tramite l’intermediazione dell’Egitto per il rilascio di Ghilad Shalit, fossero in uno stato avanzato, ma come sempre succede in questi casi per ogni passo che si fa in avanti ce ne sono due indietro. Hamas sa di trovarsi in una posizione di forza e vuole sfruttare la sua situazione al fine di ottenere vantaggi sia politici sia strategici.

Le richieste sono difficili da esaudire da parte del governo israeliano che si trova nella scomoda posizione di dover riportare in patria un suo militare cercando nel frattempo di evitare situazioni che in futuro potrebbero diventare scomode e pericolose. Infatti l’organizzazione terroristica vuole scambiare Shalit con un considerevole numero di terroristi, sembra fra le 70 e le 100 unità, già condannati a più ergastoli o a lunghe pene detentive per atti di terrorismo costati la vita a cittadini israeliani; vuole l’apertura dei blocchi che, tranne per i passaggi internazionalmente riconosciuti, chiudono la striscia di Gaza e vuole un cessate il fuoco per un periodo di tempo variabile dai sei mesi ad un anno. La situazione è terribilmente seria e non serve essere degli analisti per capire quanto possa essere difficile per il governo israeliano accettare simili condizioni. Per prendere decisioni di questo tipo servirebbe un governo saldamente al potere e con una larga maggioranza in parlamento, e questo non è il caso dell’esecutivo guidato da Olmert che naviga in mezzo a scandali finanziari e che deve rispondere a quesiti piuttosto scomodi.

La liberazione degli ostaggi è fra le priorità del Ministro della Difesa Barak che deve tener conto che, se si arrivasse ad una soluzione di questo tipo, la propaganda di Hamas dipingerebbe Israele come una nazione in ginocchio e questo, l’esperienza ce lo insegna, spingerebbe gli animi verso uno stato di aggressività da parte palestinese ancora più alta con conseguenze disastrose. C’è anche da chiedersi come potrebbe reagire l’opinione pubblica israeliana, nel momento in cui uno dei terroristi scarcerati fosse implicato in azioni di guerra o attentati terroristici e si macchiasse ancora di crimini verso la popolazione civile. Le critiche verso il governo e questo tipo di politica si abbatterebbero violente e chiuderebbero la via al dialogo. Visto che Hamas predica e persegue la distruzione di Israele è facile capire che il cessate il fuoco non è visto da Hamas come un mezzo per arrivare a dei colloqui che portino ad accordi di pace, ma un espediente per prendere tempo e potersi riarmare con nuove e più sofisticate armi in vista di nuovi scontri. La cosa più pericolosa, politicamente parlando, è che trattare apertamente con un’organizzazione terroristica come Hamas significa darle legalità, in qualche modo sdoganarli agli occhi della comunità internazionale e sappiamo benissimo che sono troppi al mondo i “buoni di sinistra” che, volendo mantenere una “verginità virtuale”, aspettano solo la scusa per aprire ai nemici di Israele.

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