Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'imperdonabile Bush che si schiera con Israele rassegna di cronache e commenti sull'orlo di una crisi di nervi
Testata:La Repubblica - Corriere della Sera - Il Manifesto Autore: Alberto Stabile - Ennio Caretto - Michele Giorgio Titolo: «Bush in Israele: Non si tratta con l´Iran - Bush in Medio Oriente e la tentazione del colpo di scena - La fortezza di Israele, il lutto della Palestina»
"Una visione in cui la comprensione delle cause alla base dei conflitti lascia il posto all´eterna lotta tra il bene e il male".E' quella di George W.Bush secondo Alberto Stabile di REPUBBLICA. Colpisce l'opposizione: per Stabile chi crede all'esistenza del bene e del male non comprende le "cause alla base dei conflitti". In realtà, la Storia dei totalitarismo del Novecento testimonia del ruolo delle "idee assassine" nel determinare i crimini del nazismo e del comunismo. Una genesi analoga hanno i massacri del fondamentalismo islamico: la storia non è fatta solo di "cause", ma anche di scelte. Anche di scelte morali tra il bene e il male.
L'articolo si concentra poi sulle critiche di Bush ai sostenitori dell'appeasement con l'Iran e con i terrosti da esso sostenuti. Barack Obama, dimostrando una certa coda di paglia, si è sentito chiamato in causa. Stabile riporta le reazioni indignate dei democratici
"Dagli Stati Uniti c´è stata un´immediata levata di scudi da parte di tutti i democratici. «Paragone oltraggioso», sbotta Hillary Clinton. Per la presidente della Camera Nancy Pelosi l´attacco «è indegno dell´ufficio del presidente». Per il presidente della commissione Esteri del Senato Joe Biden quelle di Bush sono «stronzate». E Obama ha replicato accusando il presidente di aver strumentalizzato il discorso di Gerusalemme per rivolgerli una scarica di «false accuse»".
Ecco il testo dell'articolo:
GERUSALEMME - Non è per domani, né per dopodomani, ma fra sessant´anni, il Medio Oriente sarà tutt´altra cosa. «Israele festeggerà il suo centoventesimo anniversario come una delle più grandi democrazie del mondo, sicura e fiorente patria degli ebrei. I palestinesi avranno la patria che hanno a lungo sognato e che meritano. Dal Cairo a Riyadh, da Bagdad a Beirut la gente vivrà in società libere e indipendenti. Iran e Siria saranno nazioni pacifiche, dove l´odierna oppressione sarà un lontano ricordo. E al Qaeda, Hezbollah e Hamas saranno sconfitti appena i musulmani della regione riconosceranno il vuoto della loro visione e l´ingiustizia della loro causa». Parola di George W. Bush. In Israele per celebrare i 60 anni dello Stato ebraico, il presidente americano ha evitato accuratamente di parlare delle difficoltà del presente. Ma nell´elencare le speranze per il futuro dell´area non ha perso l´occasione per mettere i piedi nel piatto della campagna elettorale americana, attaccando duramente - pur senza mai nominarlo - Barack Obama, reo a suo dire di essere accondiscendente nei confronti dell´Iran. Chi si aspettava un puntuale e certo non esaltante rendiconto della sua più ambiziosa iniziativa diplomatica, la ripresa del negoziato tra israeliani e palestinesi sancito alla Conferenza di Annapolis del novembre scorso, è rimasto deluso. Nel suo discorso davanti al parlamento israeliano, George Bush, che vede pericolosamente avvicinarsi la fine del suo mandato senza che, contrariamente al suo auspicio, israeliani e palestinesi raggiungano l´accordo, non ne ha parlato. Il presidente americano ha preferito illustrare ancora una volta la sua personale filosofia della storia applicata al Medio Oriente. Una visione in cui la comprensione delle cause alla base dei conflitti lascia il posto all´eterna lotta tra il bene e il male. E in cui le follie dei governanti s´arrendono davanti al potere salvifico della libertà e della democrazia, le sole, e per definizione, portatrici di valori come la giustizia e i diritti umani, destinati ad affermarsi anche là dove regna l´ingiustizia e l´oppressione. Bush non ha risparmiato elogi allo stato ebraico, definendolo di volta in volta «una possente democrazia», «una luce fra le nazioni», «la patria del popolo eletto». E poiché in mattinata aveva visitato i resti archeologici della fortezza di Masada dove, secondo lo storico Giuseppe Flavio, nel 72 d.C. centinaia di zeloti preferirono suicidarsi piuttosto che arrendersi all´esercito romano, Bush ha esclamato tra gli applausi della Knesset: «Cittadini d´Israele Masada non cadrà mai più. L´America sarà sempre accanto a voi». Proprio perché la guerra al terrorismo è, in definitiva, «l´antica battaglia tra il bene e il male», non c´è non può esserci mediazione. I terroristi non sono, infatti, religiosi. Nessuno che prega il Dio di Abramo, dice Bush, può concepire di farsi saltare in un ristorante o di indirizzare un aereo contro un grattacielo. In verità questa gente non ha altro obiettivo che soddisfare la loro propria sete di potere. Ma qui il discorso di Bush ha abbandonato all´improvviso le vette dell´ideologia. Parlando della minaccia rappresentata dal programma nucleare iraniano, Bush taglia netto: «Permettere allo sponsor mondiale del terrorismo di possedere l´arma più letale sarebbe un imperdonabile tradimento delle future generazioni». E qui lancia una frecciata al candidato democratico Barack Obama (salvo sostenere più tardi che non stava parlando di lui), che ha suggerito di dialogare senza precondizioni con i leader di Teheran. Qualcuno, dice Bush, sembra credere che noi dovremmo negoziare con terroristi e radicali come se qualche ingenuo argomento li persuadesse ad ammettere di essere nel torto. E per essere ancor più chiaro, cita il precedente di Hitler e di quanti s´illusero di poter trattare con il dittatore nazista. Per concludere: «Dobbiamo chiamare quest´atteggiamento per quello che è: il falso conforto dell´appeasement che è stato ripetutamente screditato dalla storia». Dagli Stati Uniti c´è stata un´immediata levata di scudi da parte di tutti i democratici. «Paragone oltraggioso», sbotta Hillary Clinton. Per la presidente della Camera Nancy Pelosi l´attacco «è indegno dell´ufficio del presidente». Per il presidente della commissione Esteri del Senato Joe Biden quelle di Bush sono «stronzate». E Obama ha replicato accusando il presidente di aver strumentalizzato il discorso di Gerusalemme per rivolgerli una scarica di «false accuse».
Ennio Caretto sul CORRIERE della SERA giudica fallimentare e produttrice di tesnsioni la politica estera americana in Medio Oriente "dal 2001 a oggi" . Piccolo particolare: si trattadella politica successiva all'11 settembre. Evento che qualche tensione e qualche fallimento precedente deve pure aver rivelato. Per contro, del successo o del fallimento delle democratizzazione del Medio Oriente è ancora troppo presto per giudicare. La reazione delle tirannidi e dei fondamentalisti era inevitabile, ma la battaglia è ancora in corso.
Ecco il testo:
Come conferma il suo sterile viaggio, George Bush non passerà alla storia come il presidente americano che salvò il Medio Oriente e il Golfo Persico. Ma il Medio Oriente e il Golfo Persico potrebbero passare alla storia come i fattori che determinarono l'elezione del presidente americano nel 2008. Sinora quasi estranei al dibattito elettorale, minacciano di controllarlo con lo scoppio di una o più delle crisi latenti, dalla Palestina al Libano, dall'Iraq all'Iran. Nessuno dei due candidati alla Casa Bianca, il democratico Barack Obama e il repubblicano John McCain, ne ha analizzato i problemi a fondo e offerto una soluzione. Ma sono mine vaganti nelle loro acque, capaci di scontrarsi prima del voto di novembre. Non è escluso che, in attesa del successore di Bush, e quindi di un cambiamento della politica estera ed economica degli Stati Uniti, drastico se fosse eletto Obama, modesto se fosse eletto McCain, il Medio Oriente e il Golfo Persico si stabilizzino temporaneamente. Ma non è probabile: al suo canto del cigno per Israele, Bush non è neppure riuscito a tenere un vertice a tre con il premier israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen; l'ascesa di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano, due nemici dell'America, appare inarrestabile; non cessano le convulsioni dell'Iraq; e l'Iran espande la sua sfera di influenza. Aspettarsi una pace regionale, ammonisce l'analista Tony Cordesman, «è come aspettare Godot». Se l'instabilità del Medio Oriente e del Golfo crescesse, sarebbero in prevalenza i loro leader e gli eventi che li riguardano, terrorismo incluso, a indirizzare gli elettori americani verso Obama o McCain. Ma molto dipenderebbe anche da Bush, che il Partito ha emarginato dalla campagna elettorale: il presidente potrebbe giocare la carta iraniana bombardando gli impianti atomici di Teheran; provocherebbe così un'emergenza nazionale analoga a quella del 2004, guerra all'Iraq, che giovò ai repubblicani e danneggio i democratici. E qualche cosa dipenderebbe anche da Israele: se concludesse un accordo con la Siria oltre che con i palestinesi, renderebbe più accettabile un «Bush 3» sia pur rivisto, un'amministrazione McCain. Tradizionale nelle elezioni americane è la «sorpresa d'ottobre», il colpo di scena finale che spesso sovverte i pronostici. Se più che in America quest'anno esso rischia di verificarsi in Medio Oriente e nel Golfo Persico, la responsabilità è di Bush. Dal 2001 a oggi, il presidente non ha saputo elaborare una politica araba: ha sostituito al dialogo il confronto; ha tentato di diffondere la democrazia con la forza; non ha appaiato all'encomiabile sostegno a Israele pressioni sufficienti a favore dei palestinesi; e ha sconvolto il mercato del petrolio deprezzando il dollaro. Anziché speranza, ha generato sempre più risentimento. Bush lascia un Medio Oriente e un Golfo Persico in condizioni peggiori di quelle che ereditò. Il risultato è che, campo militare a parte (il più pericoloso), l'America non è mai stata così impotente in Medio Oriente e nel Golfo, e che il Medio Oriente e il Golfo non sono mai stati così in grado di condizionare l'America. Dimezzata come in Vietnam, la superpotenza non può porre fine ai conflitti in Iraq e Afghanistan, e la tentazione dei suoi leader di riscattarsi contro l'Iran aumenta. Non solo Bush ma anche McCain e persino Hillary, sebbene abbia ormai perso la corsa alla Casa Bianca, tradiscono la frustrazione americana con la frequente minaccia di un intervento armato a Teheran. Ma quali sarebbero le conseguenze? Una regione in guerra, attentati in Europa e in America, il petrolio alle stelle? L'auspicio migliore per tutti è che nulla accada, le elezioni americane si svolgano liberamente e il successore di Bush instauri un nuovo corso.
Michele Giorgio sul MANIFESTO contrappone la celebrazione dei 60 anni di Israeleall'assenza di uno Stato per i palestinesi. I quali in realtà devono la loro non facile situazione al fatto che le loro classi dirigenti hanno sempre scelto la guerra inseguendo l'obiettivo della distruzione di Israele a scapito di quello della costruzione di uno Stato arabo in Palestina.
Ecco il testo:
George Bush ha scelto prima Masada e poi la Knesset, per ribadire il legame fortissimo esistente tra gli Stati uniti e Israele, nel giorno del sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato ebraico. «I sette milioni di israeliani non sono soli, ma hanno al loro fianco i 300 milioni di americani...Masada non cadrà di nuovo» ha esclamato il presidente Usa, riferendosi ai mille zeloti ebrei della fortezza sul Mar Morto che nel 73 d.C. preferirono un suicidio di massa alla resa alle legioni romane. «Avete l'America al vostro fianco», ha assicurato il presidente Usa che scegliendo di visitare Masada ha voluto dare il senso più profondo dell'alleanza a tutti i livelli - a partire da quello militare - tra il suo paese e Israele. E mentre pronunciava quelle parole, nei centri abitati palestinesi si levavano verso il cielo 21.915 palloncini neri, uno per ogni giorno trascorso dalla dichiarazione d'indipendenza di Israele, venivano messe in mostra le chiavi delle case distrutte o confiscate nel 1948, assieme ai nomi di 530 villaggi palestinesi di cui oggi, in territorio israeliano, non resta traccia. Sono state le commemorazioni della Nakba, la Catastrofe nazionale del popolo palestinese che nei giorni della fondazione dello Stato ebraico veniva avviato in gran numero - almeno 750 mila uomini, donne e bambini - verso l'esodo forzato. Per loro, Bush non ha avuto neanche una parola. L'uomo della guerra globale non capisce che per fare la pace in Medioriente occorre raccontare tutte le verità e non soltanto una. «Yom Azmaut Sameach», «Felice giornata dell'indipendenza», ha detto Bush al suo ingresso nell'aula principale della Knesset ricevendo un'ovazione da tutti i presenti che si sono alzati in piedi entusiasti. «L'America - ha detto Bush rivolgendosi agli israeliani- sta con voi nello sforzo di scompaginare le reti terroristiche e di negare agli estremisti luoghi protetti. L'America - ha precisato - sta con voi fermamente nell'opporsi alle ambizioni nucleari iraniane. Consentire ai leader mondiali dell'istigazione al terrorismo di possedere le armi più mortali al mondo sarebbe un tradimento imperdonabile nei confronti delle generazioni future». Quindi ha ribadito: «il mondo non deve permettere che l'Iran abbia armi nucleari», indicando che gli ultimi mesi della sua presidenza potrebbero riservare una nuova guerra in Medio Oriente, scatenata da un attacco militare statunitense contro le centrali atomiche iraniane. Nel suo discorso, invece, i negoziati israelo-palestinesi non sono stati quasi menzionati. La parola Annapolis - la località degli Stati uniti dove nel dicembre scorso proclamò la sua intenzione di lavorare a un accordo tra Israele e Anp entro il 2008 - non è stata pronunciata a conferma che quell'incontro in terra americana era soltanto una rappresentazione teatrale. Bush ha preferito parlare della «grande lotta ideologica» in corso fra le democrazie occidentali e quanti, a suo parere, si richiamano a una versione radicale dell'Islam: Hamas, Hezbollah, al Qaida, Iran. Per Bush, a quanto pare, non è Islam radicale quello dell'alleata Arabia saudita, dove vige un sistema social-religioso feudale che fa delle donne uno dei principali bersagli. Il presidente Usa ha poi lanciato attacchi indiretti al candidato democratico Barack Obama che, pur manifestando sostegno a Israele, non ha escluso di poter avere contatti con le «forze del male» indicate da Bush. A pochi chilometri di distanza e nei campi profughi palestinesi sparsi nel mondo arabo, un altro popolo raccontava il suo destino, e puntava l' indice contro l' indifferenza del mondo, rappresentata dall'atteggiamento di Bush. In un discorso al suo popolo, trasmesso dalla tv palestinese, il presidente Abu Mazen ha detto che «la continuazione dell'occupazione israeliana è una catastrofe che non procurerà sicurezza a nessuno». E ha aggiunto: «è arrivato il momento di porre fine alla disgrazia umana chiamata Nakba. Israele deve cessare subito ogni attività di colonizzazione». Abu Mazen aveva cominciato il suo discorso ricordando che 60 anni fa «centinaia di migliaia di palestinesi sono stati sradicati dalla loro patria, le loro case e le loro terre e spinti all'esodo» e che oggi sono quasi cinque milioni i palestinesi della diaspora il cui ritorno continua a essere negato. Da Gaza sono giunti toni più militanti di Hamas e le immagini di decine di migliaia di palestinesi in marcia nel ricordo della Nakba. A Ramallah, dove a mezzogiorno il suono delle sirene ha dato il via a un minuto di silenzio, oltre 50 mila persone, molte vestite di nero, hanno affollato Piazza Manara. Tanti si sono fermati in raccoglimento davanti alla tomba di Yasser Arafat. Per un giorno, niente divisioni, ma un popolo unito.
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