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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Repubblica - Il Riformista Rassegna Stampa
12.05.2008 Libano: la situazione sul terreno
e la posizione politica italiana

Testata:Il Giornale - La Repubblica - Il Riformista
Autore: Gian Micalessin - Vincenzo Nigro - Sonia Oranges
Titolo: «Le cristiane sfidano Hezbollah «Non ci vedrete mai col velo» - "Suleiman subito presidente" Frattini si consulta con la Rice - Fassino: contrordine, in Libano si resta»

La cronaca di Gian Micalessin da Beirut, dal GIORNALE del 12 maggio 2008:

C'è un bel sole e la gente di Beirut annusa l'aria. Sa di mare, sa di guerra. A Beirut si passeggia sulla Corniche tra blindati, soldati e barricate. A Tripoli e sulle montagne dello Chouf si combatte e si muore. Ma che farci? Chi vive qui lo sa. Non si fa pace in una notte. E una tregua non basta per una riconciliazione. Certo nella capitale dove il Casinò non chiuse mai in 14 anni di proiettili, orrori e bombe non ci si scompone per tre giorni di battaglia e qualche morto. È solo un altro capitolo da raccontare.
Marie, fascinosa e un po' rifatta trentenne maronita, allarga le labbra a canotto, addenta la brioche, racconta la sua guerra ai vicini di tavolo del bar dehors di Ghemmayze: «Li ho incontrati quelli di Hezbollah e gli ho detto “con il velo non mi vedrete mai”, sì gliel'ho detto in faccia, loro ridevano... bastardi». A Beirut la normalità, quella di facciata torna presto. Bastarono 48 ore dopo la guerra del luglio 2006 per riaccendere discoteche e bar di rue Monot. Sabato sera, dopo il ritiro di Hezbollah, era troppo tardi, ma per la tarda colazione o il brunch della domenica mattina sono già tirati a lucido, in fila ai tavoli di Chez Paul e degli altri luoghi culto. Che non sia finita lo sanno bene. Basta ascoltare le voci sui 17 morti negli scontri a Tripoli. Basta annusare l'aria, infilarsi in macchina, salire la collina di Baabda, allungare lo sguardo oltre il palazzo presidenziale. Lì, mezz'ora d'auto a sud-est, la guerra resta a portata di mano. Lassù tra i villaggi dello Chouf intorno ad Aley si consuma la vendetta di Hezbollah, l'umiliazione di Walid Jumblatt, il leader druso alleato del governo Siniora. Una settimana fa strillava contro la rete telefonica clandestina gestita dal partito di Dio, pretendeva l'estromissione di Wafiq Shqeir, il generale della sicurezza che invece di controllare l'aeroporto forniva informazioni ai miliziani filoiraniani. In questa domenica di sole è l'ombra di se stesso. Il consunto playboy druso - immortalato a metà anni Ottanta mano nella mano con la Carmen Llera coniugata Moravia - è il più illustre degli sconfitti. Hezbollah gli sta scippando le sue montagne, le cime dello Chouf dove la sua famiglia governa da secoli.
Sabato sera Walid Jumblatt se ne sta tranquillo a ricever giornalisti nella sua casa bunker di Beirut, ma lassù tra le cime di casa i suoi montanari sono sul piede di guerra, sbarrano la strada agli uomini di Hezbollah arrivati troppo vicini ai loro villaggi. Quattro sciiti non la passano liscia. Uno viene tenuto in ostaggio, tre vengono torturati, sfigurati, abbandonati sul ciglio della strada in segno d'avvertimento. Nella notte di sabato Hezbollah è già pronto a esigere vendetta. I miliziani appena scortati fuori dal centro di Beirut dall'esercito oliano i kalashnikov, ripartono dalle roccheforti a sud di Beirut, danno l'assalto allo Chouf. A mezzogiorno di domenica le scie di razzi e mortai disegnano candide serpentine sulle colline, esplodono tra le postazioni druse intorno a Kmatiye, Ain Anoub, Eitan e Keyfoun. Poche ore dopo i drusi di Walid sono in fuga. Alla sconfitta si aggiunge l'umiliazione. Jumblatt deve implorare Talil Arsan, capo di una fazione drusa rivale, pregarlo di trattare con Hezbollah la resa dei propri uomini e ottenere il dispiegamento dell'esercito.
Ieri sera fonti egiziane hanno fatto sapere che la nave da guerra americana Uss Cole, proprio quella colpita da terroristi islamici davanti ad Aden nel 2000, sta arrivando a tutta velocità per essere schierata davanti a Beirut: una forma di aperto sostegno di Bush al premier Siniora in difficoltà. Quanto ai militari libanesi, brillano di nuovo per la loro assenza. Guardano da lontano, aspettano che si finisca di sparare poi - quando i più forti hanno vinto - bussano alla porta dei perdenti e si portano via le armi. Ma per il governo sconfitto e lo Jumblatt umiliato quella truppa renitente è l'ultima ciambella di salvataggio. Per sopravvivere ai miliziani sciiti hanno accettato di delegare ai generali la soluzione delle scottanti questioni dell'aeroporto e della linea clandestina di Hezbollah. Da domani il generale Wafiq Shqeir potrà riprendere a «sorvegliare» e Nasrallah a telefonare.

Da La REPUBBLICA, un articolo di Vincenzo Nigro. L'Italia sostiene la candidatura di Michel Suleiman alla presidenza del Libano.

ROMA - «Forse c´è una pausa nella crisi libanese: approfittiamone per spingere verso l´elezione del presidente, consolidiamo la tregua in maniera più stabile». Il primo week-end di lavoro del ministro degli Esteri Franco Frattini è stato dedicato ancora al Libano. Un confronto con il collega francese Bernard Kouchner, in attesa di una teleconferenza che si dovrebbe tenere stasera anche con Condoleezza Rice e con i ministri dei "Friends of Lebanon", il gruppo di paesi che segue da vicino la crisi libanese.
La Farnesina ha seguito per tutta la giornata non solo le notizie in arrivo da Beirut, ma anche i lavori della riunione dei ministri degli Esteri della Lega Araba al Cairo. L´Italia sostiene la missione che il segretario generale Amr Moussa e il premier del Qatar faranno nelle prossime ore a Beirut. Gli inviati arabi incontreranno sia Fouad Siniora che il leader di Hezbollah, lo sceicco Nasrallah; l´idea è quella di consolidare il cessate-il-fuoco ma anche di spingere verso una soluzione politica del braccio di ferro. E l´Italia conferma il suo appoggio all´elezione del capo dell´esercito, il generale Suleiman, alla presidenza della Repubblica: un nome su cui c´è l´accordo sia dei filo-siriani che degli anti-siriani. Ma l´intesa fino ad oggi è stata bloccata da Hezbollah che chiede un nuovo governo in cui la componente sciita pesi di più.
«Certo in 5 giorni il panorama politico libanese è cambiato profondamente», dicono adesso alla Farnesina: ora il premier Siniora accetta che l´elezione del nuovo presidente avvenga contestualmente alla formazione di un nuovo governo e all´avvio della discussione delle nuova legge elettorale. Una legge elettorale che Hezbollah e l´altro partito sciita, Amal, vogliono per modificare il meccanismo in vigore oggi. Un meccanismo elettorale su base confessionale, che attribuisce ai cristiani una rappresentanza sovradimensionata rispetto alla crescita della popolazione sciita in tutto il Libano.
Il breve colpo di mano con cui l´esercito di Hezbollah ha preso in ostaggio per alcuni giorni Beirut ha mostrato la prontezza e la determinazione con cui il "partito di Allah" ha deciso di giocare le sue carte in Libano. Ma ha anche dimostrato la debolezza militare del governo, che di fatto non controlla l´esercito e ha milizie "private" che si sono liquefatte di fronte a quelle di Hezbollah. Ieri perfino il leggendario leader druso Walid Jumblatt si è precipitato in televisione per chiedere una tregua negli scontri che i suoi stavano avendo con altri gruppi drusi filo-siriani.
«Questo nuovo equilibrio militare potrebbe portare presto a cambiamenti sul piano politico, più favorevoli ad Hezbollah», dice una fonte della Farnesina, «tra l´altro se gli uomini di Hezbollah hanno fatto questo colpo di mano e si sono ritirati senza patire nessun danno, potrebbero essere tentati dal ripetere il gioco, potrebbero utilizzare sempre più massicciamente la carta militare sul tavolo libanese».

Convergenza tra Franco Frattini e Piero Fassino sulla missione italiana in Libano:

Contrordine ragazzi, la missione italiana in Libano non si mette in discussione: è corso ai ripari Piero Fassino, titolare degli Esteri nello shadow cabinet di Walter Veltroni, dopo lo scivolone dello stesso leader del Partito democratico che, nel momento più caldo degli scontri a Beirut, aveva proposto di riaprire in Parlamento la valutazione sulla missione Unifil per verificare «se ci sono ancora le condizioni per garantire la sicurezza dei nostri soldati», visto che in quelle ore si stava «creando una situazione del tutto diversa». Sarà stato che il colpo di mano di Hezbollah nel paese dei cedri è coinciso con il cambio della guardia nei palazzi del potere nostrani, sarà stata la contingenza dell'annuncio della formazione del governo ombra, fatto sta che ora Fassino parla di un fraintendimento delle dichiarazioni di Veltroni e, dopo un cordiale confronto telefonico con il ministro degli Esteri Franco Frattini, riconferma l'appoggio del Pd alla missione Unifil. «È necessario che l'Italia sostenga ogni iniziativa utile a bloccare l'escalation della violenza in Libano - spiega al Riformista - riprendendo il filo delle soluzioni politiche per superare questa nuova crisi».
Fassino appare soddisfatto dello scambio di battute con Frattini: «Ci siamo trovati d'accordo sul fatto che l'Italia è andata in Libano per impedire che scoppiasse un'altra guerra. Mi pare, peraltro, che le scelte del governo di centrosinistra in materia di politica estera difficilmente saranno modificate perché rispondono all'interesse del paese». Il ministro ombra sintetizza la giustezza dello sforzo di pace del precedente governo italiano, non soltanto nella partecipazione a Unifil, ma anche nella conferma della presenza dei nostri soldati in Afghanistan come nei Balcani, tre scenari in cui diplomazia e impegno militare si supportano vicendevolmente. Nessun ripensamento sulla presenza degli italiani in Libano, dunque. Anzi, Fassino ribadisce la richiesta «che si confermino gli impegni assunti» e «la responsabilità degli obiettivi di scongiurare un'altra guerra». Ma come? E con quali vincoli? Il capitolo sulle regole d'ingaggio, infatti, periodicamente riaperto nella stagione del centrodestra all'opposizione, resta tutto da scrivere. È un tema che evidentemente irrita Fassino: «Per favore, diciamo chiaramente che questa è una discussione tutta ideologica. La politica attende ora indicazioni da parte dei militari. Sono loro che devono dirci se ritengono quelle regole sufficienti a realizzare il mandato deciso in sede di Nazioni Unite». Per sciogliere il dilemma, il neoministro della Difesa Ignazio La Russa era pronto a partire oggi alla volta del Libano, ma ha scoperto che per organizzare il viaggio ci vuole un po' più di tempo.
Se l'obiettivo, a quanto pare condiviso da entrambi gli schieramenti politici italiani, è il mantenimento della pace, le cronache libanesi raccontano che il suo raggiungimento si allontana invece che avvicinarsi. Il conflitto, che sembrava fermato o quantomeno circoscritto alla capitale, sembra ora allargarsi a macchia d'olio: diciassette persone sono rimaste uccise nel nord del paese dove è dovuto intervenire l'esercito per porre fine agli scontri scoppiati tra fazioni in sostegno e contro il governo. A Tripoli, le milizie sunnite e quelle alawite filo Hezbollah si sono date battaglia per strada. E a Beirut, la violenza dal centro si è spostata nelle aree periferiche: a sudest della città, nel villaggio di Aitat, gli uomini del Partito di Dio hanno attaccato i fedelissimi del leader druso Walid Jumblatt. Il punto di rottura nel confronto tra i sunniti ora perdenti e gli sciiti forti del concreto appoggio di Siria e Iran, è ancora troppo vicino. Ieri, papa Benedetto XVI da piazza San Pietro ha esortato «con forza tutti i libanesi ad abbandonare questa logica di contrapposizione aggressiva che sta portando il loro caro paese verso l'irreparabile».
Un messaggio che dovrebbe suonare chiaro alla minoranza cristiano-maronita libanese, sin qui rimasta a margine dello scontro frontale tra i musulmani, cui però la costituzione affida la scelta del presidente della repubblica, la cui mancata elezione è di fatto causa della paralisi politica che ha innescato la crisi di questi giorni. Crisi ora sul tavolo della Lega Araba, riunitasi ieri d'urgenza, che lavora per affidare la presidenza all'unico candidato rimasto, il capo dell'esercito Michel Suleiman, e contestualmente nominare un governo d'unità nazionale che elabori una nuova legge elettorale per il voto del prossimo anno. Che, al momento, appare più lontano di una guerra.

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