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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio - Il Manifesto - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
09.05.2008 Israele alla Fiera del libro, quarantesima puntata
rassegna di cronache

Testata:La Stampa - Il Foglio - Il Manifesto - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Paolo Passarini - Giovanna Favro - Gabriele Ferraris - Marco Neiroti - la redazione - Francesca Borrelli - la redazione - Sara Strippoli - Massimo Novelli - Nicolò Zancan
Titolo: «Napolitano:E’ la pace l’unica scelta - Il giorno delle colombe - Pizzette, comici e scolaresche - Yehoshua verrò con i palestinesi - Fermiamo Ahmadinejad, rischiamo tutti il terrorismo nucleare - La pace disarmante tra gli stand del Lingotto -»

Gideon Meir: il Quirinale un modello per tutti i leaderAppelfeld boicotta i dicenti boicottatori - "Sulla Palestina niente storie" Fo, l'ira di un premio nobel - Slogan e volantini, ma niente scontri

Da La STAMPA del 9 maggio 2008, la cronaca della visita del presidente Napolitano alla Fiera del libro: 

«Meno male che doveva essere una visita blindata», ha continuato a ripetere ieri il capo ufficio-stampa del Quirinale, Pasquale Cascella, mentre, arrancando tra la folla attraverso gli stand del Lingotto, cercava con intermittente successo di non perdere il contatto con il suo capo. Ma l’espressione soddisfatta documentava senza ombra di dubbio che lo staff presidenziale, invece che lamentarsi, era più che felice del bagno di folla che stringeva anche troppo affettuosamente Giorgio Napolitano. Semmai, il rischio era che, invece di uno «scenario Genova-G8», si materializzasse uno «scenario Trento», quando il presidente ha rischiato di svenire per il troppo caldo e la poca aria. Insomma, è stata una visita breve (anche se meno del previsto), ma serena e priva di qualunque tensione. I famosi cecchini sui tetti hanno soprattutto preso il sole.
In realtà, nei giorni scorsi, il prefetto Alberto Ruffo, responsabile per la sicurezza presidenziale, preoccupato per le voci che correvano, si era tenuto in stretto contatto con il prefetto di Torino, Paolo Padoin, il quale continuava ad assicurare che la visita di Napolitano al Salone del Libro sarebbe andata liscia come l’olio («Semmai i problemi ci potranno essere con la manifestazione di sabato»). E il pacatissimo Ruffo, d’accordo con il presidente, ha pregato il responsabile dell’ordine pubblico di evitare ogni eccessiva blindatura: a Napolitano non piace apparire troppo separato dalla gente e, a dispetto della sua aria di distaccata signorilità, intende cercare il più possibile il contatto con gli italiani. E così è stato.
Arrivato a Caselle alle 9 e 30, il capo dello Stato alle 10 era già nella Sala Gialla, seduto su una poltrona speciale fornita dalla Regione, sulla quale, in passato, erano stati fatti sedere Sandro Pertini e Giovanni Spadolini. Ernesto Ferrero, direttore del Salone, ha pronunciato il discorso di saluto, seguito da Mercedes Bresso e dall’ambasciatore di Israele in Italia, Gideon Meir. Hanno ringraziato il presidente e questi ha risposto con un breve discorso preparato in aereo, perchè, se non fossero già state concluse le consultazioni per il nuovo governo, ieri non avrebbe potuto parlare. «I valori essenziali che la Fiera esprime sono quelli del confronto e del dialogo», ha detto, concludendo con una citazione dello scrittore israeliano Amos Oz: «Non dovete più scegliere tra essere pro-Israele o pro-Palestina, ma dovete essere per la pace».
Poi è partito per un’esplorazione degli stand, che, nonostante il Salone non fosse ancora stato aperto al pubblico, erano già affollati. Tra gli applausi e le urla «Presidente, presidente», Napolitano ha sostato presso gli stand di Laterza, Einaudi, Mondadori, delle Forze armate e del Poligrafico dello Stato. E’ stata anche l’occasione per rincontrare vecchi amici, come Inge Feltrinelli, Massimo Salvadori, Renata Colorni. Durante una sosta alla Rizzoli, la neo-deputata Fiamma Nierenstein gli ha regalato il suo ultimo libro.
Allo scopo di scongiurare lo «scenario Trento», ogni pochi minuti giovani inservienti portavano al presidente un bicchiere d’acqua. Arrivato allo stand del Poligrafico, Napolitano si è congratulato con il presidente Mario Muzzi per l’edizione del volume sulle vittime del terrorismo, che sarà presentato oggi al Quirinale: «Ieri l’ho anche fatto vedere a Berlusconi, quando è venuto con la lista dei ministri», gli ha raccontato. Ma, subito dopo, sempre più stretto dalla folla, non è riuscito a trattenere un: «Ma io qui va a finire che soffoco».
Allora la carovana presidenziale si è diretta verso la sezione dei ragazzi. Quando i suoi collaboratori sono riusciti a interrompere una torrenziale Elisabetta Sgarbi, ha voluto rivolgere un saluto ai ragazzi: «Non voglio chiedervi di stare zitti - ha detto - perchè le vostre voci sono la cosa più allegra che c’è. Vi dico solo una cosa: leggete, leggete, leggete».

L'inaugurazione come è stata vissuta nello standi dedicato a Israele nella cronaca di Giovanna Favro

Quando il presidente Napolitano s’avvicina allo stand, è un’ovazione. Scrosciano gli applausi, e una trentina di persone venute dalle comunità ebraiche di altre città sventola a più non posso bandiere con la stella di Davide. Emanuel Segre Amar, vicepresidente di Italia-Israele, legge un testo: «Contiamo su di lei, presidente, per combattere il virus dell’antisemitismo».
Dopo una frenetica attesa e un bel po’ di apprensione, comincia così, con una gran calca al seguito di Napolitano, la giornata allo stand biancazzurro di Israele. Una giornata di ressa anche dopo che Napolitano se ne va, con code alle casse, curiosità del popolo di Librolandia e nessun episodio di contestazione. Per quanto poco dicano i numeri, le cifre registrate alle 20 di ieri sono spia dell’aria che s’è respirata nello stand: a quell’ora s’erano venduti 2 mila spille, 1100 libri, 315 t-shirt, 25 creme del mar Morto e altrettante bottiglie di vino kosher. Ma s’era già capito dal primo pomeriggio, come sarebbe finita: alle 15,30 erano stati battuti 600 scontrini, con diversi titoli esauriti, a cominciare da «Tredici soldati» di Ron Leshem. «I gadget vanno a ruba - dicono alle casse -. Molti li comprano proprio perché qualcuno ci ha contestati: per solidarietà».
C’è molta polizia in borghese e molta parte della comunità ebraica di Torino, dal presidente Tullio Levi al vice Edoardo Segre. Ma ci sono anche volti venuti da fuori: la scrittrice Daniela Abravanel, ad esempio. Arriva da Israele, e spiega che l’eco delle polemiche di Torino è arrivata anche lì: «Un’amica mi suggeriva di non venire. Ma purtroppo non sono cose nuove. L’antisemitismo dura da duemila anni». E’ un refrain che torna nelle parole di tanti. Lo ripete ad esempio il rabbino milanese Bekhor Shlomo, editore con la sigla Mamash. Non lo si può non notare, per la lunga barba e il cappello nero a falda larga. Sorride: «In questo spazio entra gente che ci è vicina e vuol conoscere meglio la cultura ebraica. E’ bello che la Fiera non si sia fatta intimidire da antisemiti e violenti».
Sfoglia i testi tra gli scaffali un pubblico particolare, di chi cerca testi introvabili altrove, ma c’è anche il pubblico qualunque, che viaggia da uno stand all’altro e non è venuto appositamente per Israele. Gente come Massimo Bortolotti, di 44 anni: «Si può non essere d’accordo con quel governo, ma non significa che non debbano essere qui o non debbano festeggiare i 60 anni dello Stato».
Elazar Cohen, ministro dell’ambasciata, è il padrone di casa. Stringe mani, accoglie, consiglia, controlla. Nel pomeriggio se ne va pressato da un impegno: «Apriremo la Camera di Commercio Italia-Israele, per favorire scambi e joint venture. Avrà diverse sedi distaccate, ma qui a Torino ci sarà la sede centrale». Poco lontano da lui, la kippah in testa, parla Meyer, autore dell’unica «jewish guide» italiana: «L’Italia non ha radici antisemite, e noi ebrei qui sentiamo calore dalla gente. I pochi episodi violenti come il rogo delle bandiere sono eccezioni sporadiche».
Tra le persone che salutano più amici c’è Laura Camis De Fonseca, a lungo presidente di Italia-Israele, secondo la quale «la maggioranza dei torinesi non è ostile agli ebrei. Poi c’è una esigua minoranza di forte ostilità, che fa molto rumore. In mezzo c’è una fetta di popolazione per bene, che beve le falsità e la propaganda. E’ questa la gente che vorremmo informare correttamente e far riflettere». Perché non c’è dubbio: un pensiero ricorrente nello stand biancazzurro è che su Israele troppe persone siano male informate da giornali e tivù, quando non indottrinate a suon di bugie. Angelica Elena Calò è tra i molti che lo sottolineano: «Siamo abituati alla falsità. Travisano tutto ciò che Israele fa, per farlo passare sempre dalla parte del torto». E’ arrivata con 15 ragazzini che indossano t-shirt con su scritto «united colors of Galilea»: alcuni parlano l’arabo, altri l’ebraico, e sono venuti con Angelica dall’alta Galilea e da Israele per esibirsi tutti insieme in uno spettacolo di danza, musica e teatro, «che parla la lingua unica dell’arte».
E’ una delle tante spie di dialogo, di voglia di lavorare insieme, di provare a intendersi, anche solo parlando. E’ un altro dei refrain dello stand. E’ pure la linea guida di uno scrittore arabo come Younis Tawfik, che spunta nel pomeriggio: «Sono venuto per salutare amici e scrittori della comunità ebraica. Abbiamo parlato di politica e di prospettive per la costruzione dello stato palestinese. Il dialogo è possibile, anzi già esiste». Ne è convinto pure uno come Emanuel Segre Amar: «Tutto noi vogliamo fortemente lo stato di Palestina, l’unica via per la pace».
Chissà perché visto da qui, dalla Fiera, tutto sembra più facile

La situazione dell'ordine pubblico descritta da Gabriele Ferraris:

Inaugurazione blindata, Fiera del libro sotto assedio. Questa l’aspettativa, allarmata e allarmista. Ma ieri a Torino l’unico vero allarme l’ha causato l’improvvisa «scomparsa» di Luciana Littizzetto.
Alle 17,30 Luciana deve partecipare in Sala Gialla alla presentazione di una collana di libri di cucina. La Sala Gialla è gremita. E si presume che tanta folla non sia lì soltanto per i libri di cucina. Ma l’attesa ospite è in ritardo. Bloccata dal traffico, dicono. Arriverà. Forse.
Nel giorno più lungo della Fiera del boicottaggio, è l’unico momento di autentica paura. Per gli organizzatori dell’incontro, beninteso. Fuori, invece, è la Fiera del libro di sempre, le scolaresche che sciamano, il popolo dei lettori che gira per gli stand, il caldo e le pizzette e i programmi consultati compulsivamente. Gli inviati sono stanchi nell’umida sera, frustrati dall’inutile attesa del fattaccio, della contestazione clamorosa, dell’incursione violenta. Un ricciuto reporter di un quotidiano progressista ha fiutato per tempo l’andazzo, e per dare un senso alla giornata è andato a farsi tagliare i capelli dal barbiere del vicino centro commerciale. La grande battaglia per oggi non ci sarà. Lo capisci fin dal mattino: alle 9, il giornalista di «Radio anch’io» da piazza Castello annuncia al paese ansioso che «a Torino c’è il sole, e la città non sembra in stato d’assedio». Acuta osservazione, non essendo la città in stato d’assedio.
Mezz’ora dopo, l’ingresso del Lingotto Fiere più che una fortezza presidiata pare il sagrato d’una chiesa prima di un matrimonio: al posto dei parenti ci sono le autorità, e anziché gli sposi aspettano Napolitano. Hanno il vestito della festa, la presidente della Regione Bresso in giacchetta rossa e pantalone nero, Saitta della Provincia in gessato, il sindaco Chiamparino in grisaglia e fascia tricolore, e qualcuno lo burla, «sembri proprio un sindaco», e lui risponde con una scherzosa frase in piemontese che non riportiamo essendo questo un giornale per famiglie.
Le forze dell’ordine saranno pure schierate, ma con discrezione: vedi un paio di corazzieri, due vigili in alta uniforme, una ventina di carabinieri, e un gran numero di volontari della protezione civile con pettorina giallo limone: uno, per darsi un’aria più marziale, s’è messo il cappello da alpino. Dicono che ci sono pure gli agenti del Mossad, ma sul punto il cronista non può testimoniare: il vero agente del Mossad non si vede, e se lo vedi non è un vero agente del Mossad. Di contestatori violenti, manco l’ombra: corre voce che se ne siano presentati quattro ai cancelli, chiedendo se potevano entrare a dimostrare un pochino, ma gli hanno risposto di tornare un’altra volta. Arriva invece una comitiva di filo-israeliani, con bandiere d’Israele e magliette di Israele: li lasciano entrare, con l’impegno di non sventolare e non fare casino, e loro si avviano buoni buoni verso lo stand di Israele, collocato strategicamento accanto a quello della Polizia. Uno della comitiva filo-israeliana accenna un canto ebraico, ma gli altri lo zittiscono: «Non hai capito? Niente casino!».
Arriva anche Napolitano, e - in mancanza di contestatori - i Men In Black della sicurezza vivono momenti di gloria tenendo a bada i fotografi. Il codazzo è da gita sociale, con un ancora per poco assessore Sgarbi che bacia chiunque - Chiamparino in primis, poi persino una dimessa Melandri - e Luca Barbareschi che dà al tutto un tono da fiction.
Napolitano visita, e riparte. Prima che risalga in macchina, la Bresso con gesto assai femminile gli raddrizza gli occhiali. E appena è andato, Chiamparino si sfila ratto la fascia tricolore: «Fa ’n caod da sciopé» (fa un caldo da morire), si giustifica in vernacolo. Finito. Persino il presidente della Fiera, Rolando Picchioni, che per l’intera visita era apparso ragionevolmente teso, si rilassa, e torna alle normali preoccupazioni: si sdegna perché lo sponsor del caffé ha mandato confezioni di caffé minuscole e s’allarma per una lieve flessione dei visitatori. La lieve flessione viene recuperata nel pomeriggio, e lui si rasserena: sta’ a vedere che la psicosi-boicottaggio alla fine non danneggerà l’affluenza. In compenso, Picchioni s’industria per portare in Fiera nuovi trofei, il senatore di Forza Italia Ghigo gli conferma per sabato la visita del presidente del Senato Schifani, e lui rilancia: «Se domenica potessimo avere Bondi...». Il neo-ministro della Cultura non viaggia in aereo, ma nel weekend è a casa - ad Arcore, vicino al Capo - e un’auto è pronta a prelevarlo.
E mentre passano le ore, appare chiaro che la giornata filerà via liscia, e gli inviati s’interrogano su cosa mai scriveranno. Dura lo spazio d’un minuto l’eccitazione, a metà pomeriggio, per un sms che annuncia un volantinaggio davanti alla libreria del «sionista Pezzana» (propugnatore dell’invito a Israele), poi ciascuno è solo sul far della sera, trafitto dalla pagina ancora da riempire.
E, accidenti, anche la Littizzetto è arrivata.


La cronaca dell'incontro con Abraham Yehoshua:

Una grande voce che appartiene a tutti così come la cultura di un Paese appartiene a tutti», ha detto Ernesto Ferrero, dandogli la parola. E lo scrittore israeliano Abra- ham Yehoshua a chi dal pubblico gli domandava se boicottare la fiera era antisemitismo ha risposto: «Sono quarant’anni che mi batto per il riconoscimento della Palestina come Stato. Sono stato uno dei primi a firmare la petizione affinché il mio governo tratti con l’Olp e ora sostengo il dialogo con Hamas. Mi auguro che in futuro gli scrittori palestinesi vengano invitati alla Fiera del Libro. E io verrò a salutarli».
Distensione totale, mano tesa, invito a qualcosa oltre il semplice dialogo. Per il presidente della Fiera, Rolando Picchioni, non soltanto un discorso condivisibile, ma una strada già tracciata e percorsa con convinzione: «Abbiamo già da tempo parlato con i rappresentanti delle autorità palestinesi. La nostra intenzione è che l’Egitto, il prossimo anno, sia a capo di una cordata di Paesi arabi rivieraschi. Ospiteremo l’altra faccia della luna, con il confronto con gli israeliani». Che non c’è stato quest'anno: «Poteva già esserci oggi, si poteva creare qui un confronto anche duro, ma libero e onesto». Ha giocato la coincidenza con i sessant’anni di fondazione dello Stato? «E ha giocato chi ha voluto soffiare sul fuoco. Machiavelli diceva: se non si riesce a essere impeccabilmente buoni, almeno si sia onestamente cattivi».
Un elemento fortemente simbolico come quello dell’anniversario, dunque, ha soltanto ritardato l’incontro culturale fra le due facce di luna? Ernesto Ferrero ne è convinto ed è ottimista sul recupero del 2009: «Autori palestinesi erano già venuti negli anni scorsi. Li ha stoppati la ricorrenza, con ogni probabilità si aspettavano una celebrazione trionfalistica. Ma qui le cose erano diverse dalla Fiera di Parigi, dove ci fu il contatto diretto fra Sarkozy e Peres. Da noi il contatto era tra associazioni, autori, editori. Cultura e basta. Su quella realtà noi, se guardiamo a fondo, abbiamo una modesta infarinatura: qui si può imparare a conoscere attraverso il dialogo».
Già in marzo il direttore della Fiera aveva parlato con le autorità palestinesi: «Abbiamo spiegato che non si vuole offendere nessuno e loro hanno capito la ricerca di un dialogo schietto e tranquillo. Alla prossima edizione porteremo gli autori palestinesi, Grossman e Oz hanno già confermato che ci saranno. Hanno detto: speriamo di venire a festeggiare con loro lo Stato palestinese. D’altra parte chi in Israele insiste perché si dialoghi con Hamas? Gli scrittori». Però Ferrero sa leggere anche i limiti di comunicazione, non da pigrizia o incapacità, ma proprio da Storia: «Noi ragioniamo in base a come vediamo le cose, consapevoli della buona fede, della non contrapposizione, della non celebrazione, dei non festeggiamenti di un ministro della guerra. Ma dobbiamo sforzarci di capire la difficoltà degli altri, divisi anche in due fazioni, a leggere i nostri intenti. Siamo già da inizio anno al lavoro perché, superato l’ostacolo, la diffidenza verso i 60 anni di Israele, il 2009 diventi in questa sede quello che auspica Yehoshua».
«Ben vengano gli autori palestinesi», dice la giornalista Fiamma Nirenstein. «Io ci sarò a parlare con loro. Al contrario di loro. Il grande rifiuto dello Stato di Israele è cominciato quando è nato e dopo sessant’anni nulla è mutato. Per quel che vedo, la gente comincia ad apprezzare l’apertura di Israele. Se accettano un incontro qui sia il benvenuto».
E lo scrittore Vittorio Dan Segre non soltanto condivide quella speranza, vede un sentiero obbligato: «Sarà un piccolo passo per un dialogo inevitabile. Ci si deve convincere che lì si arriva volenti o no». E se venisse una chiusura del tipo noi non c’eravamo quando c’erano loro, loro di Israele non vengano quando ci siamo noi? «Non corriamo per favore. Gli scrittori palestinesi sono seri, responsabili, pronti a capire una manifestazione del genere».
E’ più severo con le polemiche dentro casa nostra, «che pure hanno fatto pubblicità a Israele e ai suoi amici. Ma annota: «Purtroppo c’è chi ritiene che essere noti nel bene e nel male è più importante che essere. Nel “De bello gallico” Cesare dice: gli dei accecano chi vogliono perdere».

Sulle dichiarazioni di Yehoshua integra l'articolo della STAMPA la cronaca del FOGLIO, che riporta l'allarme sull'Iran nucleare:

Roma. Aveva detto che non sarebbe andato al Salone del Libro. Troppo complicato essere a Torino e contemporaneamente a Roma, per la prima europea del “Viaggio alla fine del Millennio”, l’opera tratta dal suo romanzo, con musiche di Josef Bardanashvili, la regia di Omri Nitzan e diretta da uno dei responsabili dell’Opera di Tel Aviv, Asher Fish. Invece, vista la situazione, Abraham B. Yehoshua ha cambiato idea. Ieri mattina era al Lingotto e ieri sera al Teatro dell’Opera di Roma, per celebrare il sessantesimo anniversario dello stato di Israele. “Il presidente Napolitano ha insistito. Dovevo mostrarmi solidale contro il boicottaggio alla Fiera del Libro. Era una questione morale. E d’altra parte, una prima europea all’Opera di Roma è la prova divina dell’opera stessa” dice Yehoshua seduto nell’androne del teatro romano. Parla francese con calore mediterraneo, agitando le braccia con gesti ampi, mentre gli occhi sorridono dietro le lenti da miope. E’ un uomo felice, anche se pensa sia pericoloso ammetterlo per uno scrittore, “perché poi smette di scrivere”. Racconta del piacere e del dolore di seguire lo spettacolo parola per parola, e per un romanziere fluviale come lui, capace di passare dal cosmo di un mercante dell’anno Mille agli amplessi senza passione di una professoressa di Haifa, scrivere un libretto forse è una costrizione. “E’ la prima volta” risponde Yehoshua. “Ma io ho sempre frequentato l’opera, e in particolare quella italiana che amo moltissimo. Chi invecchia ha bisogno di provare forti emozioni e l’opera ne è un concentrato”. Il suo Viaggio affronta un tema universale come il ruolo della donna, la bigamia e la monogamia. “Racconta di come gli ebrei negoziano tra loro i codici morali” spiega Yehoshua pensando al ricco mercante bigamo e al nipote suo socio in affari, rigidamente monogamo, protagonisti del dramma. “Gli ebrei della diaspora vivevano per lo più in paesi islamici, solo il sette per cento in paesi cristiani, e ogni comunità era influenzata dai popoli fra i quali viveva, yemeniti, polacchi, egiziani. Come facevano a conservare la loro identità, senza un Papa, un principe che potesse imporre loro codici comuni? Dovevano negoziare liberamente i loro codici, convincersi a vicenda della moralità di una scelta. Oggi per noi ebrei è diverso. Viviamo sotto l’autorità dello stato ”. Il che non significa alcuna nostalgia per l’ebreo diasporico: “Non potrei mai” assicura lo scrittore. La diaspora ha portato a una catastrofe. Io voglio solo vivere in Israele da israeliano, come fa un italiano in Italia, coi propri codici, creando una realtà nazionale, che evolve. E voglio farlo sulla mia terra, coi miei compatrioti e gli altri componenti”. Yehoshua è nato 72 anni fa a Gerusalemme dove la sua famiglia viveva da cinque generazioni. Quando è nato lo stato di Israele era un ragazzo di 12 anni, e ricorda benissimo quei giorni. “Vivevamo in un rifugio, sotto i bombardamenti. Gerusalemme visse per un mese e mezzo l’assedio da parte dell’esercito giordano. Mio padre, che lavorava nei servizi di informazione, venne ferito”. Il padre era un orientalista. Classe 1905, scrisse libri di storia araba, e di folclore locale, a cavallo tra Otto e Novecento. Da vecchio, si cimentò pure con una storia di Gerusalemme, di cui il figlio oggi s’appresta a riesumare alcuni capitoli, per un’edizione a quattro mani destinata all’editore Einaudi. Ma quando parla della sua vita da bambino, ai tempi della guerra di indipendenza, ne ricorda tutta la durezza. “Piena guerra, fame, razionamenti. Ci voleva poco ai giordani per conquistare il quartiere ebraico di Gerusalemme e liquidarci del tutto. C’era un’assoluta sproporzione tra il piccolo esercito glorioso di 600 mila ebrei, e il milione e duecentomila palestinesi, tra Giordania, Siria, Egitto, Iraq. Combattemmo da soli e vincemmo”. Yehoshua è un laico, sposato a una psicanalista alla quale però non racconta i suoi sogni. Non crede in Dio, e nemmeno nella provvidenza, ma pensa che lo stato di Israele sia un miracolo del XX secolo. “All’inizio gli ebrei non volevano venire. Il progetto sionista apparteneva a un’esigua minoranza. E non venivano nemmeno dopo che Lord Balfour con la dichiarazione del 1917 ottenne un accordo internazionale per la creazione di un ‘focolare’ ebraico. Noi ebrei dunque non abbiamo colto l’occasione per creare uno stato ebraico prima dell’Olocausto. La principale responsabilità fu degli ebrei della diaspora. Il miracolo avvenne dopo l’Olocausto e la tragedia del genocidio, quando milioni di ebrei, un terzo dell’intero popolo, vennero uccisi come microbi non per motivi territoriali o economici, e scomparvero in condizioni tremende”. Di questa storia miracolosa e incomprensibile son pieni i libri di Yehoshua, a cominciare da quello che molti considerano il suo capolavoro, “Il Signor Mani”, dialogo inininterrotto tra sette generazioni che si rincorrono come ombre di una memoria lancinante. Yehoshua entra nella psiche di un medico d’inizio Novecento, scruta i tormenti del figlio bambino, orfano risentito e abbandonato a se stesso, risale ai tempi del patriarca, avanza in una fuga intemporale nell’identità che lega inesorabile i membri di una stessa famiglia, per scoprire il filo ininterrotto con le vicende di oggi, attraverso l’amore senza avvenire di un soldato in servizio nel Libano e l’orfana di un kibbutz. Racconta il passato e il presente, fatti insulsi e universali, passioni e tormenti, angosce e illusioni, come se avesse una conoscenza carnale del suo popolo; carnale come quella che ciascuno di noi, pur non avendoli mai conosciuti, può avere dei propri antenanti, ignoti, remoti eppure sempre vivi perché parte di una stessa famiglia che sopravvive al tempo. “I miei antenati” dice Yehoshua che come ogni romanziere ama ridurre il peso dell’autobiografia, “arrivarono all’inizio del XIX secolo da Salonicco, non l’antisemitismo, però”. A Salonicco non si sa quando fossero approdati. “Una parte degli ebrei di Salonicco venivano dalla Spagna. Al momento dell’espulsione nel 1492, erano duecentomila e si dispersero sulla rive del Mediterraneo. Venivano considerati un’élite ed essi stessi se ne facevano un vanto. Mio padre era un grande ammiratore della Spagna, danzava il flamenco, ma non so dire esattamente a quando risale l’arrivo della famiglia a Salonicco, forse a prima della distruzione del Secondo Tempio”. Di una cosa sola è sicuro Yehoshua, e non riguarda la genealogia, ma la politica: “Se invece di 5.000 ebrei ne fossero arrivati cinquecentomila, su una popolazione di due milioni di persone, si sarebbero potute creare le basi di uno stato nazionale prima dell’Olocausto. La mia famiglia aveva capito che questa era l’unica soluzione, ma la maggioranza all’epoca era cieca, non voleva capire. Non c’è da stupirsi, succede anche oggi. Che le colonie nei territori occupati fossero un errore fondamentale, l’avevamo capito trent’anni fa. Oggi finalmente l’ha riconosciuto anche la maggioranza. Lei mi dirà, come mai certi capiscono prima e altri dopo?”. E infatti, come mai? “E’ una questione morale” risponde Yehoshua. “Non è che siamo più saggi. Il sionismo disse all’ebreo: sei tu il responsabile del tuo destino, assumilo. In questo c’è una dimensione morale. L’ebreo sionista era uno che non voleva più essere l’appendice di un altro popolo, ma decidere in prima persona il proprio avvenire”. Ebreo, nato sabra e divenuto cittadino dello stato d’Israele, Yehoshua però non vuole sentire parlare di postsionismo. E quando uno accenna ai nuovi storici, ai Benny Morris, Tom Segev, che hanno smantellato molti dei miti fondatori dello stato di Israele ricostruendo il passato con gli occhi delle vittime, il romanziere non fa una piega. “Sono per la ricerca della verità. Se i nuovi storici trovano fatti veri benvengano. Bisogna sempre dire la verità. E la verità evolve. Vent’anni fa, per esempio, i francesi erano convinti di aver fatto tutti la Resistenza, poi hanno scoperto che c’erano stati anche i collaborazionisti. Se hai un’identità ferma e solida puoi sempre esaminare i tuoi errori, come il popolo ebraico in tema di rifugiati arabi”. Quanto al sionismo o al postsionismo, Yehoshua vorrebbe diminuire l’uso stesso del termine. “Il sionismo” spiega “è sbagliato considerarlo un’ideologia. Ha solo promesso uno stato che appartenesse a tutti gli ebrei. Il resto sono discussioni su problemi specifici, come la guerra, la religione, l’esercito. L’errore oggi è di appiccicare il termine a ogni cosa. Se uno si dichiara postsionista è favorevole ad abolire la legge del ritorno. Ma se vuoi abolire la legge del ritorno, vuoi annullare la stessa base morale dello stato di Israele. Nel 1948 le Nazioni Unite hanno deciso di creare uno stato ebraico su parte della Palestina. Gli ebrei erano favorevoli a due stati. Sono i palestinesi che dicevano noi siamo contro lo stato ebraico e lo distruggeremo. La creazione di Israele fu la risposta alla catastrofe della Seconda guerra mondiale. D’altra parte, la distruzione della Germania fu un effetto del folle antisemitismo di Hilter, della cattiveria prodotta dall’antisemitismo. In piena guerra fredda i due blocchi hanno deciso insieme di avviare la normalizzazione”. Oggi, certo, la prospettiva è ben più inquietante. “Se non risolviamo il problema” dice Yehoshua pensando ai proclami di Ahmadinejad, “rischiamo tutti di essere distrutti da un terrorismo atomico suicida, non solo noi , ma anche i palestinesi. Non credo nei miracoli, ma solo nel modo di vedere la storia, e oggi penso che l’unica soluzione stia nell’audacia, nel coraggio di arrivare alla pace. Noi dobbiamo vivere con gli arabi, non con l’islam, ma coi palestinesi che ci vivono accanto. Dobbiamo dividerci come due gemelli siamesi. Con loro si può arrivare alla pace. Hamas continua a sparare razzi, ma finirà per cedere. Del resto è stato il capo della Seconda intifada a riconoscere che hanno fallito, che non dovevano rompere gli accordi di Camp David tra Barack e Arafat”.

Il MANIFESTO è invece preoccupato di trarre partito dalla frase sul dialogo con Hamas

Forse sarà stata la prospettiva di confrontarsi con la generale riprovazione annunciata dalle dichiarazioni di chi, ormai da mesi, è schierato contro il boicottaggio, o forse sarà grazie a un tardivo stato di maturità raggiunto anche dai centri sociali, loro malgrado, dopo la batosta elettorale, fatto sta che mai inaugurazione della Fiera del libro fu al tempo stesso più affollata e più tranquilla: due sole bandiere sono penetrate nell'aula a anfiteatro che ospitava ieri mattina l'incontro con Abraham Yehoshua ma, lungi dal tentare di bruciarle, chi le portava ci si è avvolto dentro. In sala stampa, i cronisti mobilitati per rendere conto delle turbolenze annunciate si interrogavano un po' sgomenti sul come raccontare un fatto inesistente, e convenivano nel dire che la parola da spendere avrebbe dovuto essere «contestazione», vocabolo sufficientemente generico, aleatorio e adattabile da prestarsi a compiacere i caporedattori in agguato e restituire un minimo di visibilità a quei pochi che, animati dalla migliori intenzioni di manifestare la loro empatia con i palestinesi, si saranno sentiti un po' soli e persino un po' abbandonati. Anche a volersi spingere fin dentro il supposto occhio del ciclone, ovvero nello stand isareliano che si immaginava accerchiato da forze dell'ordine stremate nell'azione di contenimento dei riottosi, si temeva, almeno ieri, di avere sbagliato indirizzo: francamente disertato rispetto a altri luoghi di incontro, triste nella sua dominante di blu intervallato da pochi bianchi, il quartier generale del paese ospite appariva un luogo qualunque, con i suoi stand dove i libri, divisi per collane, sono stati disposti alternati ai vini, alle magliette, alle patacche d'antan e ai prodotti di bellezza provenienti Mar morto, evidentemente assai rivitalizzanti. Completato il giro di ricognizione, aguzzata la vista per scorgere eventuali vessilli impropriamente branditi, consumati i tacchi nella speranza di imbattersi in almeno un esemplare uno di focoso boicottante, non restava che mettersi in fila con le migliaia di studenti disordinatamente in attesa di buttarsi sulle gradinate della Sala dei Cinquecento, dove era annunciato Abraham Yehoshua. Qualunque cosa dicesse, dall'alto delle gradinate la vista coglieva una distesa di teste annuenti, ratificanti, compiaciute: dicevano tutte di sì prima ancora di lasciarlo terminare, mentre Elena Loewenthal e Alessandro Piperno lo affiancavano come due angeli protettori, alternando le loro domande. Come ci si sente a essere considerato uno scrittore modello quando si proviene da un contesto tutt'altro che esemplare? Che ruolo hanno, nella sua narrativa, le questioni morali? Come mai questa insistenza sulla intimità dei legami coniugali? «Intanto - rispondeva Yehoshua - non mi sento affatto uno scrittore modello, né sono un classico, o almeno non ancora, ma quel che è più certo è che laddove mi passasse un giorno per la testa di considerarmi tale, quel giorno mia moglie provvederebbe a riportarmi bruscamente con i piedi per terra. Di notte mi prende ancora l'ansia di sapere se quel che sto scrivendo ha senso o no, se va bene o va male, e insomma manca un bel po' alla mia strada verso la consacrazione a classico, e laddove di qui a cinquan'anni dovesse succedere, io non ci sarò più a godermela. Quanto alla questioni etiche, sono decenni che imposto i miei libri guardando al loro contenuto attraverso la lente della morale, è un'ottica che, tra l'altro, riserva molte soprese, e che non andrebbe abbandonata in favore della rincorsa a comprendere tutto, perché non tutte le motivazioni hanno ragione di essere assolutorie. Tra la descrizione psicologica dei personaggi e le loro istanze morali lo scrittore deve stabilire un equilibrio, sta qui il successo di un'opera letteraria. E per quel che riguarda la mia insistenza sui rapporti matrimoniali, a parte l'ovvia considerazione per cui forse proprio questo mio interesse è responsabile del successo in Italia dei miei libri, effettivamente considero la relazione coniugale specialmente emblematica della enigmaticità dei rapporti, perché non soggiace a alcuna imposizione, è il frutto di una scelta revocabile in ogni momento. Mi interessa, come si vede anche nell'ultimo mio romanzo Fuoco amico, quello che definirei il lavoro della coppia: se ho immaginato che il personaggio della moglie si separasse per una settimana dal marito per andarsene in Africa mentre lui restava a Tel Aviv, è proprio per indagare come reciprocamente si mettano in relazione nella distanza». In un'altra occasione, Yehoshua ha detto che l'allontanamento dei suoi due personaggi gli è servito per dare al romanzo una struttura al tempo stesso dialogante e ancorata al parallelismo dei due punti di vista: quello di lui, lasciato solo a occuparsi dei figli, dei nipoti, nonché dei problemi relativi a alcuni ascensori incautamente progettati, e insomma impegnato a tenere insieme la vita, e quello di lei che si provava a tenere a bada la morte, dopo che si era insinuata nella sua famiglia sotto forma di quel «fuoco amico» che aveva ammazzato il nipote, incidentalmente ucciso dai suoi stessi commilitoni. La domanda di rito sulla opportunità o meno di manifestare il proprio dissenso tramite il boicottaggio è arrivata puntuale dal pubblico, trovando Yehoshua preparato a rispondere come di prammatica, ovvero che il dialogo è l'unica forma nella quale trova legittimo esprimere ogni genere di riserva, e proprio perciò da anni va promuovendo scambi con i palestinesi e ora si adopera affinché siano avviati dialoghi costruttivi anche con Hamas. Rapidissimo, applauditissimo, ordinatissimo, l'incontro assolveva al suo ruolo di fiore all'occhiello di questa Fiera, altrimenti privata degli scrittori israeliani più frequentati dal nostro pubblico, e già l'areo del presidente della Repubblica reclamava la puntualità di Yehoshua, anche lui diretto a Roma dove ieri sera si è svolta la rappresentazione unica dell'opera tratta dal suo Viaggio alla fine del millennio, uno dei romanzi più fiabeschi e suggestivi della letteratura israeliana contemporanea.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «un modello e punto di riferimento per i leader di tutto il mondo». lo ha dichiarato l'ambasciatore israeliano a Roma, Gideon Meir.
La cronaca dal CORRIERE della SERA  

MILANO — La sua «presa di posizione netta contro ogni forma di antisemitismo e antisionismo» fa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «un modello e punto di riferimento per i leader di tutto il mondo». Lo ha detto ieri sera l'ambasciatore israeliano a Roma, Gideon Meir (nella foto),
presentando Viaggio alla fine del millennio,
adattamento lirico del romanzo di Yehoshua, al Teatro dell'Opera.
Introducendo la serata, l'ambasciatore ha ringraziato il presidente, seduto in prima fila: «La sua chiara posizione — ha detto Meir —, assunta insieme a tutti gli altri esponenti politici di maggioranza e opposizione contro i tentativi di delegittimare lo Stato ebraico, merita stima e ammirazione e fa di lei il modello e il punto di riferimento per i leader di tutto il mondo». Napolitano, ha aggiunto, viene indicato in Israele come «simbolo di giustizia naturale». Meir si è detto certo che a novembre, quando il capo dello Stato andrà in Israele, «sarà accolto a braccia aperte».
Napolitano, per parte sua, ha ripetuto che «l'Italia è fortemente impegnata a difendere il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza».

Le dichiarazioni di Aharon Appelfeld sul boicottaggio, da La REPUBBLICA (pagine di Torino):

Indisturbato nella fibrillazione che precede l´arrivo del presidente della Repubblica, il grande scrittore israeliano Aharon Appelfeld siede tranquillo in terza fila. Tranquillo e solitario come il più ordinario degli ospiti in attesa che la sala si riempia degli invitati. Il clima di questa Fiera è ottimo, dice «ma non sono un profeta e più di ogni altra cosa mi dispiace che le polemiche siano state alimentate anche da docenti universitari. Che dovrebbero restare super partes».
«Ne ho viste così tante nella mia vita», dice sospirando. E aggiunge: «Davvero non credo che, mai, si possa pensare di sapere cosa accadrà, o se potrà accadere qualcosa. Non so se questa fiera e questa festa della cultura sarà disturbata o meno da incidenti o problemi, ma diciamo che la paura è un sentimento che caratterizza gli anni quando si è più giovani. Man mano che si diventa vecchi si prova sempre meno paura e io adesso ho di sicuro meno timori di un tempo».
Protagonista della serata di apertura a Venaria con la sua prolusione che ha commosso la platea raccolta nella cappella di Sant´Uberto, uno dei dispiaceri più grandi di Appelfeld è la lingua: non conoscere l´italiano e non poterlo parlare: «Ma lo dirò in inglese. Sono innamorato degli italiani, che sono un po´ come noi, pieni di vita, allegri, creativi. E questa città la adoro. A Torino sono già stato, ma soltanto per una notte. Adesso avrò finalmente tempo per scoprirla. La prima cosa che farò è andare al Museo Egizio, a trovare Alain Elkann, che è un mio grande amico. E di questo sono davvero felice».
Boicottaggio? Che vuole dire questa parola? «preferisco pensare che sia un termine da abolire, anzi vorrei che non esistesse questo concetto». Assurda, questa polemica sull´invito ad Israele dice Appelfeld: «è davvero un peccato. E in particolare trovo assurdo che abbia coinvolto personaggi importanti della cultura e del mondo accademico. Non mi sarei aspettato che fra i promotori del boicottaggio ci fossero docenti dell´Università». Libertà di pensiero, certo «ma io credo che come gli scrittori anche gli accademici dovrebbero stare al di sopra».

Sempre dalle pagine torinesi di  REPUBBLICA un'intervista acritica a Dario Fo, che nega il diritto all'esistenza di Israele come stato ebraico (affermando falsamente che i cittadini arabi sono discriminati)

Avrebbe dovuto venire a parlare de L´apocalisse rimandata, il suo ultimo libro, pubblicato da Guanda. Ma le polemiche che hanno arroventato la Fiera del Libro, soprattutto quel volere tenere separate cultura e politica, da parte degli organizzatori, per spiegare le ragioni dell´invito a Israele, hanno indotto Dario Fo a cambiare il suo programma (l´incontro con lui si tiene oggi, alle 18, in Sala Gialla). Come ci spiega lo stesso premio Nobel della letteratura in questa intervista. «Verrò a parlare della Palestina e del conflitto con Israele, di quanto c´è dietro. Lo farò anche attraverso la lettura di alcuni brani di libri e di articoli. Leggerò, per esempio, il pezzo che una scrittrice israeliana ha letto al recente salone del libro di Parigi, e che ha provocato un dibattito che ha fatto scalpore».
C´è pure qualcosa di Nelson Mandela nel suo intervento. Di che si tratta?
«É un brano che leggerà mia moglie Franca (Franca Rame, ndr). È una bella lettera sull´apartheid in Israele e sul conflitto con i palestinesi che Mandela mandò al suo amico Thomas Friedman, un grande giornalista. Gli scrisse, tra le altre cose, che "dal momento che Israele è uno Stato ebraico, gli ebrei godono di diritti speciali di cui non godono i non ebrei". E gli disse poi che "i palestinesi non hanno posto nello Stato ebraico". Sono situazioni che Mandela visse in Sudafrica sulla sua pelle, scontando oltre vent´anni di carcere. Sono le regole che il dominante impone al dominato. Quindi, per favore, non raccontiamoci storie, non facciamo i furbi: il conflitto fra palestinesi e israeliani si risolve soltanto se si cancella l´idea di un popolo maggiore e di un popolo minore, e se ci sarà la volontà o meno di risolvere il problema del vivere insieme».
I promotori della Fiera di Torino sostengono che la presenza di Israele è di tipo culturale, e che non ha pertanto una valenza politica. Lei ci crede?
«No, non ci credo. Perché è falso affermare che c´è una divisione fra la cultura e la politica. Non esiste nessun autore di libri importanti che le abbia mai tenute separate. Pensiamo a Molière, a Goldoni, a Shakespeare. E a Shakespeare, a un certo punto, ordinarono di non scrivere più i drammi proprio per i loro contenuti politici, gli dissero di limitarsi solamente a comporre qualche testo lirico. Bisogna piantarla di sostenere questi argomenti. Ruzante comincia la sua prima orazione, quella al cardinale, con la descrizione di una battaglia, con un massacro, con tutto quel sangue, per poi entrare nel vivo del conflitto che sussiste fra la campagna e la città. E la guerra, del resto, è la condizione di vita da sessant´anni per palestinesi e israeliani, è così dall´inizio, da quando venne fondato lo Stato ebraico. Perciò non si può fare i furbi, non si possono ignorare queste cose. Ecco di cosa verrò a parlare a Torino».

E un articolo sull'ordine pubblico  e il volantinaggio davanti alla libreria Luxemburg:

Un sms chiama a raccolta: «Volantinaggio davanti alla libreria del sionista Pezzana. Fra pochi minuti...». Arrivano venti ragazzi del comitato Free Palestine con uno striscione. Sono le cinque di pomeriggio. Davanti alla libreria Luxemburg di via Accademia della Scienze anche la polizia si materializza con perfetta scelta di tempo. Il passaggio chiave del volantino: «Angelo Pezzana, con Picchioni e Ferrero, è il principale fautore dell´invito di Israele alla fiera del libro. Da anni è in prima fila nel sostenere guerre e politiche di aparthaid israeliane. Il sito curato dal signor Pezzana non è altro che un contenitore di intolleranza razzista nei confronti del palestinesi...». Pezzana non esce dal suo negozio, se non per andare al Salone del Libro a partecipare a un dibattito. Alle otto di sera dice: «So quello che hanno scritto su di me, ma la mia risposta è il silenzio. Nessun commento».
Giornata serena, alla fine. Nessuno scontro, nessuna tensione. Con i sostenitori di Israele che hanno sventolato le loro bandiere durante la visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con un esiguo avamposto del comitato Free Palestine che ha distribuito volantini dietro al Lingotto. E a proposito di volantini, ce ne sono alcuni sui muri intorno a Palazzo Nuovo all´attenzione della Digos. In un fotomontaggio, il presidente della Fondazione del Libro Rolando Picchioni, impugna una pistola. A fianco c´è scritto: «Ruffiano, faccendiere, tangentaro, democristiano, venditore di fumo, corruttore, corrotto, piduista (...), inquisito negli scandali dei petroli negli anni ‘70-´80, ha uno stipendio di 100 mila euro l´anno più una percentuale sulle sponsorizzazioni procurate...». La firma è quella di autonomia contropotere.
Gli autonomi di Askatasuna, i ragazzi del Colettivo Universitario autonomo e quelli del network antagonista torinese, stanno ultimando i preparativi per il corteo di sabato pomeriggio. Da corso Marconi a piazza Filzi, dove un imponente cordone di polizia li terrà a distanza di sicurezza: 250 metri in linea d´aria dall´ingresso del salone. Le adesioni sono molte, arrivano dai centri sociali di Milano, Genova, Livorno, Bologna, anche dal Gramigna di Padova. «Saranno circa 3 mila persone», secondo fonti di polizia. «Saremo almeno sei mila», secondo gli organizzatori. Di sicuro non ci saranno il presidente del consiglio Provinciale Sergio Vallero, il capogruppo dei Comunisti Italiani Luca Robotti e Antonio Ferrentino, leader del movimento No-Tav. Insieme ad altri hanno firmato una lettera in cui si legge: «La difesa de legittimo diritto del popolo palestinese ad aver una patria non può diventare un pretesto per iniziative meramente pubblicitarie».

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