Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Israele alla Fiera del libro: trentanovesima puntata rassegna di cronache
Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - Il Foglio Autore: Vera Schiavazzi - Concita De Gregorio - Susanna Nirenstein - mc Titolo: «Tensione a Torino. Tre indagati per i roghi - Kefiah, fotografi e scolaresche in fuga la tensione viaggia tra gli stand -IL MIRACOLO DELL´EBRAICO CHE RINASCE - Gli ebrei di Torino non temono il boicottaggio ma il nuovo antisemitismo»
Dal CORRIERE della SERA dell'8 maggio 2008, la cronaca di Vera Schiavazzi:
TORINO — Alla fine, tocca ad Aharon Appelfeld, 76 anni, uno dei più grandi scrittori d'Israele, pronunciare le parole magiche, quelle che richiamano alla pace dei cuori e al silenzio delle polemiche: «Il mio discorso ce l'avete già, voglio leggervene soltanto due pagine in ebraico, per farvi sentire la musica di questa lingua». Così, a sera, nella Reggia di Venaria dove si tiene un'elegante e tranquillissima cena di gala, l'emozione torna là dove dovrebbe essere: sulle parole, sulle lingue, sui libri e sulle culture. E cala un provvisorio «the end» su una vigilia tesa e corrucciata, nella quale la Digos di Torino ha denunciato per «vilipendio alla bandiera di uno Stato estero» alla Procura i tre giovani accusati di aver bruciato in piazza, il 1˚ maggio, le bandiere di Israele: sarebbero Ennio Donato, figlio di un giudice del Tribunale civile di Torino, Giorgio Rossetto e Gabriele Sandri, tutti e tre giovani esponenti di «Askatasuna », il più attivo tra i circoli dell'area antagonista torinese. Un fascicolo sul caso è stato aperto dal pubblico ministero Marcello Tatangelo, il magistrato che nei prossimi cinque giorni lavorerà a stretto contatto con le forze dell'ordine. Nella stessa giornata, studenti dei licei e dell'Università improvvisavano performance pro o contro la presenza di Israele alla XXI Fiera del Libro: davanti a Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche, e al vicino classico «Gioberti» si calavano dalle finestre bandiere palestinesi e si lanciavano fumogeni, il capo avvolto nelle kefiah nere e rosse, mentre i loro coetanei dell'Alfieri distribuivano volantini in piazza Castello in favore del dialogo e contro il boicottaggio. Alcuni ufficiali di Tzahal, l'esercito di Israele, hanno esplorato in lungo e il largo il Lingotto, dove questa mattina alle 10 le porte si apriranno al pubblico mentre il capo dello Stato Giorgio Napolitano arriverà nella Sala Gialla. Napolitano non pronuncerà un discorso ufficiale, ma ascolterà, insieme ad Abraham Yehoshua, quelli di Rolando Picchioni e Ernesto Ferrero, presidente e direttore della Fiera, della presidente della Regione Mercedes Bresso e dell'ambasciatore d'Israele Gideon Meir. Ma le sue parole potrebbero arrivare in apertura o in chiusura, o nel breve giro tra gli stand di editori e istituzioni. «Sarà una fiera ancora più bella delle altre e assolutamente normale », ha assicurato ieri mattina Ernesto Ferrero. E a sera, da Venaria, gli ha fatto eco Piero Fassino: «Il successo sarà ancora maggiore che negli anni precedenti ». Ciò non toglie che, in vista delle possibili contestazioni di questa mattina — quando gruppi di contestatori anti-israeliani tenteranno di distribuire volantini fuori dal Lingotto, mentre i sostenitori dello Stato di Gerusalemme esporranno bandiere con la stella di David nel cortile davanti alla Fiera — l'attenzione delle forze dell'ordine sia al massimo, con tiratori scelti, un imponente presidio di uomini all'esterno e un altro di agenti in borghese all'interno. Il resto è atteso per sabato, data fissata per la manifestazione nazionale di chi contesta la Fiera.
Da La REPUBBLICA, la cronaca di Concita De Gregorio:
TORINO - Diverse scolaresche hanno disdetto la gita. Sono poche decine, ma è un segnale. I professori e i genitori, specie quelli dei bambini più piccoli, hanno chiamato: volevano sapere di zona rossa e Mossad, di cordoni di sicurezza e pericolo G8. Magari veniamo l´anno prossimo, hanno detto. Qualche decina sui 27mila studenti accreditati in Fiera, duemila in più dell´anno scorso, ma quell´elenco di telefonate di prima mattina - «le famiglie ci hanno consigliato di lasciar perdere, è una responsabilità troppo grande» - hanno messo di pessimo umore Ernesto Ferrero, direttore editoriale del Salone. Ferrero gira fra gli operai e i falegnami, al lavoro tutta la notte perché tutto sia pronto entro le dieci di stamani, ora dell´inaugurazione e del solenne discorso di apertura di Napolitano in sala gialla, quella che qui tutti chiamano "la sala di Veltroni", la sala "I care". Tiene in mano il programma della Fiera: 120 pagine, quasi un libro, fitte di incontri presentazioni e dibattiti. «Come può constatare da sola sono tutti appuntamenti di grande interesse e rilievo. Purtroppo però siamo tutti schiavi della cultura mediatica, se quattro studenti srotolano una bandiera il titolo l´indomani è quello e pazienza se di là ci sono Appelfeld e Yehoshua, i ragazzi di undici culti diversi che parlano di minoranze, la musica multietnica e la Costituzione letta ai ragazzini. Io non ho ancora sentito, forte, la voce di qualcuno che dica che i libri si discutono anche aspramente, non si boicottano. Boicottare la cultura è un gesto violento, dispotico e sommamente stupido. Sono tutti lì a parlare dell´anniversario della nascita dello Stato di Israele come se questa fosse una celebrazione politica e nessuno dice che i costi di tutte le persone che saranno qui, scrittori relatori editori, li sostiene la Fiera. Che abbiamo scelto noi, liberamente, il programma. Che nessuno ci ha imposto una "lista di Stato". Che le voci arabe e palestinesi sono state invitate e hanno declinato, in molti casi. Li abbiamo chiamati e non sono voluti venire: d´altra parte le loro prese di posizione, quelle del mondo arabo e palestinese, sono tutte rivolte al fronte interno: non sono scelte libere, questo è il punto. Ho incontrato Oz e Grossman al Salone di Parigi, per questa edizione non potevano, saranno qui l´anno prossimo. Dei loro colleghi arabi hanno stima, si conoscono, vivono gomito a gomito, hanno spesso gli stessi editori. Alimentare lo scontro è demenziale. Una sciagura da professionisti del conflitto perpetuo. E comunque anche la sinistra di Free Palestine, quella che chiama al corteo di sabato mi pare che si muova in un ambito spaccato e intimidito dal clamore. Di cosa stiamo parlando: una rivendicazione politica? Certo, capisco che una certa sinistra dubitando della sua stessa esistenza abbia il problema di rendersi visibile. Anche coi fumogeni se necessario, tanto una telecamera che ti inquadra la trovi sempre. La colpa è di chi ci casca». Uno sfogo fluviale, una filippica. Mentre Ferrero parla e i falegnami martellano, cinque giovanissimi si avvolgono la testa con la kefiah e si fanno fotografare a pugno chiuso davanti alle porte di Palazzo Nuovo, all´Università. Ne arriva di corsa un altro, ora sono in sei. I fotografi trenta. Le telecamere otto. Un ragazzo col megafono invita alla massima mobilitazione per sabato: «Noi non siamo antisemiti come scrivono i giornali, siamo filopalestinesi». Scoppia una bomboletta di fumo blu, i cameraman impazziscono. Nei tavolini dei tre ristoranti di via Verdi tutti continuano a mangiare e i camerieri scherzano: attenti, la rivoluzione. Dall´ultimo piano della Facoltà due persone srotolano una grande bandiera palestinese: copre due finestre dell´ateneo. I fotografi cambiano obiettivo: è la foto del giorno. Prende il megafono una ragazzina coi ricci rossi: «Sono una studentessa ebrea - dice - ma chiedo che siano rispettati i diritti di tutte le minoranze». Fine della manifestazione, ai tavolini del bar siamo al caffè, i sei avvolti dalla kefiah si liberano la testa accendono una sigaretta e si siedono sui gradini al sole. Parecchio più teso è il clima allo stand di Israele, in Fiera. Ferrero racconta che l´iniziativa di invitare Israele come ospite d´onore è nata durante un incontro a Bose, la comunità di Enzo Bianchi, da un´idea di alcuni librai torinesi tra cui Angelo Pezzana, titolare della libreria Luxemburg. Pezzana è allo stand che sistema libri di Magdi Allam e Fiamma Nirenstein. «Io a quel nazista di Vattimo non rispondo. A me hanno buttato le molotov in libreria nell´88. Io sono una vittima. Non ne voglio più sapere. Non voglio vivere sotto scorta, non voglio che si faccia nemmeno il mio nome. Questo è fascismo, fascismo di sinistra. Sono qui a fare il volontario lasciatemi in pace». Maria Toller, co-fondatrice con Pezzana dell´Associazione Italia-Israele di Torino, dice che «anche il nazismo è arrivato al potere così, nella sottovalutazione generale, anche allora negli anni Venti c´erano dei gruppuscoli e poi guarda. Noi siamo l´aristocrazia del dolore e non ammettiamo aggressioni: tutte siamo state adultere, nei loro paesi saremmo lapidate». Napolitano si fermerà qui, stamani. Lo riceverà l´ambasciatore dello Stato di Israele. «Certo devo riconoscergli coraggio - si congeda la signora - non condivido le sue idee ma avrebbe avuto mille motivi per rinunciare, a partire dalla sicurezza». Tuttavia Salvatore Sanna, il vicequestore responsabile della sicurezza al Lingotto, ha vinto il suo braccio di ferro per il basso profilo: il capo dello Stato ha chiesto di passeggiare senza particolari protezioni tra gli stand, dalla sicurezza israeliana (qualcuno ha detto persino dal Mossad, Ferrero ride a crepapelle: «Non hanno il badge di riconoscimento, se ci sono non li abbiamo visti») veniva l´invito alla prudenza. In finale la tanto annunciata zona rossa non sarà altro che un camminamento protetto per il presidente della Repubblica, normale nelle visite di un capo di Stato. Per sabato semplicemente la questura farà in modo che il corteo non arrivi vicino al Lingotto. Luciano Segre, esponente di spicco della comunità:: «Noi ebrei siamo i primi ad avere il dovere della tolleranza, non dobbiamo cadere in provocazioni. A me quando Fini dice che è più grave bruciare una bandiera che uccidere un ragazzo mi si accappona la pelle: ho un concetto diverso del valore della vita». Claudia De Benedetti, presidente dell´Unione delle comunità ebraiche italiane, torinese di piazza Castello: «Forse il rettore doveva fare in modo che seminari sulla pulizia etnica si svolgessero in un altro momento. La coincidenza delle attività universitarie filopalestinesi con la Fiera non giova alla distensione. La nostra risposta sarà in Fiera, abbiamo uno stand. Rispondiamo coi libri ai fuochi in piazza. A Parigi al Salone ho visto uno spettacolo meraviglioso: i Campi Elisi tutti imbandierati di vessilli israeliani. Sono sicura che sarà così anche a Torino». Non così, non proprio. Ciascuno potrà esibire le bandiere che vuole ma i presìdi di bandiere biancoazzurre sono stati, per prudenza, banditi dagli ingressi alle sale. Nel primo pomeriggio Napolitano riparte, a Roma lo aspetta il giuramento del nuovo governo. Per il vecchio arriva Giovanna Melandri, presidente della consulta inter-religiosa: ha un dibattito alle tre e mezza. Entra al Lingotto ministro, esce deputata.
Sempre da REPUBBLICA, un'intervista di Susanna Nirenstein a Shulim Vogelman, sulla letteratura israeliana, aspetto ovviamente centrale nella Fiera, in parte dimenticato per le polemiche poltiche scatenate dagli intolleranti:
Una lingua nuova di zecca per una letteratura che in poco più di un secolo ha prodotto decine di autori di fama internazionale. Un miracolo: il sionismo ha fatto rivivere l´ebraico della Bibbia, l´ha rinnovato e gli scrittori israeliani sono stati alla testa di questo rinascimento che è l´ospite d´onore alla Fiera del libro di Torino. Un fenomeno unico di cui parliamo con Shulim Vogelmann, direttore editoriale della collana Israeliana all´interno della casa editrice Giuntina, la sola in Italia ad avere un catalogo dedicato alla produzione ebraica. Editori appassionati, attenti, capaci di intuire e pubblicare per primi narratori del calibro di Elie Wiesel, la Némirovsky e, per quel che riguarda Israele, Yehoshua, Appelfeld e molti altri. Allora Vogelmann, qual è il segreto di questo prodigio? «La letteratura israeliana ha in sé un grande paradosso: i primi a scrivere in ebraico lo fecero fuori dalla Palestina. Prendiamo Bialik, o piuttosto Brenner che solo in seguito andranno in Eretz Israel. Siamo nell´Est Europa, a fine Ottocento, e i primi sionisti, che parlano e compongono in yiddish, in russo, scelgono di passare all´ebraico come un primo passo verso la rinascita nazionale. Insomma, oltre ai pionieri, è la letteratura a prendere su di sé il compito di forgiare lo Stato che sarebbe nato». Tutta la cultura si fa nazionale prima della nascita di Israele: dal ´900 al ´48, prendono vita l´Accademia d´Arte, l´Università, la Filarmonica, il Teatro. «Sì, tuttavia, nonostante l´ansia di rinnovamento si prospetta una tematica che si ripresenterà anche molto più tardi, quella dell´esilio, della nostalgia per ciò che hanno lasciato. Da una parte descrivono con entusiasmo la nuova vita in Palestina, la costruzione, dall´altro si rendono conto di aver lasciato un mondo più ricco, l´Europa dalle radici profonde». Mi faccia un esempio. «Prendiamo Brenner, un racconto del 1911. Le leggo un passo: "I villaggi, ma quelli antichi, non i nostri; che hanno radici, per cui il sole è il loro sole, la pioggia è la loro pioggia, che non hanno 25 anni, i cui abitanti non sono degli esuli che hanno abbandonato il padre e la madre. Che tristezza"». Eppure sono carichi di speranza e di energia. «Certo. Nonostante non avessero ancora a disposizione tutte le parole per raccontare quella che era già modernità, la prospettiva di essere protagonisti del rinnovamento del proprio popolo, creando una nuova lingua, li esaltava. Si nutrivano di idealismo. Più tardi, la generazione nata in Palestina cambiò tutto. Lasciata da parte la nostalgia e lo struggimento, con il ´48 è il mito della fondazione dello Stato a prendere piede. Si passa al periodo epico sionista. Lo scrittore più famoso di questa ondata è senz´altro S. Yitzar, poco tradotto in Italia, ma comunque il più grande». Una letteratura ideologica, come quella del socialismo russo? «Qui è la gente, il sentimento popolare a dettare il tema. Lo Stato è appena nato, si sta educando e a questa educazione contribuiscono anche gli scrittori». Poi di nuovo c´è una svolta. «Arrivano i giovani che non hanno combattuto la guerra d´Indipendenza, vogliono rompere questa struttura monolitica della letteratura. E come spesso succede nei grandi cambiamenti culturali si ritrovano tutti nello stesso momento nel medesimo luogo, l´università di Gerusalemme: si affacciano Yehoshua, Oz, Kenaz, Yakov Shabtai. Pieni di ottimismo, convinti che l´epoca delle guerre e del pericolo esistenziale sia finito, mettono in atto una trasformazione che dice: basta col mito, con l´epos, passiamo a una scrittura realista, che approfondisca l´analisi psicologica dei personaggi, che sia prima di tutto intima, privata, al passo con le altre letterature contemporanee». Eppure ben presto si ritroveranno in mezzo alle guerre del ´67, del ´´73. «Queste due terribili guerre frantumano le sicurezze dello Stato. E parallelamente si frantuma anche il panorama letterario, e nelle brecce aperte dalla crisi trovano espressione i disagi, le incertezze, i traumi di Israele. La letteratura diventa più settoriale, c´è una nuova spinta a guardare l´altro, gli arabi. Ne nascerà il lavoro di Tammuz, e un po´ più in là L´amante di Yehoshua, anche se lo scrittore che più di tutti è riuscito a raccontare gli arabi in ebraico è Sami Michael, con Rifugio e Una tromba nello wadi». Appare anche la Shoah. «Un argomento restato un tabù a lungo in Israele che trova voce in numerosissimi autori tra cui Appelfeld, in Vedi alla voce amore di Grossman, nel poeta Pagis, Kaniuk e, della seconda generazione, Lizzie Doron. Ma la letteratura non si ferma a questo, guadagnano spazio il mondo sefardita, gli arabi israeliani (Anton Shammas e più tardi Sayed Kashua), la scrittura femminile (cito Savyon Liebrecht, Shifra Horn, Shulamit Hareven, Zeruya Shalev), il rapporto con l´ortodossia di Haym Be´er e Yehudit Rotem, i ricordi magici della fondazione con Meir Shalev. Torna anche la memoria della diaspora che il neonato Stato sionista aveva «imposto» di lasciare da parte. La maggior parte degli scrittori cerca consolazione nella ricerca delle radici: Sami Michael racconta la sua Bagdad, Oz la nonna in Germania, Appelfeld la sua infanzia». E questo ha un significato particolare? «L´anima ebraica ha tre dimensioni oggi: una nazionale, con Israele, una religiosa, legata alla tradizione, e una terza più universale e intima. Lo scrittore alla ricerca di un equilibrio passa da un mondo all´altro. Insomma, per quanto la si possa guardare come un fatto specifico, la letteratura israeliana è prima di tutto un capitolo della letteratura ebraica». A fronte di questo percorso, come si spiega però la stabilità del successo di scrittori come Oz e Yehoshua? «A differenza delle altre generazioni quella di Oz e Yehoshua ha vissuto tutto il viaggio di Israele, dalle prime speranze ai drammi di oggi. Una consapevolezza ereditata anche da Grossman. È questo a renderli speciali, oltre ad essere stati tra gli artefici del raffinarsi dell´ebraico che continuano tuttora a forgiare. Forse rispetto agli altri sanno vedere dentro l´anima del paese e raccontarla in un orizzonte più ampio. Senza tentazioni epiche però, perché, come abbiamo detto, questo è il loro imprinting». E i nuovi scrittori israeliani? «Molti rifuggono tutto ciò che è tradizione, legame con le radici, e al tempo stesso si tengono lontani dalle tematiche dei conflitti. Vedono Israele come un fazzoletto di terra, per di più provinciale, da cui vorrebbero solo andarsene, e questo vuoto di convinzioni produce un vuoto di sostanza». A chi pensa? «No, non voglio parlar male di nessuno. In questo panorama post-tutto vedo comunque autori capaci come Keret, o Orly Castel-Bloom che con i loro personaggi nervosi, distaccati e surreali, riescono ad esprimere bene il desiderio di fuga e la realtà paradossale di chi vive in Israele oggi, una società supermoderna stretta dalla minaccia del terrorismo e della guerra». Ci sono anche autori solidi tra chi è nato in mezzo al terrorismo. «Certo, Leshem, Eskol Nevo, Benny Barbash, Sara Shilo per citarne solo quattro. Scrittori sensibili e capaci che hanno rimesso in campo un forte rapporto con la realtà». Tiriamo delle conclusioni. Perché è una letteratura speciale, che viene letta così tanto oltre i propri confini? «Perché la precarietà che attanaglia in modo particolare le persone in Israele, è in fondo la stessa precarietà di tutti gli individui. Avvolti dall´incertezza del vivere, gli scrittori sono tuttavia capaci di trovare e di offrire gli appigli necessari a reagire: l´appartenenza collettiva, la famiglia, le radici culturali, la responsabilità individuale che in Israele è un caposaldo per tutti. E lo fanno con l´energia di una lingua potente e incisiva, con quell´energia che appartiene solo a una società giovane». Non cita mai l´amore. «Tra tutte queste guerre l´amore, il pensiero dell´amore, non è al primo posto. L´unica eccezione di rilievo è Grossman: una magnifica eccezione».
Dal FOGLIO:
Torino. “Non ci fanno paura, sono davvero quattro gatti, parlarne è come cedere alla loro ricerca di visibilità a tutti i costi”, dice con le mani impolverate lo scrittore ed editore Shulim Vogelmann, figlio di Daniel, fondatore e animatore della casa editrice Giuntina, mentre lavora per allestire il suo stand dentro a un Lingotto ancora sotto sopra: “Certo, sono cose che hanno poco senso, ma del resto sarebbe pia illusione voler piacere a tutti. L’importante è quello che facciamo noi, meglio lasciar perdere”. Lavora anche Angelo Pezzana, stipando libri di ogni editore e tendenza culturale nello stand ufficiale di Israele, paese ospite d’onore della Fiera del libro. Figura storica della cultura radicale e filoisraeliana torinese, nemmeno Pezzana ha un filo di paura né un dubbio sulla sacrosanta volontà di sventolare nella Torino della cultura la bandiera di Israele, che è l’unica democrazia del medio oriente, e “un paese dove il dissenso esiste, dove David Grossmann può non stringere la mano a Olmert, e venire premiato lo stesso”. Secondo Pezzana, però, qualche problemino in Italia c’è, e non è bene nasconderselo: c’è il problema di una continua disinformazione, che genera la menzogna sistematica attorno a Israele; non si può lasciare che in una delle maggiori università italiane, a Torino, si espongano cartelli che dicono il falso, mentre i suoi docenti parlano di una “pulizia etnica contro sette milioni di palestinesi”. E c’è un problema culturale della sinistra sinistra italiana, connivente con tutto questo. Il che qualche guaio lo genera, ed è quello che Pierluigi Battista ieri sul Corriere ha definito “il trattamento speciale” che viene riservato a Israele dalla cultura e (purtroppo) anche da certa politica italiana, e che mette “l’ospite d’onore” nella paradossale posizione di dover sempre giustificare il motivo e il diritto della sua presenza. “E’ sempre uno strano momento per essere ebrei”, come dice Michael Chabon nel suo “Sindacato dei poliziotti yiddish” che non per niente ironizza su fantomatici complotti sionisti attorno alla restituzione di una fantomatica terra promessa, che meno ospitale di così non si potrebbe immaginare. E’ il disturbo sottotraccia che accompagna gli ultimi preparativi della Fiera del libro, il rumore molesto che questa mattina il presidente Giorgio Napolitano si incaricherà di mettere a tacere con la sua presenza legittimante, voluta, più volte sottolineata nel suo significato. Fiera inaugurata ieri sera dalla lectio magisralis di Aharon Appelfeld, mentre in contemporanea la comunità ebraica torinese, fra le più importanti d’Italia, celebrava la festa di Yom Ha-Atzmaut, nell’anno in cui qui si festeggia anche l’anniversario dello Statuto Albertino, 1848, che riconobbe libera cittadinanza agli ebrei. E la comunità ebraica italiana non ha intenzione di farsi rovinare quella che considera innanzitutto una festa. Claudia De Benedetti, torinesissima consigliere nazionale dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, tiene a sottolineare proprio questo punto: “L’occasione di avere Israele ospite della città nel sessantesimo dell’indipendenza è stata vissuta con entusiasmo, non come rivendicazione, e lo testimoniano le molte persone che verranno a Torino da tutte le comunità d’Italia. E’ anche la dimostrazione di un rapporto profondo, che lega le generazioni nuove a Israele forse ancora più che le prime”. Non si faranno rovinare la festa da quella che appare a tutti una minoranza residuale anche all’interno della stessa sinistra. Quello che piuttosto preoccupa le comunità ebraiche, sottolinea De Benedetti, è invece di più il nuovo tipo di antisemitismo che tende a svilupparsi nelle nuove generazioni. Quello che Renato Mannheimer, ricorda la De Benedetti, ha illustrato proprio qualche giorno al Festival di cultura ebraica di Casale Monferrato, lo OyOyOy, altro fiore all’occhiello dell’ebraismo piemontese. Mannheimer ha distinto almeno tre tipi di antisemitismo, distinguendo quello “classico” da quello, crescente, spesso connesso al giudizio su Israele. “Ed è un antisemitismo che nasce proprio dalla mancanza di cultura e di conoscenza” sottolinea la De Benedetti, e va combattuto proprio con la cultura. Certo, il peso delle tensioni internazionali non può essere trascurato da nessuno. Per quanto ampiamente annunciato, il boicottaggio ufficializzato ieri da parte del governo iraniandel ministero della Cultura e dell’orientamento islamico, Ehsanollah Hojjati, è un segnale più grave degli sproloqui di Gianni Vattimo e delle bandiere bruciate (ieri la Digos torinese ha identificato tre dei bruciatori del primo maggio in piazza San Carlo). A bilanciare, sono venute le parole del presidente del Pontificio consiglio della Cultura, monsignor Gianfranco Ravasi, che ha paragonato il boicottaggio antisemita di Torino alla visita alla Sapienza impedita a Benedetto XVI: “Sono sempre contrario al fatto che non ci sia il desiderio di ascoltare un altro. Un vero dialogo può essere pure scontro, non deve essere per forza concordistico. Che ci sia Israele, che ci sia poi la letteratura palestinese, deve essere normale”, ha detto Ravasi, rompendo con ciò anche un certo silenzio, forse eccessivamente prudente, della chiesa italiana sull’intera vicenda. E va del resto notato, come sottolineano gli operatori editoriali, quanto sia poco credibile il boicottaggio anti Israele o addirittura antisemita da parte della cultura e dell’editoria italiane. L’Italia è viceversa uno dei paesi che traducono di più, e con più tempestività, la letteratura ebraica e israeliana. E’ un paese che traduceva e pubblicava letteratura yiddish negli anni Venti e persino nei Trenta, il paese cui Grossmann deve probabilmente il decollo della sua notorietà internazionale. Non si può dire se sia anche questo un “trattamento speciale”, ma meglio maneggiare con cura.