Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Israele 60 anni le testimonianze e le analisi di Ron Leshem, Yoram Kaniuk , Etgar Keret, R.A. Segre, Fiamma Nirenstein e Piera Prister
Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Giornale - Informazione Corretta Autore: Ron Leshem -Yoram Kaniuk - Davide Frattini - R.A.Segre - Fiamma Nirenstein - Piera Prister Titolo: «Israele paradiso e inferno - Io in una guerra folle per restituire il sogno ai superstiti della Shoah - Dal rapper all'ortodossia la mia famiglia allargata -Vi racconto il mio 48 - E il nemico peggiore resta la menzogna - Perché sosteniano Israele»
Da La STAMPA del 7 maggio 2008 un articolo di Ron Leshemsulla vita in Israele:
Israele è un istituto psichiatrico senza fine, con dei pessimi terapeuti e dei pazienti che fuggono ognuno dal proprio esilio, da una tragedia diversa. La maggior parte di noi ha perso, per sfinimento, la speranza in una qualunque soluzione: non si fa che aspettare, arresi, la prossima guerra. I pochi di noi che non sono ancora sprofondati nel pessimismo indifferente, soffrono peraltro di rosee visioni e credono in magiche, infantili soluzioni a questo triste stato delle cose. Il tutto, poi, avviene nel torrido clima del deserto, dove l'aria è immancabilmente carica, esplosiva, violenta. Verrebbe da dire che vivere qui è un inferno: può darsi. Ma la verità è che per chi scrive, per chi crea, questo è un paradiso. E' talmente un paradiso che comincio a pensare di esserne diventato dipendente: persino da turista, mi sento a mio agio solo in posti dove l'aria è così, sul punto di scoppiare. Ho pure scoperto che il mio senso dell'umorismo si attiva soltanto se racconto storie tremende. E che non sono capace di immaginarmi a vivere altrove. Tel Aviv è un posto strano. Gli autobus non possono viaggiare di sabato per ordine delle autorità religiose, ma le coppie omosessuali girano per strada mano nella mano a testa alta. Nei locali, gay palestinesi ed ebrei ballano insieme, al riparo dentro la bolla di pace dell'emarginazione, e abbiamo persino spedito il trans Coccinelle in eurovisione. La persona più eccentrica e atipica, quella più emarginata e socialmente respinta, arrivando a Tel Aviv si sente a casa come non mai. Si sente un re. Le spiagge dorate sono piene di persone gentili, affamate di contatto umano. Mentre sono sedute in un caffè alla moda, non pensano ai missili che ogni sera cascano a venti minuti di distanza da qui, da noi; non pensano alla sofferenza e alla povertà. Vanno piuttosto a manifestare contro qualche taglio d'alberi, o la chiusura di un cinema. Ma sullo stato delle cose hanno smesso di protestare. Per me la scrittura sta in due parole: toccare e convincere. In sostanza, più che per autoterapia, per l'immenso, intimo piacere che comporta l'atto in sé, io scrivo perché ambisco influenzare colui che vive qui con me, su questa nostra piccola terra, e condivide i miei stessi problemi. Costui abita proprio dietro la cinta del mio cortile, eppure noi due non abbiamo quasi mai un dialogo. Noi non siamo un unico popolo, siamo dodici scomposte e isolate tribù, diffidenti e intimorite a vicenda. Che si chiudono a riccio di fronte a colui che è diverso. E' a tutti costoro che io cerco di scrivere. Allora, cosa faccio per farmi ascoltare? Realismo magico. Entro nel triste teatro (che sia una guerra, la vita di una puttana dodicenne o qualunque altro fosco scenario), armato di una lente rosata che metto sopra la mia macchina fotografica. Se mi presentassi cupo o combattivo, non mi ascolterebbero. Solo la lente rosea, solo quel poco di dolcezza carezzevole, di sentimentalismo e fragilità, solo tutto ciò induce il lettore a spogliarsi, a levarsi di dosso la propria pelle e starmi di fronte tutto nervi scoperti, perché solo quando è così, il contatto brucia davvero. Io del resto mi spoglio davanti a loro. Quando scrivo le loro voci, ebbene mi innamoro di loro, della ricerca in sé, e imparo, striscio sotto la loro pelle e mando in frantumi i pregiudizi sui quali sono stato educato. I nostri pregiudizi l'uno verso l'altro sono il blocco fondamentale che frena la pace. Per scrivere debbo camminare per questo scombinato paese, debbo amarlo fino alla follia, debbo sentire un sottofondo sonoro frastornante cui adeguare il mio ritmo cardiaco, e allora a volte succede la magia: mi vengono le lacrime agli occhi, per via del casino. E a forza di cercar di non scoppiare a piangere, scoppia fuori una storia. Nel mio romanzo Tredici soldati ho cercato di descrivere che cosa significa avere 18 anni in Israele, e che cosa può succedere a lasciare un gruppo di adolescenti in una sorta di isolamento nazionale infantile, in un territorio scollegato dalla società normale, una impossibile pentola a pressione senza nessun adulto responsabile, in un posto dove loro fondano una sorta di regno autonomo con una loro lingua, false credenze, regole, humour. Una minuscola gabbia di cemento in mezzo a quella giungla insidiosa che è un territorio nemico, insomma un test psicologico sui generis. La scenografia è la guerra, un concerto di suoni e voci e odori e sentimenti che esaspera caratteri e debolezze, istinti e paure. Nel processo di indagine che ha accompagnato la scrittura, ho scoperto che cinque anni dopo il loro ritorno dalla battaglia, molti di quei giovani dicono «ci hanno mandati a morire e basta», «è stato tutto inutile», ma al tempo stesso hanno nostalgia della guerra e ne parlano con un tono venato di malinconia romantica. Così, ho cercato di venirne a capo, di capire come si possa nutrire rimpianto per una cosa così spaventosa. Dove sta il segreto? Sono sempre stato un bambino timido, introverso, riflessivo. Non mi ficcavo mai in situazioni che presentassero il rischio di perdere il controllo: niente sbronze, escandescenze, dipendenze, mai nessuna situazione imbarazzante. Un bravo ragazzo, insomma. Non ho fatto il militare in un'unità da combattimento. Non ho mai calpestato il fango misto a neve del Libano. Non sono abbronzato e nemmeno nero. Non sono morto di paura sotto i missili. Non ho mai provato la vera solidarietà dei combattenti. Non ho mai parlato così sboccato. Coloro che combattevano al fronte erano diversi da me. Per lo più venivano da famiglie povere, deboli, di periferia, o erano nuovi immigrati ansiosi di un biglietto d'ingresso nella società israeliana. Ansiosi di sentirsi parte, di rendersi utili, importanti. Nei primi decenni dello stato d'Israele eravamo fieri del fatto che Tzahal fosse l'esercito di tutti, che tutti i cittadini facessero il servizio militare allo stesso modo, prendendo parte alla guerra per la difesa e la sopravvivenza. Nell'ultimo decennio tutto ciò l'abbiamo perso: il 35% dei ragazzi nati negli anni Ottanta non fa il servizio militare a dispetto della sua obbligatorietà. Partono i più deboli. Io e le persone come me li mandiamo laggiù a morire per noi, senza farci sempre abbastanza domande, mentre li vediamo partire. Ammetto, con molto dolore, che non mi era mai passato per la testa di sbirciare nelle loro vite, di cercar di capire le piccole pornografie private di una quotidianità dentro una postazione militare a rischio, un rifugio soffocante. Non mi ero mai posto delle domande, sinché non le ho incontrate per caso, senza alcuna intenzione. Allora ho capito quanto non capisco e non so. Solo allora, me la sono presa con me stesso e ho cominciato a indagare. E ho scritto.
Dal CORRIERE della SERA, un articolo di Yoram Kaniuk
L ev deve partire per il militare. Fra quindici anni e mezzo. Mamma Shira non vuole che indossi la divisa, papà Edgar crede sia un dovere verso la comunità. Ne discutono quando il piccolo dorme, ne discutono dopo averlo portato all'asilo, ne discutono adesso in un caffè di Tel Aviv, all'angolo tra le vie Jabotinsky e Diezengoff. La guerra di queste settimane a Gaza è lontana, quelle che potrebbero scoppiare in futuro troppo vicine. «Farò di tutto perché non imbracci un fucile. A diciotto anni, sono bambini con le armi», dice Shira. Suo padre Yonatan Geffen ha combattuto con le forze speciali, è il nipote di Moshe Dayan, si è trasformato nel simbolo del pacifismo israeliano. Suo fratello Aviv è la rockstar che ha portato sul palco l'obiezione di coscienza, le sue canzoni sono gli inni dei refusnik. «L'esercito per questo Paese non è lusso», dice Etgar. Suo padre Efraim è scampato all'Olocausto dopo aver vissuto due anni in una buca dove non ci si poteva alzare in piedi e ha militato nell'Irgun, il gruppo clandestino che non ammetteva compromessi territoriali con gli arabi. Etgar Keret e Shira Geffen. Scrittore e artista-attrice. Insieme dirigono film ( Meduse ha vinto la Camera d'Or a Cannes nel 2007), insieme raccontano le contraddizioni della loro famiglia e di quella allargata che è Israele. Etgar è accusato da destra di essere pro-palestinese, per la sinistra le sue storie sono troppo qualunquiste. «Provano ad appiccicarmi etichette, gli stessi adesivi con slogan politici che qui tutti mettono sull'auto». David Grossman ci ha composto una canzone per il gruppo Hadag Nahash, sono il simbolo dell'impegno, marchi fantasiosi di appartenenza. «Israele raggruppa tante subculture, in pochi metri quadrati. A Tel Aviv, c'era un bar per yuppie, che aveva nel cortile un mikveh, il bagno rituale per i religiosi. La sera quella zona diventava il regno dei travestiti». Sub-culture che trova riunite nella sua famiglia. Le snocciola come in un rap: «Mia sorella si chiama Dana, vuol dire giudice. Mio fratello Nimrod, colui che ha costruito la Torre di Babele, un ribelle. Mia sorella ha undici figli, è ultraortodossa, non legge i giornali. Mio fratello è di ultrasinistra, è stato un leader di Anarchici anti-Muro, si è trasferito in Thailandia perché qui non ce la faceva più. Mia sorella parla soprattutto yiddish. Mio fratello è sposato con una docente universitaria esperta in film pornografici». Lui e Shira amano Tel Aviv («non abbiamo ancora visto un'altra città al mondo dove vorremmo trasferirci»), vanno poco a Gerusalemme («solo da turisti»), spiegano che una delle ragioni per restare qui è poter creare in ebraico. «L'hanno scongelato dopo duemila anni — dice Etgar —, e hanno dovuto adattarlo ai tempi moderni. È come vedere Abramo con il piercing al naso che parla al telefonino. È una lingua insieme sacra e profana. Gli israeliani quando si salutano dicono: Tov Yalla Bye. Ebraico, arabo, inglese. Di nuovo: molte contraddizioni ». Shira vorrebbe che il piccolo Lev, cresciuto, andasse all'estero. Etgar vuole che Israele diventi un posto migliore per lui. «I miei genitori vivevano in un Paese che credevano fosse il loro e hanno rischiato di sparire nell'Olocausto ». Shira va assieme alle donne di Machsom Watch a monitorare il comportamento dei soldati israeliani ai check-point e ridopo la guerra dei Sei Giorni. «Un uomo porta suo figlio in cima a una collina, gli mostra i territori palestinesi e dice: "Spero che tutto questo un giorno non sarà tuo"». Etgar è convinto che i bambini ebrei debbano imparare l'arabo. «Israele è in mezzo al Medio Oriente. Non si può pensare di staccarla da qui e unirla all'Europa, sarebbe come indossare un abito tre pezzi per camminare in mezzo al deserto. Questa nazione deve diventare un punto di incontro, un passaggio tra le culture. Siamo un esperimento: se ce la facciamo qui, può funzionare nel resto del mondo».
Da Il GIORNALE, la testimonianza di R.A. Segre sulla guerra del 1948:
Nel marzo 1948, dopo sei anni di servizio nelle forze britanniche, partii dall’Italia per la Palestina rispondendo alla chiamata dell’Agenzia ebraica di arruolamento nell’erigendo esercito nazionale israeliano. Lo Stato non era ancora proclamato, ma dopo la decisione delle Nazioni Unite, nel novembre del 1947, di spartire la Palestina fra uno Stato arabo e uno ebraico, il ritorno della sovranità ebraica sulla scena internazionale appariva inevitabile. Un volo della società aerea olandese, l’unica a mantenere contatti con la Palestina, mi depositò all’aeroporto di Lidda, vuoto e oscurato a causa della guerriglia araba, con due autoblindo inglesi schierate all’uscita per finta protezione. Infatti fu un camion, sui cui lati avevano applicato lastre protettive di acciaio, a portarmi a Tel Aviv con quattro altri passeggeri e due coppie di giovani in calzoncini corti. Appena il veicolo si mosse, questi estrassero dai ripostigli le mitragliette sbirciando un nemico invisibile attraverso i finestrini trasformati in feritoie. Nei giorni successivi mi registrai nel nuovo esercito, ricevetti un numero di matricola, incominciai a contattare le nuove autorità militari per proporre la creazione di una unità paracadutista, senza ricevere né risposte, né ordini di servizio. In Israele regnava la più totale confusione burocratica. I caffè lungo la spiaggia di Tel Aviv erano frequentati da strani personaggi autonominatisi esperti in ogni sorta di specialità bellica, economica, politica e ideologica. Giornalisti da ogni parte del mondo erano venuti ad assistere allo scontro fra una comunità di 600mila anime, mal armata, ancora senza esercito regolare, e 60 milioni di arabi decisi a impegnarsi, a partire dal 15 maggio, giorno della fine del mandato britannico, nella «guerra di distruzione dell’entità sionista». Il segretario della Lega Araba la prevedeva rapida e più «barbara», per i sionisti, di quella di Gengis Khan. In quelle circostanze, solo io non avevo una divisa. Grazie al comandante della polizia militare, mio collega nell’esercito britannico, scoprii la ragione di questa mia forzata vacanza. Avevo servito in una unità di intelligence inglese incaricata di recuperare, dietro le linee tedesche, militari alleati liberati in Italia dai campi di prigionia dopo l’armistizio dell’8 settembre. In quella unità c’erano volontari ebrei palestinesi noti per la loro affiliazione a due organizzazioni clandestine quanto mai sospette al governo provvisorio ebraico: l’Ezel, braccio armato del movimento guidato da Menahem Begin (che Ben Gurion chiamava fascista), e il Lehi (combattenti per la Libertà di Israele), ancora più radicale dell’Ezel nei confronti dei laburisti che consideravano collaboratori con l’occupante inglese. Ero considerato troppo legato a loro per affidarmi un incarico che ottenni in seguito quando fui inviato in Cecoslovacchia per creare la scuola paracadutista. Non avendo nulla di meglio da fare, mi proposi come esperto di equitazione al proprietario dell’unica scuderia privata di Tel Aviv: era un personaggio leggendario di nome Gordon, proprietario di un maneggio frequentato, in mancanza di uomini, da donne ugualmente attratte dai cavalli e dal loro proprietario. Manteneva molte amicizie con personaggi arabi per cui mi chiese di accompagnare a cavallo un «esperto» militare presso un suo amico possidente terriero arabo, a una ventina di chilometri a nord di Tel Aviv. Era una proposta pericolosa ma romantica. La sera dell’11 maggio arrivammo a casa di un signorotto arabo (in seguito trovato nei suoi campi con la gola tagliata: punizione tradizionale inflitta ai collaboratori). Il mio compagno parlava perfettamente l’arabo. Si chiamava Eliahu Navi, meglio conosciuto nell’etere radiofonico medio-orientale come Daud el Natur, un «cantastorie» che usava racconti beduini come strumento di guerra psicologica. In seguito sarebbe diventato avvocato, giudice e poi sindaco di Ber Sheva, il capoluogo del Negev. Passammo la notte in casa del nostro ospite, loro due confabulando in arabo, io gustando il cibo che mi aveva offerto. L’indomani ci venne consigliato di andarcene perché nella zona era stata segnalata la presenza di guerriglieri arabi. Ci trasferimmo in una torretta di guardia nel mezzo di un vasto aranceto per trascorrere la notte fra il 13 e il 14 maggio. In un libro di memorie che Eliahu Navi pubblicò nel 1998 e di cui mi fece dono, egli afferma che più volte «pensò di farmi fuori» credendomi una spia. Cambiò idea quando al mattino mi vide pregare avvolto nello scialle tradizionale di preghiera. Convinto che non fossi un elemento pericoloso, ma solo un avventuriero un po’ matto venuto come tanti altri «a vedere la guerra», se ne tornò a Tel Aviv con le informazioni raccolte lasciandomi col mio cavallo, un paio di bombe a mano e una radio militare «per seguire gli avvenimenti»... Venerdì 14 maggio era una giornata limpida e abbastanza fresca. Nel silenzioso pomeriggio, turbato solo dal cinguettio degli uccelli, dal fruscio degli alberi dell’aranceto, seguivo il corso del sole che si spegneva radioso nel mare non lontano sulla mia destra. Venti chilometri più a sud, prima che arrivasse l’inizio del sabato, nel piccolo museo di Tel Aviv, Ben Gurion lesse la dichiarazione di indipendenza che captai attraverso il gracidio irriverente della radio. Un aereo volò alto sulla mia testa. Mi venne poi detto che bombardò, senza colpirla, la stazione elettrica a nord della città. Io non sentii alcuna esplosione. Sentii però il bisogno di aggiungere alla preghiera della sera la benedizione richiesta quando si fa qualcosa di nuovo - come mangiare una primizia di stagione -. La recitai ad alta voce nel magico silenzio di quel giorno che stava morendo. «Benedetto Tu Signore Re del mondo che mi hai fatto vivere, sussistere, e giungere a questo giorno». La recitai pensando a coloro che a questo giorno avevano sperato per secoli di arrivare e a cui invece non erano mai potuti giungere.
L'analisi di Fiamma Nirenstein:
Israele compie sessant’anni: dopo la giornata del ricordo dei più di 22mila soldati caduti nelle guerre che dal 1948 non lasciano questa terra, cominciano stasera le celebrazioni di Yom Azmaut, il Giorno dell’indipendenza, che dureranno tutta la giornata di domani. E a sessant’anni, questo piccolo Stato non può sedere a riposarsi neppure un attimo: corre nello stadio della storia fra due ali di folla. Da una parte chi lo ama e lo difende, dall’altra chi lo odia e lo diffama. Ed è logico che ciò che appare una gran festa per chi ritiene la democrazia un bene supremo, diventi un motivo per digrignare i denti per chi invece la ritiene un artifizio che cela ingiustizie e crimini a fronte di un’utopia palingenetica. In Italia la divisione è evidente proprio oggi, giorno in cui festeggiamo la nascita e la resistenza della patria del Popolo ebraico contro la diffamazione e le aggressioni che hanno punteggiato la sua vita. Il suo primo successo è proprio la sopravvivenza. Nonostante le crescenti minacce, dell’Iran e di tutto il terrorismo islamista. Ma fra i nemici di Israele c’è anche una propaganda incessante e pervasiva che si sostanzia di una quantità inaudita di bugie che oggi sostituiscono una attendibile conoscenza dei fatti. La falsa conoscenza ispira purtroppo gli incendi delle bandiere e le vergognose bugie che si odono in queste ore all’Università di Torino nella conferenza che vuole contrastare la Fiera del Libro che si aprirà domani. Tutta la conferenza indetta non ha niente a che fare con la libertà accademica delle cui piume si pavoneggia, ma c’entra piuttosto con la mera politica dell’odio. Propone in tutte le salse il tema della «pulizia etnica» che Israele avrebbe compiuto nei confronti dei palestinesi: la tecnica è quella di usare un termine odioso, da pulizia etnica a apartheid, da olocausto a deportazioni, per appiccicarlo su Israele e farne quindi un paria indegno di vivere. Ma se si guarda dentro le etichette non si trovano altro che menzogne. La pulizia etnica non è mai stata nelle più lontane intenzioni della parte israeliana: semmai, l’intenzione di spazzare via il popolo ebraico è sotto gli occhi di tutti, ripetuta, scritta, filmata e stampata ogni giorno dai terroristi. Se gli israeliani avessero perpetrato una pulizia etnica sarebbero dei veri incompetenti. Prendiamo per esempio Gerusalemme. Dal ’67, quando Israele annesse Gerusalemme Est, la popolazione araba è cresciuta del 266%, il doppio rispetto alla popolazione ebraica, cosicché la proporzione fra ebrei e arabi è di 66 a 34, mentre nel ’67 era di 74 a 26. Anche durante l’Intifada, con la chiusura, il muro e quant’altro, è cresciuta da 208mila a 252mila. E non si tratta solo di crescita naturale: Ziad al Hamuri, che guida il centro per i diritti economici di Gerusalemme, stima che circa 30mila arabi si siano spostati a Gerusalemme dalla costruzione del recinto. Del resto, anche il noto storico revisionista Benny Morris scrisse che mai gli ebrei avevano avuto intenzione di spostare gli arabi dai loro villaggi e che furono invece invitati e costretti dai loro leader a farlo, e che sin dal ’48 i padri fondatori di Israele, da Jabotinsky a Ben Gurion, hanno insistito per far restare i palestinesi anche dopo la partizione. Chi ne vuole sapere di più può leggere l’articolo di Efraim Karsh sulla rivista americana Commentary di questo mese. Due mesi prima della proclamazione dello Stato nel settembre 1947, due rappresentanti di Israele cercavano di convincere Abdel Rahman Azzam, segretario generale della Lega Araba, che «sia gli arabi che gli israeliani beneficeranno grandemente di comuni politiche di sviluppo». Gli arabi aumentarono di numero soprattutto nelle aree urbane a causa del benessere e dello sviluppo del nuovo Stato, sospinti tuttavia allo scontro da leadership estremiste. È una bugia che la legittimità internazionale di Israele possa essere messa in discussione, perché, se fosse vero, data la legittimazione del focolare ebraico in Terra d’Israele nell’ambito della risistemazione del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero Ottomano e del colonialismo, tutti gli Stati Medio-Orientali andrebbero rifondati da capo. È falso che la guerra fra palestinesi e israeliani sia dovuta all’impossibilità di trovare una sistemazione territoriale di condivisione: Israele ha troppe volte dato prova di essere disponibile a lasciare territori in cambio di pace senza che questo portasse ad altro che a rifiuti ideologici carichi di sangue. È falso che esista un «ciclo della violenza» o cieche rappresaglie israeliane: Israele ha sempre risposto agli attacchi per fermare ulteriori attacchi terroristi, o altri attacchi missilistici per strada, o per punizioni puntuali e definite che, di nuovo, promettessero la diminuzione dell’aggressività del nemico contro i suoi civili.
È falso che il cosiddetto «muro» sia un «muro»: su una lunghezza di 790 chilometri, una volta completato, la lunghezza della parte in muratura che serve a evitare spari da edifici alti nella zona sulle macchine e i cittadini di passaggio, sarà di 30 chilometri. La maggior parte delle accuse a Israele sono diventate luoghi comuni che la gente non controlla, ma che beve insieme al caffè della mattina. Il recinto non stabilisce confine né annette nessuna terra; serve, come del resto i famigerati check point, a bloccare stragi di innocenti. E ha funzionato bene, dato che gli attentati sono diminuiti per il 98%. Non è vero che a Jenin ci sia stata una strage, non è vero che il bambino Mohammed al Dura sia stato ucciso dal fuoco israeliano, non è vero che i soldati uccidano bambini innocenti con premeditazione e se accade senza volerlo vengono sottoposti a dure inchieste. E non è vero che Israele abbia devastato il Libano. Sono stati gli hezbollah a devastarlo, così come è Hamas che affama i suoi a Gaza mentre Israele seguita a fornire derrate alimentari e benzina. Non è vero che Israele non rispetta le risoluzioni dell’Onu: aspetta solo di poter implementare quelle che stabiliscono che i territori debbano essere scambiati con condizioni di sicurezza. Israele non detiene prigionieri senza processo, non tortura, non impedisce alle organizzazioni internazionali di entrare nelle sue carceri, ed è quindi insensato paragonare la detenzione di criminali e terroristi a quella di Shalit, Eldad e Regev, i soldati nelle mani di Hamas e Hezbollah. Israele non reclude i palestinesi in cosiddette «prigioni a cielo aperto»: intanto sia i Territori che Gaza sono aperti verso 22 Stati arabi circostanti e oltre, inoltre il divieto d’accesso in Israele varia e si modifica a seconda della minaccia terrorista in atto. E la minaccia è grande, concreta e definitiva per tutti quei bambini che, come Kobi Mandel, 13 anni, sono stati massacrati. E quella maggiore sofferta dai bambini palestinesi è la spinta ideologica a morire, a diventare shahid, che proviene dalla società palestinese stessa... Soprattutto, la menzogna più grande è quella ontologica, basilare, sul presupposto che Israele sia un fatto negativo per il mondo, cattivo, generatore d’odio. Basta guardare i libri di testo delle scuole o la tv israeliana per capire che ne esce un messaggio di pace, mentre dalle tv e dai blog di palestinesi e fiancheggiatori non esce che odio e minaccia. C’è un solo modo in cui si può definire il loro atteggiamento: la ragione si è trasformata in torto, la verità in bugia, gli aggrediti in aggressori, definiti patrioti del popolo palestinese. Io penso che esso non abbia bisogno di loro, ma di una pace giusta che consegni due Stati a due popoli.
Un articolo di Piera Prister per Informazione Corretta:
Tutti credono che Israele sia un vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro, ma cinque mila anni di civilta' lo rendono imperituro ma intanto difendiamolo dai suoi nemici.
La sera del 4 maggio 2008, a Dallas si e' riunita l'AIPAC - American Israel Public Affairs Committee- a cui hanno partecipato 800 persone tra parlamentari, attivisti e studenti, tutti mobilitati per Israele e a fianco di Israele, in preparazione della riunione nazionale di giugno a Washington. Ospite d'onore Dore Gold, ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite e scrittore, il quale nel suo intervento ha parlato delle minacce alla sicurezza di Israele non solo da parte dell'Iran ma anche della Russia.
E' impressionante come la Russia che e' una debole ed evanescente democrazia, abbia un cosi' grande consenso ed Israele che invece e' un'avanzata democrazia, ne abbia cosi' poco. Eppure i due paesi sono diversi non tanto in base alla grandezza territoriale e alla ricchezza di materie prime, che e' evidente, ma soprattutto in base all'esercizio delle liberta' di cui godono i rispettivi cittadini. Tale esercizio e' grande in Israele ed e' davvero esiguo in Russia!
George Bush ebbe a dire dopo un incontro con Putin di qualche anno fa, che aveva visto nei suoi occhi un uomo "franco ed affidabile". Mentre invece cosi' gli aveva obiettato John McCain: " Io piuttosto vedo nei suoi occhi glaciali, il KGB". Il candidato repubblicano che ha tutte le carte in regola per la successione alla Casa Bianca ha ragione e sa, memore dei suoi lunghi ed atroci anni, passati in prigionia e sotto tortura in Vietnam,che ci si deve fidare poco di Putin, anche quando sorride e porta i doni " Et dona ferentes". Eppoile sue connessioni con il programma nucleare di Teheran sono ormai chiare e ci dovrebbero spaventare non poco.
In verita' Vladimir Putin cerca consensi e il riconoscimento internazionale che la Russia sia una democrazia, almeno cosi' vorrebbe farci credere. Ma non e' cosi'! In Russia non c'e' liberta' di parola e troppi giornalisti, una dozzina sono stati assassinati negli ultimi anni, fra cui Anna Politkovskaja e il russo-americano Paul Klebnikov, tutti giornalisti scomodi.
Le prigioni inoltre in Russia sono piene di dissidenti, come ai tempi dei gulag sovietici e le notizie che ci arrivano sono tutte denunce che evocano i tempi passati di "Arcipelago Gulag " di Solgenitzin, ed e' sintomatico l'appello di Garry Kasparov, campione di scacchi ed avversario politico di Putin che ha scritto il 26-27 aprile 2008 un articolo sul "The Wall Street Journal" dal titolo,"Russia's Pre-Olympic Nightmare"- L'incubo della Russia prima delle Olimpiadi- quelle invernali che si terranno nella citta' di Sochi nel 2014. Lo scacchista scrive che bisognera' aspettare molti anni prima che le democrazie occidentali si accorgano delle sofferenze del popolo russo, come sta accadendo adesso per i Tibetani in occasione dei giochi Olimpici di Pechino. Kasparov dice che la democrazia in Russia e' evanescente ede'notorio come le elezioni recenti di marzo, siano state manipolate dallo stesso Putin che subdolamente e fraudolentamente ha scelto il suo successore, Dimitry Medvedev, che le " ha vinte" , in barba alla legalita'.
Invece tutti i leaders del G8si sono congratulati con il nuovo eletto, hanno fatto finta di niente, non una critica, ne' una parola di dissenso. E' bastata per tutti una telefonata di complimenti ed auguriper assicurarsi affari dell'ordine di miliardi di dollari.
Israele e' invece una democrazia avanzata, dove c'e' il rispetto della volonta' popolare, dove non si chiude la bocca al dissenso e nelle cui prigioni non si seviziano i prigionieri che puntualmente sono visitati dalla Croce Rossa. Dove c'e' il rispetto dei diritti delle donne e degli omosessuali, dove alla Knesset siedono i deputati israeliani ebrei , cristiani e musulmani. E dove non si trucidano i giornalisti ! E' un vero e proprio modello di democrazia, forse perfettibile ma comunque da imitare!
E c'e' un motivo in piu' per amare Israele, per il suo popolo che costituisce il nerbo della nazione e che all'occorrenza sa rimboccarsi le maniche; infatti e' facile incontrare la', fra coloro che svolgono un'attivita' manuale, un violinista, un ballerino o un intellettuale come quel tassista che a Tel-Aviv teneva sul cruscotto un libro di filosofia, "Cosi' parlo' Zarathustra" pronto ad essere letto tra una pausa e l'altra mentre portava a destinazione i suoi passeggeri!
Eppure lo vogliono incenerire con tutti quei missili puntati e quelle centrifughe per l'arricchimento dell'uranio che continuano a funzionare in quella corsa pazza di Ahmadinejad alla costruzione della bomba nucleare, una corsa "senza freni e senza retromarcia". In tutto questo scenario non vorremmo che Israele fosse il solo vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro. "E non vorremmo arrivare troppo tardi come fu a conclusione della seconda guerra mondiale, dopo tutto quello sfacelo!" Cosi' ha detto Pete Sessions deputato repubblicano all' assemblea dell'AIPAC e chi e' amico di Israele non lo deve dimostrare solo a parole, ma con i fatti!
Gli amici di Israele non sono molti, sono di piu' gli amici venali e pilateschi di Putin e di Ahmadinejad come di tutti quei regimi dittatoriali e ricchi di petrolio, dove non c'e liberta', dove si affama il popolo e lo si riduce al silenzio.
Lunga vita ad Israele che rappresenta invece la forza della democrazia ed e' un esempio vivente di civilta'.Percio' lo salutiamo tutti e celebriamo con gran giubilo i suoi sessant'anni di vita!
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