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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Limes - L'Espresso Rassegna Stampa
01.05.2008 Terrorismo o resistenza ? E' questione di "punti di vista"
sostiene Lorenzo Trombetta

Testata:Limes - L'Espresso
Autore: Lorenzo Trombetta - Gianluca di Feo
Titolo: «Hezbollah c’è ma non si vede(va) - Caccia grossa sul mare di Beirut»
E' Hezbollah a minacciare Israele, o viceversa ? Le Shebaa sono territorio libanese occupato da Israele, come sostiene Hezbollah, oppure, come ammette persino l'Onu, non sono mai appartenute al paese del cedri ?
E' tutta questione di punti di vista, secondo Lorenzo Trombetta, che scrive un'analisi sulla situazione libanese su LIMES on-line, il 24 aprile 2008.
Quel che è certo, per il giornalista,  è che le regole di ingaggio di Unifil 2 non devono essere cambiate e che il riarmo di Hezbollah non deve essere bloccato.
Questo riarmo, scrive Trombetta in un passaggio incredibile dell'articolo

non è da considerarsi "terrorismo" per chi ha subito 22 anni di occupazione straniera (Israele è stata presente nel sud del Libano dal 1978) e per chi vede sorvolare ogni giorno sopra i propri cieli caccia nemici, gli stessi che hanno più volte causato la morte di innocenti

Una  giustificazione del terrorismo di Hezbollah, che falsifica la storia ( Israele ha occupato il Libano per difendersi dal terrorismo).

Ecco il testo:

La bandiera di Hezbollah sventola ancora ma è strappata a metà sulla torretta di controllo che per 18 anni è servita all'esercito israeliano in Libano.

L'eco del botta e risposta tra Berlusconi e Parisi sulle regole d'ingaggio dell'Unifil è arrivata anche in questo angolo di sud del Libano, in cima al castello di Beaufort, a pochi kilometri dal confine provvisorio con Israele, tra le pietre della storia.

Ancora vigile sulla stretta valle del fiume Litani, la rupe di Beaufort (Qalaat Sh'if o Qal'at Shaqif in arabo, fortificazione romana, crociata, del Saladino, templare, mamelucca, del Faccardino, ottomana, francese, palestinese, israeliana, di Hezbollah) è quasi deserta: solo tante erbacce, molte margherite e il ritmico rumore di un gancio metallico che sbatte, percosso dal vento, contro la scaletta arrugginita della torretta di controllo. Hezbollah c'è, ma non si vede. O quasi. Anche se la sua bandiera a Beaufort è consunta e strappata.

Sul fatto che i miliziani sciiti, armati e non, siano presenti anche nel sud del Libano, in particolare nell'area di responsabilità della Forza Onu (Unifil-2) schierata dal settembre 2006 tra la Linea Blu e il fiume Litani, nessuno aveva dubbi.

Né potrebbe essere altrimenti: la "resistenza islamica" fa parte del tessuto sociale del sud del Libano e la campagna militare israeliana dell'estate 2006 non ha affatto ridotto le capacità di Hezbollah di rispondere alle aggressioni israeliane (dal punto di vista del Partito di Dio) o di costituire minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico (dal punto di vista di Tel Aviv).

La risoluzione 1701 dell'agosto 2006, in forza della quale è stata creata la missione Unifil-2 (per distinguerla da quella nata nel 1978) e accettata dal governo libanese quando questo aveva ancora al suo interno dei ministri Hezbollah, parla chiaro: nell'area a responsabilità Unifil, non ci deve esser presenza di armi e di personale armato estraneo all'esercito libanese e all'Unifil stessa.

Ma Hezbollah è presente. L'Unifil come l'esercito libanese lo sanno bene. E allora, l'importante è che i miliziani sciiti o le loro armi non si manifestino. Quasi come il mahdi (il messia, il ben guidato) per gli sciiti: è in ghayba (assenza), ma tornerà. E non a caso lo slogan più diffuso su molti cartelloni pubblicitari di Hezbollah nel sud del Libano è proprio "torneremo!". Sullo sfondo la Cupola della Roccia di Gerusalemme.

Invisibili allora. Ma se, voglia il caso, "uomini armati non identificati" ("Uam", Unidentified Armed Men) venissero intercettati da una pattuglia Unifil, secondo quanto si può dedurre dalla cronaca di un anno e mezzo di missione e da quanto ufficiali della Forza Onu spiegano in via confidenziale, le regole d'ingaggio (mai rese pubbliche per ovvi motivi di sicurezza) prevedono che i caschi blu prendano posizione (sic!) e cerchino di identificare gli Uam, siano essi Hezbollah o barbuti "affiliati ad al-Qaida".

I caschi blu devono immediatamente segnalare la presenza di "sospetti" all'esercito libanese che, una volta giunto sul posto, può allora procedere all'eventuale fermo e/o sequestro di armi. Sempre che i sospetti stiano ad attendere pazienti l'arrivo della pattuglia libanese per essere arrestati.

Come ha riferito il 22 aprile scorso il generale Claudio Graziano, comandante in capo dell'Unifil, questo ipotetico scenario si è in parte realizzato alla fine di marzo e ha visto coinvolti proprio una pattuglia di caschi blu italiani.

Nella notte tra il 30 e il 31 marzo, i nostri militari in Libano hanno intercettato un veicolo "sospetto" e subito dopo hanno avuto un incontro ravvicinato con "elementi armati", o meglio, un "contatto", in cui hanno scrupolosamente applicato le regole di ingaggio previste dalle Nazioni Unite.

La ricostruzione fornita da Graziano è in sintesi la seguente: erano circa le 01:30 quando la pattuglia formata da due veicoli, con a bordo quattro soldati ognuno, ha intercettato un automezzo sospetto e ha fatto manovra per raggiungerlo.

All'improvviso "si è frapposta un'auto con a bordo elementi armati", ha raccontato il generale Graziano, aggiungendo che i militari "hanno preso posizione secondo le regole di ingaggio, ma gli elementi armati hanno dato modo a veicolo di dileguarsi" per poi a loro volta scomparire, ha detto il comandante in capo dell'Unifil.

Della vicenda aveva riferito, sempre il 22 aprile, anche il quotidiano israeliano Haaretz, affermando che il veicolo sospetto trasportava munizioni e che era scortato da guerriglieri Hezbollah, ma il generale ha sottolineato che nessuno è grado di dire cosa trasportasse e, quanto agli uomini che sono intervenuti, si è limitato a ribadire che si trattava di "elementi armati".

Rispondendo ad una domanda diretta sulla questione delle regole di ingaggio sollevata in Italia dal premier in pectore Silvio Berlusconi, il generale Graziano ha replicato affermando, "come generale delle Nazioni Unite", di non voler "commentare su problematiche interne, ma in ambito Onu non c'è stata una richiesta" per modificarle.

"Con l'attuale mandato e l'attuale situazione'', ha detto, "riteniamo che siano adeguate".

Le parole di Graziano offrono molti spunti. Prima di tutto mettono a tacere chi in Italia chiede la revisione delle regole d'ingaggio, addirittura chiamando in causa, come ha fatto di recente Berlusconi, le ipotetiche "richieste di nostri militari".

Già il 15 marzo scorso, da Cernobbio, Berlusconi aveva sollevato la questione delle regole d'ingaggio "perché non è possibile che i nostri soldati stiano a guardare ogni giorno, senza poter far nulla, traffici di armi da una parte all'altra".

Il messaggio che Berlusconi (o chi attraverso di lui) vuole far arrivare all'opinione pubblica italiana è chiaro: Hezbollah si riarma, l'Unifil non fa abbastanza, Israele è minacciata, ogni manovra militare israeliana o futura operazione bellica è quindi giustificata contro i terroristi.

Nessuno ovviamente in Italia s'è sentito di protestare o di esprimere preoccupazione quando i primi di aprile Israele ha organizzato un'esercitazione militare in grande stile, che ha destato non poche apprensioni in Libano, in particolare al Partito di Dio.

E' normale - avranno pensato molti italiani - che un esercito nazionale si muova nel territorio del suo Stato sovrano. Ma quel che in Italia viene descritto come la naturale esigenza israeliana di difendersi, in Libano, dove l'ultima guerra di Israele si è abbattuta solo un anno e mezzo fa, tutto ciò è percepito come una chiara minaccia.

Il punto di vista di Hezbollah, per altro condiviso anche da una buona parte dell'opinione pubblica libanese (la stessa sostenuta dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti quando si tratta di premere sulla Siria in nome del "rispetto dei diritti umani"), è invece il seguente: l'Unifil è uno strumento che di fatto agisce in favore di Israele, perché limita le capacità di movimento della "resistenza" (per Hezbollah, Israele non si è ritirato del tutto dal sud del Libano nel 2000, ma occupa ancora una porzione di territorio al confine con la Siria: le fattorie di Shebaa. Da qui, anche l'esigenza di "continuare a resistere all'occupazione").

Non a caso, la pattuglia dei nostri caschi blu s'è imbattuta negli "Uam", forse Hezbollah, proprio durante la notte. Visto che la 1701 chiede che non vi siano armi e visto che Unifil ed esercito libanese agiscono solo in caso di flagrante violazione, i miliziani sciiti da un anno e mezzo lavorano clandestinamente.

Secondo quanto riportato in più occasioni dalla stampa libanese e confermato in via confidenziale anche da ufficiali Unifil, gli uomini di Hezbollah scavano tunnel, preparano bunker, riallestiscono rampe di lancio di razzi all'interno di abitazioni apparentemente destinate ad uso civile. Il tutto non solo a nord del Litani, fuori dunque dall'area di responsabilità della forza Onu, ma anche a sud e persino a ridosso della Linea Blu.

Questo riarmo non è da considerarsi "terrorismo" per chi ha subito 22 anni di occupazione straniera (Israele è stata presente nel sud del Libano dal 1978) e per chi vede sorvolare ogni giorno sopra i propri cieli caccia nemici, gli stessi che hanno più volte causato la morte di innocenti. Al sud, quasi ogni famiglia può vantare "un martire" tra le sue fila.

Perché - si chiede retoricamente un alto responsabile del Partito di Dio che preferisce non esser citato - Israele può compiere le sue manovre militari a ridosso della Linea Blu alla luce del sole e noi dobbiamo nasconderci mentre esercitiamo il naturale diritto di resistenza?

Altri libanesi, contrari alle interferenze iraniane nel Paese, contestano Hezbollah proprio su questo punto: "Esiste l'esercito libanese per proteggere il Libano dalla minaccia israeliana", affermano da tempo rappresentanti della maggioranza parlamentare, sostenuta in funzione anti-Teheran e anti-Damasco anche dagli Stati Uniti. "La resistenza - per quest'altra voce del Libano - deve essere nazionale e non appaltata da una singola formazione, che per di più - sostengono - si arroga il diritto di rappresentare l'intera comunità sciita libanese".

Le parole di Berlusconi e le diverse percezioni libanesi e israeliane rimbombano nella torretta di Beaufort, da dove si scorge in lontananza, verso sud-est, il ridente e superprotetto insediamento israeliano di Metulla.

Sulla punta del "Dito della Galilea", i meleti e i tetti rossi delle casette costruite a semicerchio sulla collina attorno alle antenne di controllo di Metulla, ricordano a Hezbollah e a molti libanesi che la minaccia è sempre presente. E che l'Unifil, prima o poi, si troverà in mezzo ad una nuova bufera.

Se Trombetta ammette che Unifil 2 non blocca il riarmo di Hezbollah, e sostiene che va bene così, Gianluca di Feo, su L'ESPRESSO del 1 maggio 2008 sostiene invece che il pattugliamento navale al largo delle coste libanese è un garnde successo. E celebra la fine, per il libanesi, del "terrore per le navi (israeliane) all'orizzonte".
 Quando anche gli israeliani potranno essere al sicuro dai razzi di Hezbollah ?



Nella foschia di una primavera incerta le ombre si trasformano in sagome lentamente. Provengono dai quattro punti cardinali e poco alla volta assumono il profilo inconfondibile delle navi da guerra, sfilando a poche miglia da Beirut. Una dietro l'altra, si mettono in formazione: 12 unità da combattimento con cannoni, missili, batterie contraeree e torri radar. Una flotta potente, mai vista prima d'ora nella storia. Perché questa è la prima flotta delle Nazioni Unite, creata per riportare la pace nelle acque più tormentate del pianeta: quelle davanti al Libano, dove negli ultimi quarant'anni si sono dati battaglia caccia israeliani e motoscafi palestinesi, trafficanti d'armi e corazzate americane, pescherecci spia sovietici e torpediniere arabe. Poi il miracolo: da 18 mesi quell'angolo di Mediterraneo è diventato il più sicuro del mondo.

Notte e giorno, navi ed elicotteri della squadra delle Nazioni Unite setacciano questo quadrante lungo circa 200 chilometri e largo 70, controllando ogni movimento nella massima imparzialità: 'Impartial behaviour' è anche il nome della missione. Che prevede di bloccare qualunque traffico e ripristinare anche in mare la sovranità del governo libanese, tenendo alla larga israeliani, siriani e ogni potenza non gradita alle autorità di Beirut: se necessario, anche gli americani. Una rivoluzione, anzi una doppia rivoluzione perché affianca alla bandiera azzurra dell'Onu quella blu dell'Unione europea. La spedizione ha infatti altre due novità, che possono segnare una svolta nelle relazioni internazionali. La prima è che si tratta di una flotta tutta europea: ci sono italiani, francesi, tedeschi, greci, danesi, turchi. Ma non è semplicemente una formazione composta da navi del Vecchio Continente: questa è la prima grande prova di un organismo militare dell'Unione europea, una task force chiamata Euromarfor. Insomma, un'utopia che si realizza: quella dell'Europa come potenza militare, capace così di imporre un'azione diplomatica autonoma in accordo con l'Onu. Con un'altra notizia, positiva e impegnativa: la terza bandiera sull'albero delle navi che comandano questa missione è il tricolore.

Al vertice della flotta europea c'è il contrammiraglio Ruggiero Di Biase, che a fine febbraio dalla fregata Espero ha preso il controllo dell'operazione. È il riconoscimento del ruolo dell'Italia, che nel settembre 2006 con la mediazione di Massimo D'Alema e l'intervento della Marina ha convinto Israele a rinunciare al blocco che stava soffocando il Libano. Un segnale di fiducia nella nostra capacità di intercettare i traffici che alimentano le fazioni armate. Nella sala comando dell'Espero c'è uno schermo che controlla il mare tra Cipro e la costa dei Cedri, sorvegliato da una enorme cupola elettronica: tutti i radar delle navi Onu sono collegati in rete e si scambiano le informazioni in tempo reale. Così le antenne delle quattro fregate e degli otto pattugliatori compongono un'unica, gigantesca mappa, che pullula di tracce. Ogni eco radar viene identificata con colori diversi a seconda del sospetto. I mercantili azzurri sono quelli che appaiono tranquilli, quelli rossi invece meritano un approfondimento. Possono essere navi di paesi 'vicini' ai protagonisti del conflitto. O altre con identità dubbia: il nome, l'armatore o il porto di provenienza non coincidono con quelli inseriti nella banca dati. Se dopo le prime analisi l'allarme rosso rimane, allora tocca all'elicottero. Pochi minuti e si decolla. A bordo dell'Agusta Bell 212 si vola letteralmente sfiorando le onde, per sorprendere l'obiettivo. Un visore all'infrarosso inquadra e ingrandisce lo scafo anche a grande distanza, con qualunque condizione meteo: scruta le scritte e la struttura. Poi l'Agusta gira intorno allo scafo: i piloti lo studiano da vicino, cercando di cogliere le reazioni dell'equipaggio. Se il dubbio non viene sciolto, l'ammiraglio ordina 'l'abbordaggio'.

Tutte le unità dell'Onu hanno squadre speciali pronte a intervenire, calandosi dall'elicottero o saltando dai motoscafi. Sull'Espero e sul Comandante Diciotti, le due navi italiane, ci sono team di otto uomini del San Marco per le incursioni: si riconoscono subito perché indossano sempre la tuta mimetica. Le regole del Palazzo di Vetro lasciano però alle forze libanesi il compito dell'ispezione. I loro nuclei d'assalto sono stati addestrati da francesi e italiani. "Sono determinati e motivati: non perdono occasione per darsi da fare", commenta l'ammiraglio Di Biase. Dal momento in cui il mercantile è entrato negli schermi radar è passata meno di un'ora: la radio conferma che i commandos libanesi sono a bordo. Setacciano documenti e stiva ma non trovano nulla. Perché la ragnatela della flotta Onu è un deterrente che spinge i trafficanti a non tentare azzardi: nel primo mese di comando italiano, per esempio, sono stati 'interrogati' 979 mercantili. E dal 2006 i rapporti dell'intelligence segnalano un'unica presunta violazione: una partita di armi arrivate alle milizie cristiano maronite, sbarcate da un peschereccio in un porto del nord. Un'inezia rispetto al passato. Anche perché nessuno può scommettere su un'ispezione 'addomesticata'. Come spiega l'ufficiale libanese di collegamento imbarcato sull'Espero, la marina di Beirut rispecchia la composizione del Paese: ci sono sciiti, sunniti e cristiani a garanzia di imparzialità. Uno dei compiti fondamentali della flotta Onu è proprio quello di rendere autonomi i libanesi: è stata creata una rete radar e sono state rimesse in sesto le poche motovedette della loro flotta. "Per carità, non vogliamo farli diventare una forza da combattimento, ma migliorare l'attività di polizia", spiega Di Biase.

Gli israeliani non accetterebbero mai la presenza di una vera forza armata. Quello presidiato dall'Onu, fino al 2006 era un mare loro. Oggi ne mantengono una fettina: anche in acqua c'è un confine conteso, un triangolo di Mediterraneo disputato tra le nazioni. Poche miglia, segnalate con una linea di boe. Una nave lanciamissili israeliana è proprio lì, a fare da sentinella. Qualche chilometro più in su c'è il Diciotti, affidato al comandante Fabio Farina, che la 'marca a uomo'. È la più moderna delle unità italiane: un pattugliatore agilissimo, che si pilota con una specie di joystick. A ridosso dei confini, gli spazi ristretti impongono manovre delicate. Lo stesso che accade al nord, sulla frontiera siriana dove vigilano pattuglie di scafi turchi e greci, antichi rivali uniti sotto la bandiera azzurra.

Gli incidenti sono rari. E quasi tutti tecnologici: prove di guerra elettronica, duelli di impulsi e frequenze. Non a caso Di Biase è un esperto del settore. E lo affianca il capitano dell'Espero, Nicola Ricciardi, che a 39 anni vanta un curriculum di ingegnere, pilota e navigatore: è stato persino tra i progettisti del futuro super-aereo F-35. Le provocazioni avvengono usando i sistemi di guida delle armi: ad occhio nudo nessuno può accorgersene. I siriani, per esempio, hanno una difesa costiera massiccia e qualche volta hanno acceso i loro raggi ostili: un modo di dire 'posso colpirti in qualunque momento'. Anche gli israeliani ogni tanto si mostrano aggressivi, inquadrando le navi Onu nei mirini elettronici. O accecando le antenne delle postazioni terrestri. Ma la flotta Onu non è da meno quanto a hi-tech: la fregata tedesca Hessen ha una centrale tra le più avanzate del pianeta. Ogni provocazione, fisica o elettronica, viene segnalata alle Nazioni unite, che chiedono spiegazioni formali: c'è stato anche un vertice con gli israeliani. "Sono episodi rari e di importanza limitata. Con gli israeliani i rapporti sono buoni. Come segnale di apertura ci hanno persino invitato nella loro base radar, una delle installazioni più segrete del paese", si limita a rispondere Di Biase, che con il buon senso tipico degli italiani e la determinazione degli ufficiali di marina sembra avere costruito un rapporto forte con tutti i protagonisti. Per affrontare crisi che possono manifestarsi in qualunque momento. Nessuno si illude: la pace è fragile, poco più di una tregua. E se in mare non si segnalano corrieri d'armi diretti a Hezbollah, sul campo la situazione resta tesa. A fine marzo una pattuglia italiana che aveva intercettato un camion sospetto è stata affrontata dai miliziani. Per due minuti soldati e guerriglieri si sono puntati addosso i mitragliatori puntati. I militari hanno mantenuto il sangue freddo: possono sparare solo per difendersi. I trafficanti sono ripartiti. Le regole di ingaggio non funzionano? Ha ragione Silvio Berlusconi a chiedere misure più efficaci? Il generale Claudio Graziano, che comanda tutti i 15 mila baschi blu in terra e mare, difende il regolamento. "È una missione Onu, non sta a noi decidere", conferma l'ammiraglio Di Biase. Ma c'è qualcosa che potrebbe rendere più incisivo il vostro intervento? "Sinceramente no, questa flotta porta a termine pienamente il suo mandato". Le regole del Palazzo di vetro sono chiare: è il governo libanese che deve imporre il disarmo e fermare i traffici. Fanti e marinai Onu devono aiutarlo, impedire che venga violata la sovranità di Beirut e che ci siano azioni ostili contro Israele. Tutto sotto responsabilità italiana. "Questo è il teatro più importante del mondo", ripete spesso il generale Graziano: "Qui c'è il padre di tutti i conflitti e questa è la madre di tutte le missioni di pace".

Ogni marinaio sull'Espero e sul Diciotti mostra entusiasmo per la missione e per il basco azzurro. Non c'è aria di routine: l'atmosfera è operativa. I 300 uomini e le 13 donne, avvertono la concretezza di quello che stanno realizzando. Nei risultati militari e diplomatici raggiunti, nel rispetto degli alleati e delle 'controparti' israeliane sentono - cosa rara - il peso di un sistema Paese. E vista dal Libano la presenza dei caschi blu, schierati con una forza così massiccia e così europea, appare come una garanzia di sicurezza senza precedenti. "Non ricordavo più quanto fosse bello guardare il tramonto senza provare terrore per le navi all'orizzonte", racconta un anziano ingegnere libanese passeggiando con il nipotino sul lungomare di Beirut, la corniche appena ricostruita dopo le cannonate: "Erano almeno trent'anni".

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