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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-Il Giornale Rassegna Stampa
27.04.2008 Succede in Israele
Due storie interessanti raccontate da Francesca Paci e R.A.Segre

Testata:La Stampa-Il Giornale
Autore: Francesca Paci-R.A.Segre
Titolo: «Il Viagra al tempo dei Kassam-Il capo terrorista di Hezbollah diventato ebreo per amore»

Su la STAMPA e sul GIORNALE di oggi, 27/04/2008, due servizi che rivelano aspetti inconsueti della vita quotidiana degli israeliani. Il primo, di Francesca Paci, un ritratto di Tzahi Ben Zion, il popolare "Doctor Sex", dal largo seguito anche su internet. L'altro di R.A.Segre sul caso clamoroso di un guerrigliero Hatzbollah, diventato ebreo.  Eccoli:

LA STAMPA. " Il Viagra al tempo dei Kassam" di Francesca Paci

Il paradosso di Sderot? L’attività erotica degli uomini che da sette anni segue la traiettoria dei Qassam sparati da Gaza, pare che l’ultima erezione risalga al 2001». I 1500 spettatori dell’Hangar, il teatro ricavato da un capannone dismesso del porto di Tel Aviv, ridono all’unisono: le gag del dottor Sex ripagano in pieno i 150 schekel del biglietto, circa 25 euro. In Israele, di questi tempi, non c’è investimento migliore. Miriam Katz si tiene la pancia con le mani: «È la seconda volta che vengo». E non l’offende che i suoi vivano a Sderot: l’ometto in maniche di camicia al centro del palco spoglio come quello di un cantastorie siciliano, non è un cabarettista irriverente ma un medico che cura i disturbi sessuali dei connazionali a dosi massicce d’umorismo.
Il dottor Sex, al secolo Tzahi Ben Zion, è il fenomeno mediatico israeliano della stagione. Urologo e psichiatra stimato, il professor Ben Zion insegna all’università di Beer Sheva, nel Negev, e dirige uno studio specialistico da 30 nuovi pazienti alla settimana. Otto mesi fa gli studenti hanno messo su YouTube le sue lezioni serissime ma esilaranti: sebbene in ebraico, sono rimaste a lungo il video più cliccato in Israele e tra i primi dieci nel mondo. Ad agosto è arrivata la proposta dell’Hangar.
«Mi hanno detto che ero un attore, che dovevo cimentarmi con il grande pubblico», racconta Tzahi Ben Zion addentando un gigantesco sandwich in un caffè di Tel Aviv. Un’avventura da pioniere, di quelle che lo stimolano di più: «All’inizio degli anni 90 facevo parte di un laboratorio internazionale che studiava i disturbi sessuali contemporanei. Portai il Viagra in Israele quando non se ne parlava neppure. Siamo un popolo di sperimentatori, soprattutto quando si tratta di sesso. Il mio studio prendeva il Viagra a Londra, i pazienti si prestavano volentieri». Mai avrebbe immaginato che quelle statistiche sarebbero diventate uno spettacolo teatrale bisettimanale da tutto esaurito: «Sono e resto un dottore ma mi sto divertendo parecchio». I produttori televisivi sognano un format vincente per il piccolo schermo.
Che il sesso venda non l’ha certo scoperto Ben Zion. Né ci tiene: «Siamo figli di Freud, lui aveva capito tutto. Il sesso aiuta la salute e la società». Squilla il cellulare, è un paziente non più giovane. Lo informa che ha portato la moglie in albergo e ha funzionato. A volte basta uno stratagemma: «Seguo molti casi di Sderot con problemi d’erezione: immaginate di rivestirvi in 15 secondi in pieno petting per evitare il razzo... Prescrivo medicine ma anche relax, giocare a carte, massaggiarsi a vicenda con il partner».
Il sesso ai tempi della guerra è la trincea della crisi d’identità. Gli spettatori, come i suoi malati, cercano normalità, il dover essere più lontano nel Paese dell’eterno conflitto a bassa intensità. «Lo stress aggrava i disturbi sessuali. Noi vediamo nemici ovunque, perfino nella coppia, i giovani consumano il sesso in modo compulsivo nei bagni delle discoteche», spiega grave il dottore. Invece, continua faceto, citando il monologo all’Hangar, sarebbe bene, ogni tanto, «concentrarsi sulla compagna anziché su Golda Meir, che tanto non aiuta a durare di più, mettere il telefonino in funzione vibratore, ricordare che due orgasmi a settimana riducono le rughe del 30 per cento».
Il segreto è sdrammatizzare: «Gli uomini impiegano anni a parlare di un problema sessuale, le donne decenni». Su questo, tutto il mondo è paese. L’Occidente in particolare: «A Beer Sheva un paziente su due è beduino. È sorprendente confrontarne la scioltezza con il pudore degli israeliani o degli italiani. Per i beduini la prestanza fisica è vita, hanno tre mogli, devono far buona figura, capita che vengano accompagnati dalla figlia minorenne che traduce in ebraico le tappe dell’eiaculazione precoce del padre». L’emancipazione passa anche dal talamo: da alcuni mesi le donne arabe hanno iniziato a svelare al dottore che «aggiusta» i mariti il proprio corpo, le paure, il piacere ignoto.
Tzahi Ben Zion porta in teatro le esperienze degli altri affinché gli spettatori si riconoscano, gli imprenditori high tech di Tel Aviv e i pastori del Negev, gli innamorati infelici di Sderot e quelli prigionieri di Gaza, dove ieri una palestinese di 14 anni è rimasta uccisa negli scontri tra miliziani ed esercito israeliano. Perché la leggendaria virilità ebraica è un topos letterario, ma non sempre la vita combacia con i film di Woody Allen: «È vero che la nostra religione si occupa di sesso. Nel contratto di matrimonio il marito s’impegna a soddisfare fisicamente la moglie una volta al giorno se può, due alla settimana se lavora, una alla settimana se studia, una al mese se viaggia: è un precetto sacro». Però, a giudicare dalle statistiche dell’urologo di Beer Sheva, «siamo un popolo di miscredenti». Il pubblico dell’Hangar ride dei propri fantasmi. Alle pareti i manifesti della Clalit, la mutua israeliana, reclamizzano l’erezione maschile. Il dottor Sex esce saltellando accompagnato dalla musica vittoriosa di Rocky Balboa.

IL GIORNALE. " Il capo terrorista di Hezbollah diventato ebreo per amore", di R.A.Segre

Il cambiamento di religione - per convinzione, interesse, amore ecc - non ha nulla di particolare. Ma quando all'ebraismo si converte un musulmano sciita libanese, ufficiale degli Hezbollah e rischia la vita, pagando con la tortura e la morte di un figlio il suo tentativo di combattere per Israele dall'interno del campo fondamentalista, allora si tratta di una notizia alla quale è difficile credere soprattutto se raccontata in un libretto firmato con lo pseudonimo «Abi» pubblicate da un ignoto editore israeliano. Incuriosito pensai di poter avvicinare questo Hezbollah diventato ebreo tramite il rabbino che lo aveva convertito. Un amico mi mise sulle sue tracce. È Rav Shmuel Eliahu, rabbino capo di Safed, la città santa e mistica di Galilea. Cordiale, aperto, accetta di presentarmi Abi a due condizioni: non rivelare il luogo dell'incontro; apprendere la sua incredibile avventura, militare e spirituale, in sua presenza ma raccontata da lui che di Abi sapeva tutto ma era impegnato a osservare, almeno formalmente, il segreto. Inoltre poteva correggere le falsità inserite nel libretto allo scopo di proteggere l'identità di «Abi». Ad esempio la visita di una delegazione di persone legate agli hezbollah a Auschwitz e in Vaticano. Accettai ma chiesi che la conversazione venisse registrata, dalla persona che mi aveva procurato l'incontro.
La storia di Abi inizia all'inizio degli anni Ottanta in un villaggio del Libano meridionale. Come nei Promessi sposi, un capoccia Hezbollah locale si invaghisce della fidanzata del fratello di «Abi». Per averla, lo fa arrestare e condannare a morte per spionaggio a favore di Israele. Nasce in «Abi» la volontà di vendetta. Si arruola nelle file degli Hezbollah, sale di grado, conquista la fiducia dei suoi superiori con la sua devozione religiosa, ma è turbato dall'uso cinico che i fondamentalisti fanno della fede per arruolare giovani kamikaze. Cerca risposte nel Corano e scopre passaggi che parlano della «scelta divina» del popolo di Israele, e della terra a loro promessa. Si convince che gli sceicchi interpretano a modo loro in chiave anti ebraica il Corano e che è peccato ucciderli. Perfino uno sceicco inviato dall'Iran ad aiutare i giornalisti della stazione tv degli hezbollah Al Manar dice che nella propaganda si deve attaccare i sionisti, non gli ebrei. Non è stato detto (Sura 2:47 al Bakara) che Dio ha preferito gli ebrei «sui due mondi»; che ha «scelto» Israele (Sura 7:140), che il suicidio nel nome di Dio è blasfemo? Gli ebrei possono avere tradito la Legge divina e per questo soffrire. Ma l'impegno di Dio nel dare loro la «Terra promessa» non è cambiato. Mosso da queste letture e da dubbi, «Abi» decide di mettere se stesso e Dio alla prova. Sperando di poter stabilire un contatto con gli ebrei fa fallire l'invio in Israele (attraverso la frontiera col Libano rimasta aperta sino al 2001) di una autoambulanza carica di tritolo scrivendo sul vetro sporco in caratteri ebraici la parola «esplosivo». Qualcuno al posto di frontiera se ne accorge. Spara contro il veicolo che salta in aria. Gli israeliani captano il messaggio. Un loro agente in Libano contatta «Abi» avviando una collaborazione che «salva molte vite» ma che finisce per renderlo sospetto.

Imprigionato prima nel Libano e poi in Siria, viene torturato. Gli uccidono sotto gli occhi il figlio più piccolo per piegarlo ma non parla. Cosa gli da questa forza? Si chiede; perché sfugge miracolosamente a tre attentati? Sono esperienze traumatiche, ma anche secondo lui messaggi divini che gli indicano la via da seguire. Con l'aiuto israeliano riesce a fuggire in Israele con moglie e figli dove decide di convertirsi per «lavorare» all'interno alla salvezza del popolo ebraico. Incontra Rav Eliahu che crede di aver visto in sogno quando era prigioniero. Il quale per quanto restio ad accettare conversioni, specie di musulmani, crede di vedere nel caso di «Abi» qualcosa di profetico. Non solo per le straordinarie circostanze di vita, per la conversione ideologica - da combattente anti israeliano a agente segreto israeliano contro gli hezbollah - ma per il fatto che questo libanese porta un messaggio che molti rabbini non sono capaci di articolare.
Parla con passione della fiducia che gli ebrei debbono riporre in Dio, rimprovera loro l'assenza di fede nel loro destino privilegiato. Interpreta la storia del conflitto in maniera profetica. Spiega ad esempio la fuga delle migliaia di arabi da Safed nel 1948 citando le parole dell'allora comandante arabo locale, Faudi ad Dura: «Come pensate che potessimo opporci alla volontà divina?». Gli israeliani, dice, invece di rinforzare questa convinzione araba, fatalistica, dell'impossibilità di combattere il popolo di Dio, aumentano la debolezza di Israele esaltando una superiorità materiale che non li può salvare.
Sono persone come «Abi» - dice il rabbino - che rappresentano la salvezza di Israele.
Penso a tutto questo guardando, «Abi» un uomo sulla cinquantina, indistinguibile nel vestire, nella barba, nel cappello nero a larghe falde e nei riccioloni attorcigliati dietro le orecchie ad un ebreo ortodosso che ascolta, senza parlare, ma approvando quello che il rabbino mi racconta. Vorrei, ma non posso, dirgli ciò che penso di lui, il mio stupore ma anche la mia ammirazione: fede contro razionalità, sogno contro realismo. Dio delle schiere ebraiche contro quelle del Partito islamico di Dio. Dal luogo in cui ci troviamo è visibile in fondo alla valle del Giordano il lago di Tiberiade e il monte delle Benedizioni.
Beati i poveri di spirito che avranno il Regno del Cielo.
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