Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
L'abbraccio di Carter ad Hamas il commento di Bernard Henry Lévy
Testata: Corriere della Sera Data: 24 aprile 2008 Pagina: 42 Autore: Bernard Henry Lévy Titolo: «Quel triste declino del personaggio Carter»
Dal CORRIERE della SERA del 24 aprile 2008:
E videntemente il problema non è discutere o non discutere con i siriani: tutti, più o meno, lo fanno. Non è incontrare, a Damasco, il capo in esilio di Hamas: tutti, compresi gli israeliani, un giorno o l'altro si decideranno a farlo in virtù del vecchio principio secondo cui è con i propri nemici, non con gli amici, che alla fin fine bisogna dialogare, fare la pace e andare d'accordo. Il problema è come l'ex presidente Carter si è comportato. E' l'inutile e spettacolare abbraccio, a Ramallah, con Nasser Shaer, il rappresentante di Hamas. E' la corona di fiori devotamente deposta sulla tomba di un Yasser Arafat del quale egli sa, come tutti, quale ostacolo rappresentò per la pace. Il problema è che al Cairo, secondo un altro responsabile di Hamas, Mahmoud Zahar, che non è stato smentito, Carter abbia potuto qualificare come «movimento di liberazione nazionale » un partito, Hamas dunque, che del culto della morte, della mitologia del sangue e della razza, dell'antisemitismo in versione «protocolli dei Savi di Sion» ha fatto i pilastri della propria ideologia. Il problema è il formidabile gesto di derisione che il capo del Partito in esilio, Khaled Meshal, ha indirizzato a Carter proprio mentre lo riceveva, lanciando, al valico di Keren Shalom, il suo primo grande attentato con un' autobomba dopo parecchi mesi. E il problema è che l'evento non abbia strappato a Carter, tutto preso dai suoi calcoli di mediatore autoproclamatosi, né una parola di emozione né di biasimo. Si dirà che l'ex presidente c'è abituato. Non risale certo a ieri la strana deriva di un uomo che, trent'anni fa, fu uno degli artefici della pace con l'Egitto e che da allora non ha smesso di offendere Israele, di paragonare il suo sistema politico a quello del Sud Africa all'epoca dell'apartheid, di ignorare il suo desiderio di pace non meno reale dei suoi errori, di negare persino le sue sofferenze (fra altri esempi, l'intervento, un anno fa, sul canale televisivo Cbs in cui Carter dichiarava che Hamas, da anni, non aveva più commesso il minimo attentato che fosse costato la vita a civili. Dimenticando così l'uccisione di sei persone al terminal di Karni e quella dei 16 occupanti di due autobus a Beersheba, il 30 agosto 2004). Comunque, un conto è parlare alla Cbs, un altro è pronunciare le stesse parole, senza mandato ma forti di un'indiscutibile autorità morale, quando ci si trova fra i belligeranti. Un conto è dire, a Dublino, il 19 giugno 2007, che i veri criminali non sono coloro che, come Meshal, dicono ai quattro venti che Israele «prima di morire» deve essere «umiliato e degradato», ma coloro che preferirebbero che quei simpatici personaggi fossero prima o poi (e se possibile meglio prima che poi) allontanati dai circoli del potere. Un altro conto è venire sul posto ad appoggiare con tutto il proprio peso gli elementi più radicali, più ostili alla pace, più profondamente nichilisti del campo palestinese. La verità è che, se si volesse screditare l'altro campo, finire di umiliare e ridicolizzare l'unico alto dirigente palestinese, Abu Mazen, che rischiando la vita continua a credere nella soluzione dei due Stati, se si volessero far crollare gli ultimi sogni degli uomini e donne di buona volontà che credono ancora nella pace, non ci si potrebbe comportare diversamente. Allora, cos'è successo al premio Nobel per la pace? E' forse vittima della vanità di chi non è più nulla e cerca, prima di abbandonare la scena, un ultimo quarto d'ora sotto i riflettori? Della senilità che ha portato l'uomo politico a perdere il contatto con la realtà e, fra l'altro, con il proprio partito (Barack Obama, più nettamente ancora della sua rivale, ha appena ricordato che ci si può «sedere» accanto agli uomini di Hamas solo se «rinunciano al terrorismo, riconoscono il diritto di Israele ad esistere e rispettano gli accordi passati»)? E' vittima di una variante dell'odio verso di sé e, nel caso specifico, l'odio verso il proprio passato di grande costruttore di pace? Tutte le ipotesi sono permesse. Ma certo è che l'ex presidente Carter ha un punto in comune con colui che presto sarà l'ex presidente Bush: sono due born again, due cristiani «nati una seconda volta», con tutto quello che la mistica, frequente nelle chiese evangeliche di oggi, presuppone di oscurantismo. C'è un altro punto in comune fra loro, purtroppo non smentito dalla fine del mandato di George W. Bush: l'uno e l'altro rimarranno, in un ordine che sarà la Storia a determinare, i due peggiori presidenti che abbiano avuto gli Stati Uniti. Ebbene, ecco un terzo punto in comune, legato ai primi due e che, il caso Carter insegna, sfortunatamente sopravvive a lungo all'esercizio del potere (è un avviso a chi immagina di sbarazzarsi definitivamente, fra sei mesi, del presidente in carica!): un'identica capacità di trasformare i propri errori politici in disastrose colpe morali. (traduzione di Daniela Maggioni)
Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera cliccare sul link sottostante