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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
22.04.2008 Shoah e antifascismo: le strumentalizzazioni storiche della cultura di sinistra
Ernesto Galli della Loggia risponde a Giovanni De Luna

Testata: Corriere della Sera
Data: 22 aprile 2008
Pagina: 39
Autore: Ernesto Galli della Loggia
Titolo: «Se la Shoah oscura l'antifascismo»
Dal CORRIERE della SERA del 22 aprile 2008

Se «per decenni la memoria della Resistenza, dell'antifascismo e della deportazione politica era così straripante da annettersi anche quella della Shoah, oggi la situazione si è capovolta, e nel segno della Shoah a rischiare di sparire dal discorso pubblico e dalla nostra memoria collettiva è proprio l'antifascismo». Con queste parole, qualche settimana fa, sulla Stampa («Il fascismo derubricato») Giovanni De Luna ha voluto unire il proprio grido d'allarme a quello dell'Associazione degli ex deportati politici (Aned) per la decisione del governo Prodi di affidare il nuovo allestimento del Padiglione italiano del Museo di Auschwitz esclusivamente a organizzazioni ebraiche come il Cdec e l'Ucei. Dunque con la virtuale esclusione dell'Aned la quale, invece, aveva avuto l'incarico in questione per l'allestimento precedente, eseguito negli anni Settanta. Ecco la prova per l'appunto, secondo De Luna, che la memoria della Shoah ha inghiottito quella dell'antifascismo, sicché oggi, egli lamenta, «per prendere le distanze dal fascismo basta condannare l'infamia delle leggi razziali del 1938» — cosa che anche a Fini e al suo partito non è stato difficile fare — «quasi che quelle leggi esaurissero per intero la dimensione totalitaria del regime e possano costituire un ottimo pretesto per chi vuole dimenticare che il fascismo prima uccise la libertà e la democrazia e poi perseguitò gli ebrei».
In quello che dice De Luna c'è senz'altro qualcosa di vero che non riguarda certo solo l'Italia. Dietro lo spostamento d'ottica che egli in qualche modo denuncia c'è, infatti, un grande fenomeno, storiografico ma in generale culturale che ha investito tutto l'Occidente a partire dagli anni Sessanta. Si tratta, per così dire, della «riscoperta» dell'Olocausto dopo la parentesi di relativo oblio in cui esso era caduto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. Riscoperta a sua volta decisiva per dare vita a quell'altro importantissimo fenomeno che è stato il progressivo emergere, in tempi a noi vicini, di una vera e propria «cultura della vittima» e dell'idea connessa di una giustizia cosmopolitica.
Ma sicuramente c'è anche dell'altro nello spostamento di ottica dal fascismo nel suo insieme al singolo aspetto dell'antisemitismo quale suo supposto tratto onnicomprensivo e determinante. E questo altro, mi pare, è molto italiano, molto roba di casa nostra, perché legato a quella componente essenziale della scena pubblica italiana che è stata la «cultura di sinistra», di cui non a caso la storiografia dell'età contemporanea — soprattutto quella del fascismo — è stata e continua ad essere una parte così importante. In questo senso, come adesso dirò, al lamento di De Luna, il quale nella cultura suddetta si è sempre riconosciuto, non sarebbe affatto improprio replicare «chi è causa del suo mal» con quel che segue. Per capire che cosa intendo bisogna rifarsi a quel momento cruciale della contesa storiografico- politica intorno all'interpretazione del fascismo che furono in Italia gli anni Settanta- Ottanta. Gli anni in cui si afferma nel nostro panorama degli studi e ancor di più presso il grande pubblico l'opera di Renzo De Felice: alla quale però una gran parte della «cultura di sinistra» risponde con l'accusa di «revisionismo ». Cioè con l'accusa di voler programmaticamente attenuare il carattere totalitario del regime, di non nasconderne certe ispirazioni moderne e popolari, di volerne mostrare l'effettiva base di consenso, e così in certo senso di riabilitarlo. Oltre che storiografica l'accusa ha anche un esplicito contenuto politico: la ricostruzione di De Felice, infatti, smentisce nella sostanza l'immagine del Ventennio in contrapposizione alla quale la sinistra ha costruito il mito dell'antifascismo e della Resistenza, di cui ha così ampiamente beneficiato. È precisamente nell'ambito di questa contesa (e in sintonia con quanto nel frattempo stava accadendo all'estero, specie negli Stati Uniti, e di cui parlavo sopra) che la storiografia della sinistra, che fino allora non aveva prestato quasi alcuna attenzione al tema (basti vedere i diversi volumi di «lezioni» sul fascismo che i maggiori editori italiani, da Laterza a Einaudi, pubblicano dall'inizio degli anni Sessanta agli inizi dei Settanta), comincia a mettere sempre più l'accento sull'antisemitismo e sulle leggi razziali quale tratto assolutamente caratterizzante della storia e dell'ideologia del fascismo. Lo fa con l'intento di equiparare in qualche modo la legislazione razzista del '38 alla «soluzione finale» hitleriana, il fascismo pre-25 luglio a quello di Salò, e di stabilire così un legame decisivo tra il regime fascista e quello nazista. In tal modo lo statuto storico del fascismo è dedotto in misura decisiva dall'antisemitismo; è l'antisemitismo che ne definisce la vera natura, omologandolo sostanzialmente a quell'archetipo di totalitarismo diabolico-omicida che è stato il regime hitleriano. Di modo che, come si capisce, ogni distinzione o disamina defeliciana è destinata a lasciare il tempo che trova, mentre resta ben salda l'immagine del Ventennio elaborata dall'antifascismo politico tradizionale.
Ma non basta. Alle pur importanti ragioni difensive di questo impianto storiografico la cultura di sinistra ne ha aggiunto alla fine degli anni Ottanta un'altra ancora, non meno importante: la difesa della memoria del comunismo, quel comunismo con cui la sua vicenda, specie in Italia, era stata fino allora tanto strettamente intrecciata. La fine dell'Unione Sovietica e ciò che anche dai suoi archivi cominciava a venir fuori gettavano, infatti, un'ombra sempre più cupa su quell'ideologia, sui suoi regimi e i suoi partiti, minacciando di relegare l'una e gli altri tra gli orrori del Novecento. Dunque per un'intera esperienza vissuta anche in Italia da milioni e milioni di persone, tra cui molti intellettuali, il passato rischiava di diventare un vissuto ideologicamente indifendibile, costellato solo da errori. Anche l'esperienza dell'antifascismo politico tradizionale perdeva ogni efficacia compensatrice e redentrice, nel momento in cui bisognava ammettere che quell'esperienza implicava molto spesso l'adesione a un'ideologia e a un regime, quelli comunisti, rivelatisi altrettanto se non più oppressivi del fascismo (si ricordi: sto parlando sempre del fascismo italiano, del regime di Mussolini). Tutto cambiava però se tra i due attori, il fascismo e il comunismo, ne veniva introdotto un terzo, l'antisemitismo. Se dopo l'89, agli occhi di molti, il comunismo in quanto tale non bastava più, infatti, ad assicurare una posizione di superiorità etico-politica rispetto al fascismo; se l'uno e l'altro potevano addirittura essere considerati due totalitarismi più o meno equivalenti, tutto però cambiava e ritornava al suo posto se sul conto del ventennio ducesco poteva essere messo il carico dell'Olocausto e sul conto del comunismo il merito — almeno quello, ma di quale peso! — di avere aperto i cancelli di Auschwitz. La Shoah, insomma, era chiamata a salvare indirettamente l'onore del comunismo o quel ne restava. Dopo l'equiparazione del fascismo al nazismo, l'accento sull'antisemitismo serviva ora a ristabilire l'incrinata primazia del comunismo sull'uno e sull'altro.
Anche per questa via, dunque, si è affermata, nell'interpretazione del fascismo fatta propria da molta storiografia e cultura di sinistra italiane (ma non solo) un'inedita centralità della categoria dell'antisemitismo. Chi, come Giovanni De Luna, si rammarica oggi che ciò abbia alla fine condotto ad una «derubricazione » del fascismo (e dell'antifascismo) dovrebbe forse pensare alle tante occasioni in cui in passato avrebbe potuto far sentire la propria voce contro l'uso forzato e strumentale della storia, ma non lo ha fatto.

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