Da Il FOGLIO del 9 aprile 2008, un articolo di Christian Rocca:
Milano. Il generale David Petraeus e l’ambasciatore Ryan Crocker, i vertici militari e civili americani in Iraq, ieri sono tornati a Washington per raccontare al Congresso e agli americani la situazione nell’ex regno di Saddam Hussein, cinque anni dopo l’invasione decisa da George W. Bush e condivisa, allora, da gran parte dei suoi oppositori del Partito democratico e dell’intellighenzia liberal di sinistra. Petraeus e Crocker hanno confermato i grandi miglioramenti sia militari sia politici avvenuti in Iraq per effetto del “surge”, cioè dell’invio di trentamila nuove truppe deciso a gennaio del 2007 dalla Casa Bianca. La situazione resta fragile, frammentaria e reversibile, anche per il ruolo “distruttivo” giocato dall’Iran, sicché per non perdere le posizioni conquistate in questi mesi i due funzionari americani hanno suggerito al presidente di ridurre entro metà luglio il numero dei soldati americani in Iraq al livello precedente il “surge”, ma subito dopo di sospendere ulteriori ritiri per almeno 45 giorni, in modo da poter fare una valutazione e un assestamento più precisi.
Dal punto di vista politico, però, l’attenzione era concentrata su altro: il generale e l’ambasciatore si sono trovati di fronte, prima davanti alla Commissione Forze Armate, poi a quella Esteri, tutti e tre i candidati alla Casa Bianca – John McCain, Hillary Clinton e Barack Obama – uno dei quali il 4 novembre prossimo sarà eletto presidente e il 20 gennaio successivo, a mezzogiorno, diventerà il comandante in capo che deciderà il futuro della missione americana in Iraq. L’effetto è stato clamoroso, a conferma della trasparenza del processo democratico americano: i due inviati in Iraq hanno discusso pubblicamente e risposto alle domande del prossimo presidente degli Stati Uniti in diretta tv.
John McCain è un sostenitore della strategia Petraeus ben prima di Bush e, un anno e mezzo fa ha scommesso il suo futuro politico sul successo del “surge”, mentre quasi tutti i suoi colleghi, in particolare i leader democratici, erano convinti che l’invio di nuove truppe non avrebbe risolto nulla, anzi che avrebbe peggiorato la situazione. La rinascita elettorale di McCain, dato per morto ancora sei mesi fa, è legata alle buone notizie provenienti dall’Iraq sulla riduzione degli attentati, sul coinvolgimento dei sunniti nel processo di ricostruzione nazionale e sulla rivolta irachena contro i jihadisti di al Qaida. McCain ha evitato di usare il suo spazio in Commissione per segnare punti politici e ha preferito fare ai due funzionari americani domande tecniche sulla situazione a Bassora e sulle capacità del governo democratico iracheno. McCain, in realtà, non aveva alcun bisogno di forzare la mano, anche perché le deposizioni di Petraeus e Crocker erano già uno straordinario spot per la sua candidatura. In ogni caso una mano gliel’ha data Joe Lieberman, il senatore indipendente del Partito democratico, ex vice di Al Gore nel 2000 e oggi grande sostenitore non solo di Petraeus, ma anche della campagna presidenziale di John McCain. Lieberman ha chiesto ai suoi colleghi del partito democratico entrati in Commissione con un pregiudizio negativo di tenere conto, almeno, del miglioramento della situazione sul campo, come spiegata in dettaglio da Petraeus e Crocker. Lieberman, inoltre, non s’è lasciato sfuggire le parole dei due funzionari americani sull’influenza distruttiva dell’Iran in Iraq. Secondo Petraeus, infatti, la situazione della sicurezza è ancora fluida, per colpa del ruolo che gioca il regime di Teheran.
Il memo riservato dei democratici
Hillary Clinton, con un tono molto più rispettoso rispetto a quello che aveva usato a settembre nei confronti di Petraeus, ha ribadito che i progressi politici in Iraq sono insoddisfacenti e i costi umani ed economici dell’impegno americano non più sopportabili. La senatrice, più che fare domande, ha scelto di spiegare perché, dopo anni di promesse, sia arrivato il momento di ritirare gradualmente i soldati e di concentrare gli sforzi in Afghanistan. Obama è sulla stessa linea, anche se un memo riservato di uno dei suoi principali advisor di politica estera svela che il senatore, se fosse eletto presidente, lascerebbe in Iraq ottantamila soldati.
I due candidati democratici possono contare sulla stanchezza dell’opinione pubblica nei confronti di una guerra mal gestita e giustificata principalmente con le armi di distruzione di massa che non sono state trovate, ma contemporaneamente rischiano di apparire poco credibili di fronte ai suggerimenti di due personaggi al di sopra di ogni sospetto come Petraeus e Crocker. Su questo punta McCain, anche perché la doppia relazione Petraeus-Crocker ha svelato come negli ultimi mesi la situazione sia migliorata, e di molto, anche rispetto a settembre, quando i due leader militari e civili si erano presentati al Congresso per una prima valutazione. Allora avevano dimostrato i successi sul fronte della sicurezza, malgrado gli scetticismi iniziali dei democratici. Obama e Hillary erano stati costretti ad ammettere i progressi, ma avevano notato come i politici iracheni non ne avessero approfittato per stringere sulla riconciliazione nazionale. Petraeus e Crocker, sette mesi dopo, hanno elencato le leggi approvate dal nuovo Parlamento, la partecipazione dei sunniti al nuovo Iraq, il cessate il fuoco di Moqtada al Sadr, i successi contro al Qaida.
Da La STAMPA, la cronaca di Maurizio Molinari:
David Petraeus duella a Capitol Hill con Hillary Clinton e Barack Obama ma fa attenzione a non concordare troppo con John McCain. L’audizione del comandante delle truppe in Iraq al Senato si è trasformata nel palcoscenico di uno show mediatico per i tre candidati presidenti per via del fatto che le due commissioni interessate - Forse Armate e Esteri - sommano la presenza di McCain, Clinton e Obama.
La mattinata è iniziata con una deposizione di Petraeus, affiancato dall’ambasciatore Usa a Baghdad Ryan Crocker, per auspicare che dopo il previsto ritiro dei 30 mila uomini di rinforzi entro luglio si aspettino «45 giorni» per decidere ulteriori riduzioni di truppe in ragione dei «pericoli che permangono perché i progressi sono fragili e reversibili». In concreto ciò significa fermare la diminuzione delle truppe: una posizione che stride con le promesse dei candidati democratici, Hillary e Obama, favorevoli ad iniziare subito il ritiro finale, seppur con calendari differenti.
Quando a prendere la parola è stato il repubblicano John McCain non ha mancato di rimarcare la differenza fra Petraeus - fra i personaggi più popolari in America - e i democratici, affermando che «siamo lontani dall’abisso della sconfitta grazie al successo dei rinforzi» inviati dal presidente Bush nel 2007.
Due senatori alleati di McCain, l’indipendente Joseph Lieberman ed il repubblicano Lindsey Graham, sono andati oltre definendo «contro gli interessi dell’America un ritiro che ridarebbe fiato ad Al Qaeda». Petraeus e Crocker hanno avvalorato questa interpretazione spiegando che «Al Qaeda tenta di risollevarsi a Mosul» e «l’Iran lavora ad una destabilizzazione di tipo libanese facendo leva sugli estremisti sciiti».
Hillary ha tirato fuori le unghie: «Irresponsabile non è il ritiro quanto rimanere in un Paese dove l’assenza di progressi politici minaccia la guerra civile». Il primo affondo è stato contro Crocker a cui ha contestato «l’intenzione di non sottoporre l’accordo Usa-Iraq sulla permanenza di lungo termine dei nostri soldati a questo Congresso». Poi si è rivolta a Petraeus, dicendogli: «Generale, in un’intervista al Washington Post lamenta l’assenza di progressi politici, come far fronte a questa situazione se non con il ritiro?».
Petraeus ha ribattuto dando vita a momenti di forte tensione, terminati con un rilancio di Hillary sulla «necessità del ritiro» che Petraeus non auspica. Con Obama si è ripetuta la fibrillazione. Il senatore ha chiesto a Petraeus e Crocker «in quali condizioni avremo un successo accettabile» ma le risposte non lo hanno soddisfatto. Poi si è spinto fino a proporre «rinforzi diplomatici per dialogare con l’Iran dopo il ritiro delle truppe» e Petraeus lo ha guardato con un misto di sorpresa e smarrimento. Ma quando Graham ha chiesto al generale di definire esplicitamente «errata» la strategia democratica di iniziare a ritirare i soldati, «una brigata al mese a partire da gennaio 2009», Petraeus è stato molto prudente: «Stiamo parlando di una guerra, non posso prevedere quali saranno allora le condizioni».
La battaglia tra l'esercito iracheno e alcune milizie sciite per il controllo di Bassora nel Sud del paese si è conclusa con un accordo di cessate il fuoco dopo circa dieci giorni di scontri. Il negoziato che ha portato a questo risultato si e' svolto in Iran.
Nel Sud dell’Iraq si produce circa l'80% del petrolio nazionale, e da sempre la grande maggioranza dei suoi abitanti è di fede sciita. Nel 1986 durante la lunga guerra tra Iran e Iraq il regime di Saddam Hussein temeva di perdere una parte del paese di fronte alle truppe dell'ayatollah Khomeini. E il presidente iracheno utilizzò anche le armi chimiche per fermare l’avanzata verso Bassora. Gli scontri di marzo hanno coinvolto in realtà le forze regolari, quasi tutte sciite, e le milizie di Moqtada Al Sadr, anche queste sciite: cioè la fazione religiosa di maggioranza nel paese, che ha tratto i maggiori benefici dalla guerra del 2003 e dalla caduta di Saddam, riprendendo un ruolo dominante nel paese dopo oltre cinque secoli di sudditanza ai sunniti.
Ma gli sciiti iracheni non rappresentano un blocco omogeneo. I loro legami con diverse grandi famiglie di capi religiosi, l'atteggiamento avuto durante gli anni della dura repressione di Saddam, e gli stretti rapporti con il vicino Iran specialmente durante la guerra degli Anni Ottanta tra i due paesi, hanno creato spaccature e divisioni che gli scontri fratricidi di Bassora hanno riproposto con maggiore evidenza. L'Iran mantiene rapporti con ogni fazione: con il gruppo leale alla famiglia degli Al Hakim, che rappresenta il partito più numeroso al potere a Baghdad, con il gruppo del primo ministro Al Maliki, e anche con il partito degli Al Sadr le cui milizie si battono contro il governo ormai da tempo. Inoltre, ad alimentare legami trasversali, sono intervenuti sia gli Usa che l'Iran, sostenendo il nuovo governo iracheno, dopo la caduta di Saddam.
Il primo ministro di Baghdad si è più volte recato a Teheran, e il presidente iraniano un mese fa per la prima volta ha visitato la capitale sulle rive del Tigri, mentre si sono creati ormai rapporti economici rilevanti tra i due paesi.
Durante gli scontri di Bassora i rappresentanti dei tre principali gruppi sciiti si sono recati a Qom in Iran. Qui Qassem Suleimani, un generale delle guardie rivoluzionarie del regime iraniano ha agito da mediatore, e apparentemente con successo. Queste sono le stesse guardie rivoluzionarie che i generali Usa in Iraq accusano di cooperare militarmente contro la coalizione occidentale.
Ma se a Bassora la cronaca non ha neppure citato i sunniti che rappresentano circa un quarto della popolazione irachena, il futuro del paese unito non può essere comunque costruito senza di loro. Ormai sono quasi 90.000 le forze paramilitari sunnite appoggiate dagli americani, alcuni sotto il nome di «Figli dell’Iraq», che combattono nel paese contro i simpatizzanti di Al Qaeda. Tutti insieme dovrebbero confluire nelle forze regolari, per portare così a termine il piano di riconciliazione nazionale non ancora realizzato. Il ruolo dei sunniti in Iraq è al centro delle attenzioni dell’Arabia Saudita, alleata di vecchia data degli Usa, ma che non ha ancora aperto una sua ambasciata a Baghdad.
Tutto questo intreccio solleva un interrogativo: è possibile immaginare una riconciliazione nazionale in Iraq senza un comune denominatore tra le potenze regionali e internazionali? E se è necessario un comune denominatore, allora occorre pensare ad una architettura regionale. Non c’è bisogno di formalizzare accordi e trattati, si potrebbe cominciare con l’approccio che ha funzionato in altre parti del Medio Oriente in epoche passate: raggiungere intese non scritte su alcune «linee rosse» ben precise, invalicabili, se non pagando un prezzo assai alto. Intanto sia i partiti sciiti che sunniti si preparano alle elezioni provinciali di ottobre, che sono forse il vero obiettivo della battaglia di Bassora, e che potranno dare molte indicazioni sulla unità irachena da ricostruire.
Un articolo di Giandomenico Picco, che consiglia di rivolgersi, per stabilizzare l'Iraq, al suo grande destabilizzatore l'Iran.
Rafforzare gli stati canaglia per convincerli ad esserlo un po meno, dando loro la possibilità di esserlo ancora di più in futuro. Ricordiamo che l'Iran si sta costruendo la bomba atomica. Darle il tempo necessario è davvero una buona strategia ?
Ecco il testo:
David Petraeus duella a Capitol Hill con Hillary Clinton e Barack Obama ma fa attenzione a non concordare troppo con John McCain. L’audizione del comandante delle truppe in Iraq al Senato si è trasformata nel palcoscenico di uno show mediatico per i tre candidati presidenti per via del fatto che le due commissioni interessate - Forse Armate e Esteri - sommano la presenza di McCain, Clinton e Obama.
La mattinata è iniziata con una deposizione di Petraeus, affiancato dall’ambasciatore Usa a Baghdad Ryan Crocker, per auspicare che dopo il previsto ritiro dei 30 mila uomini di rinforzi entro luglio si aspettino «45 giorni» per decidere ulteriori riduzioni di truppe in ragione dei «pericoli che permangono perché i progressi sono fragili e reversibili». In concreto ciò significa fermare la diminuzione delle truppe: una posizione che stride con le promesse dei candidati democratici, Hillary e Obama, favorevoli ad iniziare subito il ritiro finale, seppur con calendari differenti.
Quando a prendere la parola è stato il repubblicano John McCain non ha mancato di rimarcare la differenza fra Petraeus - fra i personaggi più popolari in America - e i democratici, affermando che «siamo lontani dall’abisso della sconfitta grazie al successo dei rinforzi» inviati dal presidente Bush nel 2007.
Due senatori alleati di McCain, l’indipendente Joseph Lieberman ed il repubblicano Lindsey Graham, sono andati oltre definendo «contro gli interessi dell’America un ritiro che ridarebbe fiato ad Al Qaeda». Petraeus e Crocker hanno avvalorato questa interpretazione spiegando che «Al Qaeda tenta di risollevarsi a Mosul» e «l’Iran lavora ad una destabilizzazione di tipo libanese facendo leva sugli estremisti sciiti».
Hillary ha tirato fuori le unghie: «Irresponsabile non è il ritiro quanto rimanere in un Paese dove l’assenza di progressi politici minaccia la guerra civile». Il primo affondo è stato contro Crocker a cui ha contestato «l’intenzione di non sottoporre l’accordo Usa-Iraq sulla permanenza di lungo termine dei nostri soldati a questo Congresso». Poi si è rivolta a Petraeus, dicendogli: «Generale, in un’intervista al Washington Post lamenta l’assenza di progressi politici, come far fronte a questa situazione se non con il ritiro?».
Petraeus ha ribattuto dando vita a momenti di forte tensione, terminati con un rilancio di Hillary sulla «necessità del ritiro» che Petraeus non auspica. Con Obama si è ripetuta la fibrillazione. Il senatore ha chiesto a Petraeus e Crocker «in quali condizioni avremo un successo accettabile» ma le risposte non lo hanno soddisfatto. Poi si è spinto fino a proporre «rinforzi diplomatici per dialogare con l’Iran dopo il ritiro delle truppe» e Petraeus lo ha guardato con un misto di sorpresa e smarrimento. Ma quando Graham ha chiesto al generale di definire esplicitamente «errata» la strategia democratica di iniziare a ritirare i soldati, «una brigata al mese a partire da gennaio 2009», Petraeus è stato molto prudente: «Stiamo parlando di una guerra, non posso prevedere quali saranno allora le condizioni».
La battaglia tra l'esercito iracheno e alcune milizie sciite per il controllo di Bassora nel Sud del paese si è conclusa con un accordo di cessate il fuoco dopo circa dieci giorni di scontri. Il negoziato che ha portato a questo risultato si e' svolto in Iran.
Nel Sud dell’Iraq si produce circa l'80% del petrolio nazionale, e da sempre la grande maggioranza dei suoi abitanti è di fede sciita. Nel 1986 durante la lunga guerra tra Iran e Iraq il regime di Saddam Hussein temeva di perdere una parte del paese di fronte alle truppe dell'ayatollah Khomeini. E il presidente iracheno utilizzò anche le armi chimiche per fermare l’avanzata verso Bassora. Gli scontri di marzo hanno coinvolto in realtà le forze regolari, quasi tutte sciite, e le milizie di Moqtada Al Sadr, anche queste sciite: cioè la fazione religiosa di maggioranza nel paese, che ha tratto i maggiori benefici dalla guerra del 2003 e dalla caduta di Saddam, riprendendo un ruolo dominante nel paese dopo oltre cinque secoli di sudditanza ai sunniti.
Ma gli sciiti iracheni non rappresentano un blocco omogeneo. I loro legami con diverse grandi famiglie di capi religiosi, l'atteggiamento avuto durante gli anni della dura repressione di Saddam, e gli stretti rapporti con il vicino Iran specialmente durante la guerra degli Anni Ottanta tra i due paesi, hanno creato spaccature e divisioni che gli scontri fratricidi di Bassora hanno riproposto con maggiore evidenza. L'Iran mantiene rapporti con ogni fazione: con il gruppo leale alla famiglia degli Al Hakim, che rappresenta il partito più numeroso al potere a Baghdad, con il gruppo del primo ministro Al Maliki, e anche con il partito degli Al Sadr le cui milizie si battono contro il governo ormai da tempo. Inoltre, ad alimentare legami trasversali, sono intervenuti sia gli Usa che l'Iran, sostenendo il nuovo governo iracheno, dopo la caduta di Saddam.
Il primo ministro di Baghdad si è più volte recato a Teheran, e il presidente iraniano un mese fa per la prima volta ha visitato la capitale sulle rive del Tigri, mentre si sono creati ormai rapporti economici rilevanti tra i due paesi.
Durante gli scontri di Bassora i rappresentanti dei tre principali gruppi sciiti si sono recati a Qom in Iran. Qui Qassem Suleimani, un generale delle guardie rivoluzionarie del regime iraniano ha agito da mediatore, e apparentemente con successo. Queste sono le stesse guardie rivoluzionarie che i generali Usa in Iraq accusano di cooperare militarmente contro la coalizione occidentale.
Ma se a Bassora la cronaca non ha neppure citato i sunniti che rappresentano circa un quarto della popolazione irachena, il futuro del paese unito non può essere comunque costruito senza di loro. Ormai sono quasi 90.000 le forze paramilitari sunnite appoggiate dagli americani, alcuni sotto il nome di «Figli dell’Iraq», che combattono nel paese contro i simpatizzanti di Al Qaeda. Tutti insieme dovrebbero confluire nelle forze regolari, per portare così a termine il piano di riconciliazione nazionale non ancora realizzato. Il ruolo dei sunniti in Iraq è al centro delle attenzioni dell’Arabia Saudita, alleata di vecchia data degli Usa, ma che non ha ancora aperto una sua ambasciata a Baghdad.
Tutto questo intreccio solleva un interrogativo: è possibile immaginare una riconciliazione nazionale in Iraq senza un comune denominatore tra le potenze regionali e internazionali? E se è necessario un comune denominatore, allora occorre pensare ad una architettura regionale. Non c’è bisogno di formalizzare accordi e trattati, si potrebbe cominciare con l’approccio che ha funzionato in altre parti del Medio Oriente in epoche passate: raggiungere intese non scritte su alcune «linee rosse» ben precise, invalicabili, se non pagando un prezzo assai alto. Intanto sia i partiti sciiti che sunniti si preparano alle elezioni provinciali di ottobre, che sono forse il vero obiettivo della battaglia di Bassora, e che potranno dare molte indicazioni sulla unità irachena da ricostruire.
Sul CORRIERE della SERA Ennio Caretto intervista Paul Berman che dichiara
Dopo le loro deposizioni (di David Petraeus e dell'amabasciatore a Bagdad Crocker, ndr) è chiaro che sarà impossibile ridurre il livello delle truppe americane in Iraq nei prossimi mesi
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