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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Repubblica Rassegna Stampa
27.03.2008 Cosa incoraggia davvero la violenza in Iraq ? I soldati americani sono tutti poveri ?
le risposte a queste domande sfatano i luoghi comuni

Testata:Il Foglio - La Repubblica
Autore: Christian Rocca - Michele Serra
Titolo: «C'è un effetto incoraggiamento per la guerriglia in Iraq, eccolo - Altro che "tutti poveri" i soldati americani - L'amaca -»

Da Il FOGLIO del 27 marzo 2008

Milano. Due ricercatori di Harvard, l’autorevole tempio della cultura liberal d’America, hanno presentato a fine febbraio un rapporto di 49 pagine dal titolo “Is There an Emboldenment Effect? Evidence from the Insurgency in Iraq”, “C’è un effetto incoraggiamento? Prove dalla guerriglia in Iraq”. Il risultato dello studio è urticante e imbarazzante per gli stessi autori: i dubbi espressi dall’opinione pubblica americana sull’occupazione militare dell’Iraq hanno un misurabile “effetto incoraggiamento” sulla guerriglia irachena. Più si è criticata la guerra e si è invocato il ritiro, è il succo del rapporto dei due professori di Harvard, più i nostalgici del dittatore baathista e i guerrasantieri di Bin Laden hanno aumentato la loro potenza di fuoco contro il nuovo Iraq, probabilmente perché convinti di essere a un passo dal provocare il ritiro americano. I due ricercatori riconoscono che l’aumento degli attacchi della guerriglia a fronte di una maggiore presenza della voce pacifista è il costo necessario del modo in cui una società democratica combatte le guerre e, inoltre, temono che il risultato della ricerca possa essere strumentalizzato dai sostenitori della destituzione di Saddam per silenziare le voci contrarie.
Restano i dati. I due studiosi, Jonathan Monten e Radha Iyengar della Kennedy School of Government e del dipartimento sanità dell’ateneo del Massachusetts, hanno dimostrato dati alla mano che dopo ogni periodo di intensa copertura critica del conflitto negli Stati Uniti, ma anche dopo la pubblicazione di sondaggi favorevoli al ritiro delle truppe, sono seguiti piccoli ma significativi aumenti del numero di attacchi terroristici su civili iracheni e sui militari americani. La crescita degli attacchi terroristici, sostiene il rapporto, è più significativa nelle zone dell’Iraq con maggior accesso, per numero di satelliti televisivi in proporzione alla popolazione, alla copertura mediatica dei telegiornali internazionali.
Lo studio contraddice la posizione degli oppositori della guerra, dal partito democratico al New York Times, secondo cui gli iracheni sono costretti a prendersi maggiori responsabilità ogni volta che in America si parla di ritiro delle truppe. Il candidato democratico Barack Obama, senatore dell’Illinois, aveva addirittura sostenuto che la rivolta sunnita contro al Qaida è cominciata nel momeno esatto in cui nella provincia di al Anbar è arrivata la notizia della vittoria dei democratici pro ritiro di Nancy Pelosi alle elezioni di metà mandato di fine 2006. I due ricercatori, per conto del National Bureau of Economic, hanno invece scritto di aver misurato un aumento degli attacchi terroristici tra il sette e il dieci per cento nel momento di massima intensità del dibattito politico di Washington a favore del ritiro, cioè proprio nelle due settimane precedenti le elezioni di metà mandato citate da Obama.
La critica ai due ricercatori, i quali hanno detto di aver “trovato nei periodi immediatamente successivi ai picchi di dichiarazioni contrarie alla fermezza un aumento degli attacchi della guerriglia”, è quella di non aver condotto uno studio analogo sull’impatto delle dichiarazioni a favore dell’impegno militare in Iraq, le uniche in grado di stabilire se la politica interventista della Casa Bianca provochi o meno una maggiore dose d’odio nei confronti degli alleati iracheni di Bush. Gli stessi critici, sentiti dal Washington Times, credono che i risultati della ricerca siano validi e sostengono che il Quarterly Journal of Economics del Massachusetts Institute of Technology, a cui è stato sottoposto lo studio per una conferma scientifica, sia pronto a confermarne la validità.

C’è meno attenzione per il fronte
Il New York Times ha scritto che in linea di massima i media americani sono meno attenti alla guerra rispetto ai primi anni. Secondo il Pew Institute, soltanto il 30 per cento della popolazione segue l’evoluzione del conflitto “molto da vicino”, era il 40 per cento fino al 2006. Secondo il Times il crollo della copertura mediatica è parallelo e può essere spiegato dalla minore attenzione del pubblico. James Taranto, del Wall Street Journal, fornisce una doppia lettura alternativa a quella del Times. Intanto crede che il declino di attenzione popolare è spiegato dalla minore copertura mediatica, non viceversa. E poi, consultando i dati della ricerca dei due studiosi di Harvard, si aspetta di entrare in un circolo virtuoso: “Meno violenza in Iraq vuol dire meno copertura mediatica, che si trasforma in un’ulteriore diminuzione della violenza. Magari un giorno scopriremo che l’America ha vinto in Iraq alcuni mesi prima, ma che nessuno se ne è accorto perché i giornalisti erano impegnati a fare altro”.

Una breve nota sul mito della povertà dei soldati americani:

L’umoralista di Repubblica, Michele Serra, ieri ha scritto che i quattromila morti americani in Iraq sono “quasi tutti poveri”, perpetuando uno dei più diffusi luoghi comuni sull’esercito americano che la vetero sinistra italiana istruita a pane e Michael Moore continua a sostenere a dispetto di cifre e statistiche reali. Anche sui morti iracheni, “centinaia di migliaia”, Serra non tiene conto delle cifre fornite non dal Foglio, ma dall’ottimo corrispondente di Repubblica, Mario Calabresi, che invece ne conta “novantamila”. Ma questa è un’altra storia. Gli intellettuali engagé non possono sopportare l’idea che in America, cioè in un paese libero, ci siano migliaia di giovani che si arruolano liberamente nell’esercito del proprio paese, magari per contribuire a difenderlo. Ai loro occhi non è possibile, anche perché l’America è un paese vile, imperialista e guerrafondaio. Questo non è un paese per eroi, ma per vittime. E le prime vittime sono i soldati, carne da macello per i figli di papà di Washington e del complesso militare-industriale. E quindi chi si arruola non può che essere povero, poco istruito, sfigato. Vittima, non eroe.
Peccato che non sia vero, secondo nessuna ricerca demografica seria sulla composizione dell’esercito. Gli studi della Heritage Foundation e il più recente dell’indipendente Congressional Budget Office del Congresso a guida democratica dimostrano che il livello di istruzione degli arruolati è ben superiore alla media della popolazione civile: dal 1985 oltre il 90 per cento delle reclute è diplomato, contro il 70 per cento del 1973. Non è vero, inoltre, che il numero di nuove reclute aumenta con la crescita del tasso di disoccupazione. Anzi la correlazione tra disoccupazione e tasso di arruolamento è negativa. Quanto alla povertà dei soldati, le fasce più povere della società americana nell’esercito sono le meno rappresentate e per giunta in calo (il 14 per cento, contro il 18 per cento del 1999), così come quelle più ricche (anche se per la Heritage sono sovrarapresentate). In generale, tutti gli studi sostengono che nell’esercito americano a essere sovrarapresentati sono gli appartenenti alla classe media.

"L'amaca" di Serra, da La REPUBBLICa del 26 marzo:

Qualunque opinione si abbia della guerra in Iraq, non si può non meditare sulla oscena disparità tra il minuzioso conto dei quattromila morti americani (quasi tutti ragazzi giovani e quasi tutti poveri) e il calcolo all´ingrosso delle vittime irachene, pare centinaia di migliaia tra militari e civili. Oh, certo, da noi siamo abituati a tenere la vita in così grande conto, che quanto la morte rintocca non passa inascoltata. Ma insomma, che guerra è una guerra in cui i morti di una parte sono comunque protagonisti, i morti dell´altra parte una massa di comparse anonime, come nei film di Tarzan? Ragioniamo come se la disponibilità di carne da cannone, in quelle zone del mondo, fosse una "normale" risorsa (in mancanza di altre), e il brulicare della vita, e le raffiche di nascite, rendessero logica la facilità e l´abbondanza della morte. Ma chi muore e non voleva, chi è amputato di un figlio o di una moglie e non voleva, siamo sicuri che non conti anche lui i suoi morti con la stessa implacabile desolazione? E dunque, c´è qualche autorità mondiale, politica o istituzionale o intellettuale, che provi ad aggiornare i calcoli tenendo presenti anche le montagne di cadaveri arabi? Oppure, come cantava De André, "il dolore degli altri è soltanto un dolore a metà"?

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