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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
25.03.2008 Bilancio della guerra in Iraq
un'analisi di Maurizio Molinari e un'intervista a David Petraeus

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Francesca Caferri
Titolo: «I morti Usa in Iraq a quota quattromila - "Quattromila morti americani ma in Iraq siamo vicini alla svolta"»
Da La STAMPA del 25 marzo 2008:

I morti americani in Iraq hanno toccato quota quattromila nel giorno in cui la guerriglia ha lanciato il più massiccio attacco contro la Zona Verde di Baghdad degli ultimi mesi, mentre a Mosul un kamikaze jihadista uccideva 13 iracheni. L’ondata di violenze delle milizie sciite e sunnite si è concentrata nella giornata di domenica. Tutto è iniziato alle 6 del mattino quando almeno cinque razzi sono piovuti dentro la Zona Verde della capitale irachena, dove hanno sede gli uffici del governo nazionale, il Parlamento e l’ambasciata Usa.
I razzi sono caduti, secondo testimoni, molto vicini alla sede diplomatica americana e nelle ore seguenti è continuato il lancio di mortai, obbligando i funzionari civili presenti nell’area a restare nei rifugi oppure «lontani da porte e finestre», come ordinato da un apposito sistema di allarme pubblico. Due di loro, un americano e un giordano, sono rimasti feriti. Razzi e mortai sono stati lanciati da un quartiere di Baghdad dove, secondo l’intelligence Usa, si trovano molti seguaci dell’imam sciita Moqtada al-Sadr e ciò fa supporre che i suoi recenti proclami di tregua siano stati abbandonati a favore di un rinnovato impegno militare. Il comandante delle truppe americane in Iraq, generale David Petraeus, ha accusato ieri esplicitamente l’Iran di essere dietro al-Sadr: «I razzi lanciati sulla Zona Verde sono stati forniti dall’Iran, sono di produzione iraniana». E i gruppi che li hanno tirati, ha aggiunto il generale dicendo di possedere delle prove, sono stati finanziati e addestrati dalla brigata Al Quds dei Pasdaran.
Dopo il tramonto le pattuglie americane sono andate a perlustrare alcune delle zone da cui erano partiti gli attacchi e proprio nel corso di queste operazioni un potente ordigno lasciato sul ciglio della strada ha investito un blindato dell’Us Army causando la morte di quattro soldati e il ferimento di un quinto. E’ stata così sorpassata la quota di 4000 miliari americani morti in Iraq dal marzo 2003, quando venne lanciata l’invasione per rovesciare il regime di Saddam Hussein. I portavoce Usa a Baghdad hanno commentato l’evento scegliendo un basso profilo: «Ogni morte è un momento drammatico, nessuna vittima è meno importante delle altre», ha detto l’ammiraglio Gregory Smith. Mentre il vicepresidente americano, Dick Cheney, ha ammesso che «potrebbero esservi delle conseguenze negative sull’opinione pubblica americana» che nelle ultime settimane aveva reagito alla significativa diminuzione delle violenze registrando nei sondaggi un aumento di fiducia nelle possibilità di successo in Iraq.
Delle quattromila vittime Usa 3269 sono state uccise dal fuoco nemico - in combattimento o attentati - e 737 in eventi non dovuti alle operazioni belliche come incidenti stradali e suicidi.
La domenica di sangue in Iraq ha avuto come terzo fronte la città di Mosul, nel Nord, dove un kamikaze sunnita si è lanciato con un’auto piena di esplosivo contro il quartier generale delle forze irachene causando la morte di almeno 13 soldati ed il ferimento di altri 42. L’attentato era stato ben preparato: le guardie avevano individuato il veicolo-bomba ma sparargli contro è servito a poco in quanto aveva i vetri blindati ed è riuscito a raggiungere il cancello d’entrata.
Sempre a Mosul vi sono stati almeno altri 20 civili iracheni uccisi. Era stato Petraeus a dichiarare alla Cnn alcuni giorni fa che «Mosul sta diventando una zona molto calda» prevedendo «un aumento delle violenze nelle prossime settimane». Gli jihdisti sunniti di Al Qaeda sopravvissuti alla campagna invernale di Petraeus si sono concentrati a Mosul, terza città dell’Iraq con oltre 7 milioni di abitanti. Fonti militari al Pentangono fanno sapere che proprio l’incombere di una nuova battaglia contro Al Qaeda è il motivo che ha spinto Petraeus a rallentare il previsto rientro in patria dei 30 mila soldati di rinforzi inviati da Bush all’inizio del 2007.

Un'intervista al generale David Petraeus, da La REPUBBLICA:

Sono quattromila i morti americani in Iraq dall´inizio della guerra. Nel giorno in cui il contatore della morte raggiunge la cifra tonda e apre dibattiti e polemiche negli Stati Uniti, il generale David Petraeus, comandante in capo delle forze Usa, sorseggia caffè nero nel suo quartier generale insediato in quello che era il palazzo presidenziale di Saddam Hussein.
Sorride e cerca di trasmettere un ottimismo che le cifre non sembrano giustificare: «La situazione migliora rispetto a pochi mesi fa. Abbiamo dei momenti difficili, è vero, ma la sicurezza in Iraq si sta lentamente rafforzando. Al Congresso dirò che la strada che abbiamo preso è quella giusta. Ed è la sola possibile. È presto per parlare di vittoria ma, continuando così, ci arriveremo».
In un ora di intervista il generale ostenta quell´immagine, un po´ fuori dai clichè sui militari cui tiene tanto. Racconta qualche particolare un po´ più privato. Dice che qui a Bagdad, nel tempo libero, legge le biografie di uomini che, come lui, si sono trovati ad affrontare sfide militari durissime. A giorni alterni va a correre con i suoi soldati, dieci minuti ogni settimana li dedica al barbiere. Ha fatto un punto di onore di assistere, appena può, alle cerimonie in memoria dei militari americani caduti in Iraq. E ci regala anche una piccola dedica per l´Italia: «Vicenza è il posto più bello a cui sono stato assegnato: se potessi, darei via due stelle di generale per tornarci».
Generale Petraeus, le notizie degli ultimi giorni non sono buone. A parte lo spaventoso bilancio di 4000 morti in cinque anni, c´è da dire che questa è stata una Pasqua di sangue con lanci di razzi nella Zona verde di Bagdad e 60 morti in tutto il paese. L´Iraq sta tornando indietro?
«Quattromila morti significano che l´Iraq è una realtà molto dura e difficile, come io ripeto spesso. Per quanto riguarda gli attacchi alla Zona verde, sono stati compiuti da i cosiddetti "gruppi speciali", addestrati e armati dall´Iran. Erano razzi iraniani quelli che sono stati lanciati qui. E questo è molto deludente: la promessa fatta dal presidente iraniano Ahmadinejad e dagli altri leader del suo paese alle controparti irachene era di smettere di gettare benzina sul fuoco di una realtà che è già abbastanza esplosiva. Non è questo il tipo di aiuto che gli iracheni vogliono dal loro vicino: vorrebbero una relazione costruttiva, fatta di commerci, pellegrini in visita, capitali iraniani in Iraq. Non certo armi».
Però anche i terroristi sunniti sono tornati a farsi sentire, con l´attacco a Mosul. Questo non la preoccupa?
«Gli attacchi di Al Qaeda sono il risultato della pressione a cui sono sottoposti, in particolare a Mosul: questa è una delle aree dove Al Qaeda ha avuto a lungo maggiore spazio di manovra e dove nell´ultimo anno si è concentrata maggiormente l´azione delle forze della coalizione e di quelle irachene. Si tratta di un´area importante dal punto di vista strategico, ci sono le strade per la Siria e per l´Iran, e si tratta di un´area con popolazione mista. Quello che i terroristi hanno fatto a Pasqua è quello che fanno ogni volta che li colpiamo duramente: cercare di fermarci. E francamente credo che questo attentato possa anche avere a che fare con la testimonianza che io e l´ambasciatore Crocker ci apprestiamo a dare al Congresso: non vogliono che ci siano solo buone notizie».
Si sente di dire che il Paese è sulla strada della riconciliazione?
«La situazione della sicurezza è molto migliorata. Non voglio negarlo, domenica è stata una brutta giornata: ma forse lo notiamo di più perché ci sono meno brutte giornate rispetto a otto mesi fa. Il numero degli attacchi è sceso del 60% rispetto al giugno 2006, il livello di morti fra i civili è sceso del 60% da dicembre 2006: è un segno di progresso. Non vogliamo dichiarare vittoria o festeggiare, perché davanti a noi c´è ancora molto duro lavoro da fare. Ci sono innumerevoli sfide e ostacoli ancora da superare in Iraq, ma ci sono stati passi verso la riconciliazione: la legge di budget, che distribuisce le risorse in modo equo, quella che prevede elezioni provinciali entro l´anno e l´amnistia, solo per fare degli esempi. Purtroppo la realtà è che il tessuto della società irachena è stato terribilmente danneggiato e che ci vorranno anni per rimetterlo a posto».
Uno dei meriti più importanti che le vengono riconosciuti è quello di aver coinvolto i sunniti nella gestione della sicurezza, con il progetto della Sahwa, il Risveglio. Come può però essere certo che un giorno queste persone non torneranno a combattere?
«Stiamo dando a queste persone la possibilità di aiutare a migliorare la sicurezza nelle loro comunità. La chiave del nostro progetto è dare loro un ruolo nel successo del nuovo Iraq invece che nel suo fallimento. Posso dire che in certe aree è inconcepibile pensare che i sunniti permetterebbero il ritorno di Al Qaeda. Al Qaeda ha portato morte, distruzione e un´ideologia wahabita che qui la gente non condivide».
Forse non richiameranno Al Qaeda, ma potrebbero tornare a combattere gli sciiti…
«Di nuovo, l´idea è far partecipare tutti al successo del nuovo Iraq. I sunniti sanno che hanno sbagliato a non partecipare alle elezioni nel 2005 e non faranno lo stesso errore di nuovo, sanno che non possono avere accesso ai benefici delle risorse irachene se non partecipano al governo insieme agli sciiti».
E gli sciiti? Siete in contatto anche con loro?
«Certo. L´idea è applicare questo processo a tutti: affrontare i problemi, dialogare, gridare magari, ma non sparare. Lo sforzo è quello di allargare il dialogo a tutti, compresi gli sciiti, quindi parliamo anche con loro».
Compreso Moqtada al Sadr?
«Parliamo al suo gruppo».
Tutti questi sforzi potrebbero rivelarsi inutili se il governo iracheno non imboccasse la via della riconciliazione nazionale: è soddisfatto con il lavoro che stanno facendo?
«A dire la verità, credo che neanche loro siano soddisfatti di loro stessi. Ma si stanno impegnando a fare qualcosa. Abbiamo iniziato a vedere qualche progresso dal punto di vista politico e ora anche economico: ho appena ricevuto una delegazione di imprenditori stranieri venuti per un accordo con il governo, mi sembra un buon segno».
Però ci sono ancora problemi per quanto riguarda l´inserimento dei sunniti della Sahwa nelle forze di polizia e nell´esercito…
«Il processo è iniziato: in 7000 sono stati accettati solo a Bagdad, 20mila sono già in formazione. Non è certo stato facile, non voglio dire questo: non sono stati sempre i benvenuti da parte di qualche membro del governo. Questo è un governo a maggioranza sciita e si preoccupano del fatto che all´80% i "figli dell´Iraq" sono sunniti, ma del resto queste persone vengono da zone sunnite dove Al Qaeda si era installata e dove loro hanno reagito e l´hanno cacciata. Nel tempo, ci aspettiamo che fra il 20 e il 30% di questi uomini vengano assorbiti da esercito e polizia».
Che quadro farà al Congresso fra pochi giorni della situazione in Iraq?
«Descriverò il livello di sicurezza, l´ambasciatore parlerà del lato politico ed economico. Poi parleremo delle sfide che ci aspettano ancora e illustreremo le raccomandazioni che per allora avremo fatto al Presidente e che per ovvi motivi non posso rivelare ora».
Può però dire cosa pensa della discussione sulla riduzione del numero delle truppe che è in corso negli Stati Uniti…
«L´obiettivo è ridurre le truppe per luglio, ma è questo impegno è in modo molto chiaro condizionato da quelle che saranno le condizioni sul terreno. Non vogliamo mettere a rischio gli obiettivi che abbiamo così duramente raggiunto riducendo le truppe troppo rapidamente».
Nello sforzo che ha fatto, avrebbe voluto avere più supporto dai suoi alleati europei e della Nato? In Italia nelle ultime settimane si è parlato di un possibile ritorno delle truppe in Iraq: le servirebbero?
«Apprezziamo quello che l´Italia ha fatto in passato come membro della coalizione e quello che continua a fare in Iraq. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, le dirò solo che non esiste un comandante militare nella storia che non darebbe il benvenuto a più soldi o più truppe».
Parliamo della maniera in cui le sue truppe stanno operando in Iraq. Avete riscritto i manuali di azione, accanto ai soldati in molte zone ci sono degli antropologi: come e quanto l´Iraq ha cambiato l´esercito americano?
«Ci siamo trovati con un terreno di azione che non era più il deserto aperto, ma la popolazione, il terreno umano. Capire l´ambiente è vitale per quello che facciamo, quindi abbiamo chiesto aiuto agli antropologi. I nostri soldati sono stati bravi a capire la complessità della situazione. Ai leader come me spetta trovare delle buone idee, ma farle arrivare a chi le mette in atto sul terreno è la chiave del successo: l´intera istituzione delle Forze armate, e in particolare l´esercito e i Marines hanno cambiato i loro manuali e il loro modo di agire per raggiungere l´obiettivo».
L´ultima domanda è quella che le fanno tutti: generale Petraeus, sarà lei il prossimo vice-presidente degli Stati Uniti?
«Assolutamente no. Per risponderle meglio, citerò per lei una canzone country di Lory Morgan. Dice: "Che ne dici della parola no? Non la capisci?"».
Quindi quale pensa che sarà il suo futuro dopo l´Iraq?
«Sarò felice di continuare a servire il mio paese in uniforme per tutto il tempo in cui avrà bisogno di me. Tutto qui».

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