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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Unità - Il Manifesto Rassegna Stampa
20.03.2008 Nella prima linea della propaganda antiamericana
ci sono Robert Fisk, Roberto Rezzo, Giovanna Botteri e Giuliana Sgrena

Testata:L'Unità - Il Manifesto
Autore: Robert Fisk - Roberto Rezzo - Giuliana Sgrena
Titolo: «Iraq, cronaca di un inferno - «Ho visto la guerra disastrosa di Bush» - Lustro di guerra»
L' UNITA' e Il MANIFESTO in prima linea nella guerra di propaganda contro la democrazia irachena e lo sforzo americano per sostenerla.
Robert Fisk sull'UNITA' spiega che dovremmo imparare a "lasciare in pace i popoli musulmani", cioè a lasciare a loro le dittature, e a noi il rischi costante del terrorismo:


Sono passati cinque anni e non abbiamo imparato nulla. Ad ogni anniversario sentiamo rimbombare i nostri passi, il selciato è sempre più sconnesso, la sabbia sempre più fine. Cinque anni di catastrofe in Iraq e mi viene da pensare a Churchill che alla fine chiamò la Palestina un «disastro infernale».
Ma abbiamo già fatto questi paragoni e sono volati via nella brezza del Tigri. L’Iraq è una palude di sangue. E, ciò nonostante, abbiamo forse dei rimorsi? Forse ci sarà una commissione di inchiesta. Forse. E poi l’inadeguatezza non è stata il nostro unico peccato.
Oggi siamo impegnati in una polemica sterile. Cosa non è andato per il verso giusto?
Come mai la gente - il senatus populusque romanus del mondo moderno - non si è ribellata quando abbiamo raccontato bugie sulle armi di distruzione di massa, sui legami tra Saddam, Osama bin Laden e l’11 settembre? Perché abbiamo permesso che accadesse? E come mai non abbiamo fatto un piano preciso su come gestire il dopoguerra?
Ora da Downing Street ci dicono che i britannici hanno tentato di far ragionare gli americani. In realtà ci abbiamo provato prima di giungere alla assoluta e totale convinzione che era giusto affrontare questa guerra illegale. Non c’è una grande pubblicistica sulla debacle irachena e ci sono precedenti per quanto riguarda la pianificazione del dopoguerra, ma non è questo il punto. La nostra situazione per ciò che concerne l’Iraq è molto, ma molto più terribile.
Quando nel 2003 gli americani lanciarono il loro attacco contro l’Iraq con i missili che fischiavano sul deserto diretti verso una centinaio di città e cittadine irachene, io me ne stavo seduto al quinto piano del Palestine Hotel a Baghdad impossibilitato a prendere sonno per il fragore delle esplosioni e immerso nella lettura del libro che mi ero portato per riempire quelle lunghe, buie, pericolose ore. «Guerra e Pace» di Tolstoj mi ricordava come un conflitto possa essere descritto con sensibilità, grazia ed orrore (consiglio la Battaglia di Borodino). Avevo con me anche numerosi articoli di giornale. Nella mia cartellina c’era anche un lungo pezzo di Pat Buchanan, scritto cinque mesi prima e ancora oggi mi colpiscono l’assoluta onestà storica e la preveggenza di quelle parole: «con la reggenza in stile MacArthur a Baghdad, la pax americana raggiungerà il suo apogeo. Ma poi ci sarà il riflusso della marea perché se c’è una cosa in cui eccellono i popoli islamici è nel cacciare le potenze imperiali con la guerriglia e il terrorismo. Hanno cacciato i britannici dalla Palestina e da Aden, hanno cacciato i francesi dall’Algeria, i russi dall’Afghanistan, gli americani dalla Somalia e da Beirut, gli israeliani dal Libano. Abbiamo iniziato la strada che porta all'impero e al di là della prossima collina incontreremo quelli che hanno iniziato prima di noi. La sola lezione che impariamo dalla storia è che non impariamo nulla».
Con quanta facilità quegli ometti ci hanno trascinato all’inferno senza nulla sapere di storia o, quanto meno, senza alcun interesse per la storia. Nessuno di loro aveva letto qualcosa sull’insurrezione irachena del 1920 contro l’occupazione britannica né sulla brusca e brutale sistemazione della questione irachena ad opera di Churchill l’anno seguente.
Sui nostri radar storici non è apparso nemmeno Crasso, il più ricco del generali romani, che chiese la corona da imperatore dopo aver conquistato la Macedonia - «Missione compiuta» - e che poi, animato da desiderio di vendetta, si era apprestato a distruggere la Mesopotamia. In un luogo nel deserto non lontano dall’Eufrate, i Parti - antenati degli attuali insorti iracheni - annientarono le legioni romane, mozzarono la testa a Crasso e la rispedirono a Roma piena d’oro. Oggi avrebbero realizzato un video della decapitazione di Crasso.
A riprova della loro monumentale arroganza, questi ometti che ci hanno trascinato in guerra cinque anni fa, oggi ci dimostrano di non aver imparato nulla. Anthony Blair dovrebbe essere trascinato in tribunale per aver mentito. E invece ora ha la presunzione di portare la pace in Palestina, di risolvere il conflitto arabo-israeliano che ha contribuito in larga misura ad aggravare. Ed ora l’uomo che ha cambiato idea riguardo alla legittimità della guerra, osa proporre di sottoporre gli immigranti ad un test per concedere loro la cittadinanza britannica. La prima domanda, ritengo, dovrebbe essere: quale procuratore generale dalle mani macchiate di sangue con le sue menzogne ha contribuito a mandare a morire 176 soldati britannici? E la seconda domanda: come è riuscito a farla franca?
Ma in un certo senso la stupidità della proposta di Lord Goldsmith ci aiuta a comprendere la debolezza e l’assurdità del nostro processo decisionale. I grandi temi con cui dobbiamo fare i conti - si tratti di Iraq o Afghanistan, di economia americana o di riscaldamento globale, di piani di invasione o di “terrorismo” - non vengono discussi in funzione di importanti scadenze politiche, ma nel rispetto dei palinsesti televisivi e degli orari delle conferenze stampa.
I primi raid aerei sull’Iraq coincideranno con il prime-time televisivo negli Stati Uniti? Fortunatamente sì. I primi soldati americani entreranno a Baghdad durante i programmi televisivi che vanno in onda all’ora di colazione? Naturalmente. La cattura di Saddam Hussein verrà annunciata da Bush e Blair contemporaneamente? Ma tutto questo è un aspetto del problema. Sì è vero, Churchill e Roosevelt discussero accanitamente sul momento in cui bisognava dare l’annuncio che la guerra in Europa era finita. E furono i russi a rompergli le uova nel paniere. Ma noi dicemmo la verità. Quando i soldati britannici si stavano ritirando in direzione di Dunquerque, Churchil dichiarò che i tedeschi «erano penetrati in profondità e che avevano seminato il panico e la confusione tra le nostre linee».
Perché Bush e Blair non ci hanno informato quando gli insorti iracheni hanno cominciato ad attaccare le forze di occupazione occidentali? Forse perché erano troppo occupati a raccontarci che le cose stavano andando meglio, e che i ribelli non «avevano scampo».
Il 17 giugno 1940 Churchill disse al popolo britannico: «Le notizie che arrivano dalla Francia sono pessime e sono addolorato per i valorosi francesi che hanno avuto questa terribile disgrazia». Perché Blair o Bush non ci hanno detto che le notizie che giungevano dall’Iraq erano pessime e che erano addolorati - magari appena qualche lacrimuccia per un minuto o due - per gli iracheni?
E questi erano gli uomini che avevano avuto la temerarietà, l’incredibile coraggio di atteggiarsi ai Churchill della situazione, di scimmiottare la parte degli eroi in una sorta di riedizione della seconda guerra mondiale, al punto che la Bbc definiva gli invasori “alleati” e dipingeva il regime di Saddam Hussein come il Terzo Reich.
Naturalmente quando andavo a scuola i nostri leader - Attlee, Churchill, Eden, Macmillan o Truman, Eisenhower e Kennedy negli Stati Uniti - avevano esperienza di guerra, quella vera intendo. Oggi nemmeno un leader occidentale ha esperienze di prima mano in materia di conflitti bellici. Quando ebbe inizio l’invasione anglo-americana dell’Iraq, in Europa il principale oppositore della guerra era Jacques Chirac che aveva combattuto in Algeria. Ma ora non è più al potere. Così come non è più al potere Colin Powell, un reduce del Vietnam che tuttavia si era fatto abbindolare da Rumsfeld e dalla Cia.
E non di meno per uno strano e terribile scherzo della storia gli statisti americani più assetati di sangue - Bush e Cheney, Rumsfeld e Wolfovitz - non hanno mai sentito il rumore di un colpo d’arma da fuoco o non hanno combattuto per il loro Paese quando ne hanno avuto l’occasione. Ci possiamo meravigliare se la Casa Bianca va pazza per espressioni hollywoodiane come «Colpisci e terrorizza»? I film sono la loro unica esperienza in materia di conflitti. E lo stesso dicasi per Blair e Brown.
Churchill dovette giustificare la perdita di Singapore davanti alla Camera dei Comuni gremita di parlamentari. Brown non intende fornire giustificazioni sull’Iraq prima che la guerra sia finita.
È una grottesca e lapalissiana verità che oggi - dopo tutti gli atteggiamenti tronfi dei nostri nanetti cinque anni fa - ci sia finalmente consentita una seduta spiritica con i fantasmi della seconda guerra mondiale. Le statiche possono fare la parte del medium e la stanza deve essere avvolta nelle tenebre. Ma è un dato di fatto che il totale dei caduti americani in Iraq (3.978) supera di parecchio il numero dei soldati americani caduti in occasione dello sbarco in Normandia (3.384 morti e dispersi), il 6 giugno 1944, ed è superiore di oltre tre volte al totale dei soldati britannici morti ad Arnhem quello stesso anno (1.200).
Sono appena un terzo delle perdite totali (11.014) subite dall’intero corpo di spedizione britannico dall’invasione tedesca del Belgio all’evacuazione da Dunquerque nel giugno del 1940. Il numero dei soldati britannici morti in Iraq - 176 - è quasi pari al totale dei caduti britannici nella battaglia di Bulge nel 1944-45 (poco più di 200). Il numero dei feriti americani in Iraq - 29.395 - è più di nove volte superiore al numero dei feriti americani il 6 giugno 1944 (3.184) e oltre un quarto dei feriti americani in tutta la guerra di Corea del 1950-53 (103.284).
I caduti iracheni consentono un raffronto ancor più indicativo con la seconda guerra mondiale. Pur accettando le stime più prudenziali sul numero delle vittime civili - da 350.000 ad un milione - siamo di gran lunga oltre il numero dei civili britannici morti a Londra sotto i bombardamenti nel 1944-45 (6.000) e ben oltre il totale dei civili uccisi dai bombardamenti tedeschi in tutto il Regno Unito - 60.595 morti e 86.182 feriti gravi - dal 1940 al 1945.
Il numero dei civili morti in Iraq dal giorno dell’invasione anglo-americana è superiore al totale dei soldati britannici caduti durante la seconda guerra mondiale, cioé a dire 265.000 morti (alcuni storici dicono 300.000) e 277.000 feriti. Pur stando alle stime più prudenziali, resta il fatto che i civili della Mesopotamia hanno subito sei o sette Dresda o due Hiroshima.
E non di meno tutto questo ci allontana dalla terribile verità contenuta nell’ammonimento di Buchanan. Abbiamo inviato i nostri eserciti nella terra dell’Islam. Lo abbiamo fatto con l’unico incoraggiamento di Israele le cui false informazioni di intelligence sulla situazione irachena sono state dimenticate dai nostri governanti, impegnati a versare lacrime di coccodrillo sulle centinaia di migliaia di iracheni morti.
Il prestigio militare americano ha subito un colpo duro e irrimediabile. Se ci sono - secondi i miei calcoli - soldati occidentali nel mondo musulmano in numero 22 volte superiore rispetto all’XI e al XII secolo all’epoca delle Crociate, dobbiamo chiederci cosa stiamo facendo. Siamo lì per il petrolio? Per la democrazia? Per Israele? Per paura delle armi di distruzione di massa? O per paura dell’Islam?
In maniera molto superficiale stabiliamo una correlazione tra Iraq e Afghanistan. Se Washington non si fosse fatta distrarre dall’Iraq, i talebani non sarebbero riusciti a ritirare fuori la testa, almeno questa è la vulgata attuale. Ma Al Qaeda e lo sfuggente Osama bin Laden non si sono fatti distrarre ed è per questo che hanno cominciato ad operare in Iraq e poi hanno messo a frutto la loro esperienza per attaccare le truppe occidentali in Afghanistan impiegando un’arma fino ad allora sconosciuta in quel Paese: gli attentatori suicidi.
E azzardo una terribile previsione: abbiamo perso l’Afghanistan così come abbiamo perso l’Iraq e come, altrettanto certamente, “perderemo” il Pakistan. È la nostra presenza o il nostro potere o la nostra arroganza o il nostro rifiuto di imparare le lezioni della storia e il nostro terrore - sì terrore - dell’Islam che ci stanno trascinando nell’abisso. Fin quando non avremo imparato a lasciare in pace i popoli musulmani, la nostra catastrofe in Medio Oriente sarà sempre più grave. Non c’è alcun rapporto tra Islam e “terrorismo”. Ma c’è uno stretto rapporto tra la nostra occupazione delle terre musulmane e il “terrorismo”. Non è una equazione eccessivamente complicata. E non c’e bisogno di una commissione di inchiesta per capirlo.
© The Independent
Traduzione di
Carlo Antonio Biscotto

Giovanna Botteri, corrispondente della Rai a New York, intervistata da Roberto Rezzo, spinge la sua faziosità al punto di criticare l'informazione americana, compresa quella liberal, per il fatto che non dice solo ed esclusivamente male dei soldati americani impegnati in Iraq.

«Oggi il presidente Bush ha detto che la vittoria in Iraq è più vicina. Sono negli Stati Uniti da otto mesi e sono rimasta molto colpita». Giovanna Botteri, corrispondente della Rai a New York, commenta con l'Unita' l'anniversario dell'invasione Usa nel Golfo, un avvenimento di cui è stata testimone diretta. «Da una parte c'e' un senso della giustizia molto rigoroso che si vede nel caso del governatore costretto a dimettersi perché frequentava un giro di squillo. Dall'altra il presidente si può permettere di continuare a fare affermazioni del genere a proposito di una guerra che è stata un completo disastro per l'America. E soprattutto di guerra cominciata con due bugie scientificamente provate: le armi di distruzione di massa e il coinvolgimento di Saddam negli attentati dell'11 settembre. Che si trattasse di menzogne non lo dice la Sinistra Arcobaleno, lo dice una commissione del Pentagono che ha esaminato 600mila documenti».
Dov'eri cinque anni fa e come ti ricordi quel giorno?
Cinque anni fa ero a Baghdad ed ero arrivata da un pezzo. La paura della guerra si era fatta tangibile con la grande manifestazione di metà febbraio. Noi giornalisti eravamo stati concentrate tutti all'Hotel Palestine. Eravamo circa 400. Alla vigilia dell'attacco Bush manda un messaggio in cui chiede di lasciare immediatamente il Paese, perché le sue truppe non sarebbero state in grado di distinguere tra amici e nemici. C'è stato un fuggi fuggi generale, saremo rimasti meno di novanta. Temevamo soprattutto gli attacchi chimici di cui si parlava con insistenza in quei giorni. Si poteva trasmettere solo dal Ministero delle Telecomunicazioni, durante il normale orario di ufficio. La mia troupe si era portata dietro un videotelefono di contrabbando, rischiando parecchio perché se ci avessero scoperti rischiavamo di essere incriminati come spie. Con quello abbiamo ripreso e mandato in onda l'inizio del bombardamenti per il Tg3 delle 19 in Italia».
Doveva essere una guerra lampo. Voi che eravate sul posto l'avete mai creduto possibile?
«Sulla carta una guerra lampo lo è stata. Nell'aprile del 2003 i primi soldati Usa entrano nella capitale. Si respirava una speranza generale che mi faceva venire in mente i racconti di mia nonna prima dell'arrivo degli americani in Italia nella Seconda guerra mondiale. Tutti i sogni si sono infranti quando per prima cosa gli americani hanno occupato il Ministero del petrolio e lasciato il Museo nazionale in preda ai saccheggiatori. Gli iracheni hanno capito immediatamente che non erano arrivati per portare benessere e democrazia».
Il repubblicano John McCain fa campagna elettorale con la promessa di un'occupazione infinita. Perché è ancora un argomento spendibile?
«Io ho incontrato molti veterani, le loro famiglie, ho cercato di capire come hanno vissuto questa tragedia. Questo è un Paese molto legato all'esercito, all'orgoglio della bandiera. I soldati sono partiti con l'idea di difendere l'America dai terroristi, di liberare gli iracheni. Ma chi li ha mandati? Non c'è ancora stata un'azione di verità, liberatoria per tutti. La verità é che gli Usa escono distrutti da questo conflitto, sotto il profilo economico e dell'isolamento internazionale».
I media americani sono i più presenti in Iraq. Che giudizio dei loro servizi sulla guerra?
«Trovo che ci sia una grande ambivalenza. La cosa più importante è difendere l'immagine eroica dei loro militari. Questo è qualcosa che non si può mettere in discussione. Anche chi critica deve mostrare il soldato che salva l'orfanello o il bimbo malato mandato a curare negli Usa. È la retorica del "siamo quelli bravi". Nemmeno il New York Times può farne a meno».

Giuliana Sgrena sul MANIFESTO accusa gli americani di non volere "l'informazione indipendente in Iraq". Dovrebbe aver capito che a non volere l'informazione in Iraq sono i terroristi, ma l'ideologia non glielo consente.
Ecco il testo:



Cinque anni di menzogne. Bush ha voluto la guerra contro l'Iraq sulla base di una bugia (la presenza di armi di distruzione di massa) e continua a celare la sconfitta dietro infondati presunti successi. La realtà viene nascosta dietro un muro di falsità. Ieri, nel quinto anniversario dall'inizio della guerra, Bush ha parlato di «una grande vittoria nella guerra contro il terrorismo». Peccato che anche la Cia abbia negato l'esistenza di legami di Saddam con al Qaeda, mentre ora invece il terrorismo dilaga in Iraq. Gli unici in grado di sconfiggere il terrorismo sono gli ex militari di Saddam, quei gruppi che Petraeus ha finanziato e armato contro al Qaeda. Un matrimonio di convenienza: i terroristi erano diventati un alleato scomodo e impopolari (con i massacri indiscriminati di iracheni) per la guerriglia. Ma la separazione potrebbe essere imminente e il generale allora si troverà di fronte un nemico più forte: Petraeus non ha avvicinato la pace, anzi l'ha allontanata. Ma Bush non vuole ammetterlo.
La temporanea tregua a Baghdad è stata imposta dai gruppi sunniti sahwa ma non durerà a lungo. Anzi. Gli attentati suicidi degli ultimi giorni hanno fatto ripiombare il paese nella paura. La novità è l'utilizzo di donne kamikaze, l'unica uguaglianza riconosciuta alle irachene che hanno perso diritti e dignità. Succede sempre più spesso che le mogli di sequestrati siano costrette a subire stupri ripetuti in cambio della promessa di rivedere vivo il marito. Che magari poi le abbandonerà perché hanno perso l'onore.
Le vittime aumentano, soprattutto tra i civili. Quante sono le vittime irachene? Le cifre sono le più disparate vanno da 100.000 a un milione. Nessuno conta i morti. L'unica lezione imparata dal Vietnam: se i morti non si contano non esistono. Negli Usa non si possono vedere nemmeno le bare che arrivano da Baghdad. E se non si vedono le bare anche i cadaveri diventano invisibili.
Ma chi si è illuso che Baghdad era cambiata e valeva la pena rientrare ha trovato una città spettrale: i lastroni di cemento che non proteggono più solo la zona verde ma separano quartieri etnicamente ripuliti non servono a dare sicurezza. La gente è terrorizzata: nessuno osa più esprimersi di fronte a un estraneo, nemmeno iracheno, per paura che appartenga a qualche partito o alle milizie che tengono in ostaggio la popolazione. Parlare inglese comporta immediatamente il sospetto di essere in contatto con stranieri, ovvero di essere collaborazionisti. I giornalisti Baghdad vivono nella zona verde oppure asserragliati nell'hotel Hamra, completamente bunkerizzato, dopo essere stato obiettivo di un attacco: l'hotel è pieno ma nessuno sosta più come in passato ai lati della piscina, protetta da alti muri di cinta. I giornalisti girano superscortati e non si fermano mai più di 15 minuti in un posto. Mai una guerra era stata così oscurata prima. E come potrebbe essere diversamente? Una guerra e una occupazione basata sulle menzogne non può tollerare l'informazione, soprattutto se indipendente.

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