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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
20.03.2008 A cinque anni dalla liberazione dell' Iraq
il dibattito politico americano, i progressi sul terreno, le ragioni dell'intervento

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica - Il Foglio - La Stampa
Autore: Christopher Hitchens - Francesca Caferri - Christian Rocca - Maurizio Molinari
Titolo: «La cattiva gestione di una scelta giusta - Nel buio di Bagdad cinque anni dopo - Tra Bush e McCain -“Guerra assurda” Obama sfida Bush»
Un editoriale di Christhopher Hitchens sulla guerra in Iraq, dal CORRIERE della SERA del 20 marzo 2008:

Sotto molti aspetti, l'«anniversario» di una «guerra» non è l'occasione più propizia per un bilancio di ciò che è stato l'intervento anglo-americano in Iraq. Nei saggi che compongono A long short war: the postponed liberation of Iraq (Una lunga guerra lampo: la liberazione ritardata dell'Iraq), dissento con chi immagina che le ostilità siano realmente «iniziate» con un certo ordine emanato da George W. Bush nella primavera del 2003.
Sin dal 1968 gli Stati Uniti iniziarono a intromettersi su larga scala negli affari del Paese, con il ruolo svolto dalla Cia nel colpo di Stato che portò al potere l'ala del partito Baath capeggiata da Saddam Hussein. Non più di un decennio dopo, ci sono prove schiaccianti che gli Usa acconsentirono tacitamente all'invasione irachena dell'Iran, decisione destinata a infliggere danni morali e materiali di tali proporzioni da superare ampiamente le tragedie degli ultimi anni. Nel frattempo, ricordiamo anche la falsa promessa di sostegno ai rivoluzionari curdi da parte di Henry Kissinger, che li incoraggiò a fidarsi dell'appoggio americano per poi tradirli e abbandonarli nel modo più cinico e brutale.
Se avete ancora il coraggio di tenere gli occhi puntati su questi spezzoni di attualità, arriverete al momento in cui anche Saddam passa dall'altra parte e si mette a corteggiare Washington, raccogliendo i massimi consensi nella capitale americana proprio nei giorni in cui lancia la sua campagna di sterminio nelle province del nord, e conservando il favore americano fino al punto in cui decide di «mangiarsi» il vicino kuwaitiano. In ogni decisione successiva, da quella di accorrere in aiuto al Kuwait, a quella di lasciare al potere Saddam, fino alle decisioni di imporre sanzioni internazionali all'Iraq, la politica estera americana ha riscosso un tasso assai elevato di partecipazione pubblica. Se sono sinceri con se stessi, gli americani devono ammettere di non essere mai stati spinti in guerra «con la menzogna». Semmai si sono resi conto progressivamente che l'alternativa era tra la collusione protratta con Saddam Hussein e la decisione di chiudere la partita con lui. Il discorso del presidente alle Nazioni Unite del 12 settembre 2002, per affermare che era venuto il momento di mettere anche il tiranno iracheno davanti a questa scelta, fu senz'altro il miglior discorso dei suoi due mandati presidenziali e certamente quello che ha dato adito al maggior numero di equivoci.
Si ritiene comunemente, e a torto, che il discorso di Bush abbia fatto luce unicamente su due aspetti del problema, ovvero il rifiuto del regime di Saddam di accettare la risoluzione riguardante le armi di distruzione di massa e la complicità dei baathisti con la ragnatela dei gruppi terroristici islamici. Il rifiuto sprezzante di Bagdad di recepire la risoluzione dell'Onu (e non necessariamente la disponibilità effettiva di armi di distruzione di massa) rappresenta una violazione eclatante e facilmente dimostrabile della legge internazionale. Le più recenti stime degli esperti oggi hanno rivelato che il ruolo dei baathisti nel fornire appoggio ai mercanti del terrore suicida fu più esteso di quanto l'opinione pubblica mondiale non potesse sospettare.
Tutto ciò è stato però oscurato dalla pessima gestione dell'intervento armato, anche se a mio parere tanta incompetenza non basta a condannare l'impresa tout court. Un criminale di guerra è stato sottoposto a pubblico processo. La maggioranza curda e sciita è stata salvata dalla minaccia di un rinnovato genocidio. Un immenso apparato militare e di partito, brutalmente concentrato sulla repressione interna e l'aggressione esterna, è stato smantellato. Sono stati individuati nuovi e immensi giacimenti petroliferi. Si sono tenute elezioni politiche ed è stata proposta una bozza di sistema federale come unica alternativa alla spartizione settaria del Paese. Non meno importante, è stata inflitta una vera e propria sconfitta militare ad Al Qaeda e ai suoi sostenitori. Per estensione, è lecito sostenere che i baathisti siriani non avrebbero abbandonato il Libano, né che la gang di Gheddafi avrebbe consegnato gli arsenali di armi di distruzioni di massa della Libia se non fosse stato per l'effetto a catena innescato dall'abbattimento di quella dittatura.
Nessuno di questi sviluppi positivi è stato possibile senza una buona dose di errori e crudeltà. Non riesco a soppesarli, gli uni contro gli altri, come non riesco a controbilanciare la vergogna di Abu Ghraib con la scoperta delle decine di fosse comuni del regime di Saddam. Esiste, tuttavia, una presa di posizione che nessuno può onestamente condividere, ma che molti vorrebbero adottare. Io la chiamo «teoria dell'Iraq alla George Berkeley»: se non abbiamo causato direttamente il crollo di una nazione traumatizzata, allora non dobbiamo sentirci responsabili. Tuttavia, proprio la miseria, il caos e la divisione che suscitano tanta indignazione quando si contempla la situazione irachena, fanno scaturire una domanda inevitabile: come sarebbe stato l'Iraq dopo Saddam senza la coalizione?
Occorre ricordare che tutte, o quasi tutte, le opzioni erano già sfumate. Eravamo già coinvolti fino in fondo nella battaglia per la vita o la morte di quel Paese, e il marzo del 2003 indica semplicemente il momento in cui abbiamo deciso di intervenire, dopo un lungo dibattito pubblico, dalla parte giusta e per motivi giusti. E questa decisione ha ancora oggi il suo peso.
Traduzione di Rita Baldassarre

Da La REPUBBLICA, un reportage di Francesca Caferri:

Neanche di notte Bagdad sembra una città normale. Spente le insegne, svuotate le strade, pochi soldati rimasti a pattugliare i check point, sono le luci a raccontare la storia della capitale irachena. In molte zone quasi non si vedono: la notte è buia come quelle africane. In altre il rumore delle migliaia di generatori è un sottofondo costante, piccolo scotto da pagare, per chi se lo può permettere, per avere radio e televisione accesa. La luce, quella per tutti, a Bagdad manca dal 20 marzo del 2003, quando i primi missili americani cominciarono a colpire la città, segnando l´inizio della guerra. Oggi l´unico punto dove l´elettricità non manca mai è la Zona Verde, che con le ambasciate, la sede del governo e il parlamento illuminati a giorno 24 ore su 24, ricorda a tutti dove sta il potere in Iraq.Sono passati cinque anni esatti dalla notte in cui quel primo missile colpì Bagdad e l´incubo, per l´Iraq, è tutt´altro che finito. A capirlo ci vuole poco. Nelle vie della capitale, come nel resto del paese, i soldati americani si spostano armati fino ai denti anche per tragitti minimi. I convogli delle compagnie private di sicurezza percorrono le strade a tutta velocità, spesso con le armi che vengono fuori dai finestrini: la gente appena li vede arrivare accosta per non essere travolta.
Ovunque si sentono lamentele per la mancanza di personale specializzato in scuole e ospedali: chi ha potuto è fuggito all´estero. «È andata così, questa è la nostra storia. Non ci piace, ma ci è toccata in sorte e non possiamo cambiarla», dice lo sceicco Naana Abaad Karqaz quando gli si chiede cosa pensi della ricorrenza di oggi: 38 anni, statura imponente, occhi chiari, quest´uomo non fa nulla per nascondere la perplessità nei confronti dell´intervento di cinque anni fa. Eppure sono persone come lui a rendere l´anniversario meno amaro per le migliaia - più di 160mila - di soldati americani ancora in Iraq.
Karqaz è il capo del villaggio di Manari, nella provincia di Arab Jabour, una sessantina di chilometri a sud di Bagdad. Per lui oggi è una giornata speciale: dopo settimane di incontri, richieste, promesse e giuramenti è arrivato il momento di ufficializzare la collaborazione del suo villaggio con gli americani. Karqaz ha accompagnato di fronte ai soldati gli uomini della sua zona in cerca di lavoro, garantendo per loro: fra di essi verranno selezionati coloro che entreranno a far parte dei gruppi della Sahwa, il Risveglio, le milizie sunnite finanziate dagli americani e dal governo iracheno per combattere coloro che, a colpi di bombe, continuano a insanguinare l´Iraq. E su gruppi come questi che si è basata la strategia di David Petraeus, comandante americano nel paese, per vincere una guerra durata troppo a lungo: spezzare l´alleanza fra i sunniti ed Al Qaeda, portare i primi dalla parte degli Usa a colpi di dollari è stata - insieme alla decisione di Bush di aumentare i soldati in Iraq e alla tregua dichiarata dagli sciiti di Moqtada al Sadr - l´intuizione che ha consentito a Petraeus di far diminuire la violenza in Iraq e di guadagnarsi la fama di uomo della svolta.
Una fama, dicono molti, che presto potrebbe portarlo a Washington. Per aderire al progetto della Sahwa a Manari sono arrivati in 300, dai 15 ai 45 anni: per ore se sono rimasti seduti nel cortile di una casa in attesa di essere intervistati e di vedersi registrare le impronte delle mani e della retina. «Vogliamo collaborare con gli americani per portare sicurezza nella nostra zona - dice Karqaz - solo così poi riapriranno le scuole, ci sarà lavoro e riusciremo a ripartire». Sulla violenza che per anni ha insanguinato la sua zona e sulla possibilità che fra gli uomini seduti fuori ci siano i responsabili di attacchi contro americani e stranieri, lo sceicco glissa: «Non siamo stati noi. Erano stranieri. Non potevamo fermarli perché ci avrebbero ucciso», dice. Ma probabilmente sa di mentire: a fine giornata due degli uomini del cortile verranno portati via in manette, perché ricercati per un attentato che ha ucciso militari iracheni.
«Sappiamo bene che stiamo collaborando con persone che fino a qualche mese fa ci combattevano - spiega il colonnello Lillibridge, comandante terzo battaglione della 101sima divisione, stanziato nella zona di Manari - ma oggi non abbiamo scelta, né noi né loro».
A giudicare dalla zona intorno a Manari, nonostante i tanti problemi ancora presenti, la scommessa sta funzionando: i check point degli uomini della Sahwa hanno fatto diminuire le esplosioni di mine artigianali, a lungo l´arma più mortale della rivolta contro gli americani, da pochi giorni una cisterna ha sostituito il canale come fonte principale di acqua potabile per la gente del villaggio e sono arrivati i finanziamenti per rimettere su la scuola del villaggio, chiusa da anni. La stessa cosa, lentamente, sta accadendo in molte zone del paese: nella provincia di Anbar, una volta una delle zone più sanguinose dell´Iraq, nel nord, e a Bagdad, dove gli investimenti americani, in termini di soldi e di uomini, sono stati maggiori. «È un processo lento, ma sta funzionando», sostiene il colonello Lillibridge. Alla sua terza rotazione in Iraq, quest´uomo deciso ma gentile ha uno scopo ben preciso: evitarne una quarta. Lo dice scherzando, e poi spiega: «Dobbiamo impegnarci a fare sì che siano gli iracheni a prendere in mano la situazione: quello che possiamo fare noi è guidarli, sostenere i primi passi, ma poi devono essere in grado di agire da soli».
Se e quanto questa tattica possa durare nel lungo periodo è ancora tutto da vedere: i miliziani della Sahwa potrebbero tornare sui loro passi in ogni momento e tutti, da Petraeus in giù, sanno che da soli questi uomini non bastano e solo un cambio di politica a livello nazionale potrebbe far davvero voltare pagina all´Iraq. Il traguardo però sembra sempre lontanissimo: solo due giorni fa una conferenza di riconciliazione fra i partiti - l´ennesima - è fallita prima ancora di iniziare per l´assenza dei più importanti rappresentanti sunniti e l´appello del premier Al Maliki - «questa è la nostra unica ancora di salvezza» - è stato accolto dalla gente con scetticismo. Tutti qui sanno che se le violenze sono diminuite è anche perché il paese è ormai rigidamente diviso in zone sciite, sunnite e curde: le occasioni di incontro, e di scontro, fra i gruppi diversi sono calate in modo drastico per effetto della pulizia etnica degli ultimi anni che ha spinto le famiglie a rifugiarsi vicino a quelle della stessa religione o etnia. Questo è evidente soprattutto a Bagdad, dove la gente parla con nostalgia della vecchia città aperta e cosmopolita uccisa da Saddam prima e dalla guerra poi. Oggi, fra i giovani soprattutto, non resta che diffidenza e voglia di fuga. «La mia famiglia si è spostata a vivere in una base americana vicino l´aeroporto - racconta Sara, 23 anni, da quattro interprete per l´esercito Usa - se sapessero cosa facciamo per vivere ci ucciderebbero tutti. Di amici non ne ho più perché non potrei raccontare loro la verità. Il mio unico sogno è lasciare questo paese e andare a vivere in America, dove c´è libertà». Frase ironica, se si pensa che Sara lavora per chi cinque anni fa la libertà aveva promesso di portargliela a casa.

Dal FOGLIO, un'intervista di Christian Rocca a Bill Kristoll

New York. Bill Kristol è direttore del Weekly Standard, editorialista del Times e uno degli ideologhi dell’intervento per destituire Saddam Hussein e della più ampia battaglia contro il radicalismo islamico che ha attaccato l’America l’11 settembre del 2001. Intellettuale neoconservatore, stratega repubblicano e sostenitore di John McCain dal 1999, Kristol è uno degli opinionisti americani che, cinque anni dopo, continua a non avere dubbi sull’idea che la decisione di abbattere il dittatore baathista sia stata quella giusta: “Penso che stiamo facendo bene nella battaglia contro il fondamentalismo – ha detto al Foglio – la situazione è ancora incerta, ma non credo che i jihadisti guardando avanti pensano davvero di poter vincere”.
Sull’Iraq, Kristol dice che è difficile riscrivere la storia, ma pensando a come sarebbe oggi il medio oriente con Saddam ancora al potere gli verrebbe in mente un posto più radicale e più pericoloso: “Se non avessimo rimosso Saddam, gli estremisti e i jihadisti oggi avrebbero un peso maggiore e Saddam avrebbe guadagnato prestigio per aver fregato ancora una volta l’America e le Nazioni Unite. E, inoltre, avrebbe ricominciato i suoi programmi militari e continuato a mantenere legami con i terroristi. Lo status quo ante non era sostenibile”.
Kristol, da sostenitore di Iraqi Freedom, ha scritto il primo editoriale contro la decisione di mandare poche truppe già nell’agosto del 2003, a pochi mesi dalla caduta del regime saddamita, ma riconosce che l’idea di Donald Rumsfeld di combattere una guerra tecnologica e con pochi uomini non era ridicola, ma basata su una teoria ragionevole. “Solo che si è rivelata sbagliata e l’Amministrazione avrebbe dovuto accorgersene molto prima. Ci sono stati vari errori di esecuzione, per esempio non aver capito che servivano più truppe, che bisognava provvedere alla sicurezza e che era necessaria un’adeguata strategia anti insurrezionale. C’è stato anche l’errore di non essere andati avanti con la dottrina Bush, cioè di non aver capitalizzato nel resto del medio oriente la rimozione di Saddam. Detto questo, era ed è giusta l’idea strategica di muoversi contro la minaccia jihadista e radicale combinata al possesso di armi di distruzione di massa e al terrorismo”.
Se oggi la situazione in Iraq è migliorata, dice Kristol, il merito è di tre persone: Bush, McCain e Petraeus. “Bush ha avuto il coraggio di cambiare strategia, malgrado la forte opposizione al Congresso e nel paese. Senza l’aiuto di McCain non ce l’avrebbe fatta a tenere i voti repubblicani, mentre Petraeus, insieme con il generale Raymond Odierno, è stato straordinario ad eseguire il nuovo compito”. Grazie a loro tre, continua Kristol, “ora molte persone ammettono che il futuro iracheno potrà essere accettabile, al contrario del disastro che si prevedeva due anni fa, cioè si pensa che sarà possibile avere un regime ragionevole, una migliore situazione della sicurezza ed evitare un’orribile guerra civile”. Ma Kristol pensa che “il risultato potrebbe essere migliore”. Lo spiega così: “Ad alcuni sembrerà un paradosso, ma a causa delle difficoltà incontrate in questi anni, la vittoria potrà essere più durevole, perché nel frattempo gli iracheni si sono ribellati ad al Qaida e contro gli estremisti sciiti”.
Al prossimo presidente americano, Kristol consiglia di restare in Iraq, di non tagliare la corda e di fare pressioni sugli iracheni perché arrivino a una riconciliazione politica nazionale: “C’è da finire il lavoro, il nuovo presidente avrà in quattro anni l’opportunità di lasciare l’Iraq in buona forma, di ridurre gradualmente le truppe, di fare pressioni sugli altri paesi della regione e di continuare sulla via del progetto elaborato da Bush, perché nel XXI secolo non è accettabile un medio oriente pieno di dittature semi illegittime, al Qaida forte e regimi che sostengono il terrorismo e sviluppano armi di sterminio. Il prossimo presidente deve pensare in modo creativo a come far avanzare la strategia Bush rispetto al pericolo Iran e alla situazione in Pakistan”.
Obama e Hillary “sono irresponsabili” a dire che lasceranno l’Iraq il prima possibile e le loro parole “avranno ripercussioni negative in Iraq e ci faranno pagare un prezzo”, ma Kristol non crede che “da presidenti agiranno in modo così irresponsabile, perché nessun presidente americano, chiunque esso sarà, consentirà ad al Qaida o all’Iran di vincere in Iraq”.

La guerra in Iraq nel dibatitto politico ed elettorale americano, nella corrispondenza di Maurizio Molinari  per La STAMPA (il titolo scelto dal quotidiano torinese appare sbilanciato, concentrato solo sulle dichiarazioni di Barack Obama ignora quelle di Bush):

Botta e risposta sull’Iraq fra George W. Bush e Barack H. Obama: nel quinto anniversario dell’intervento contro Saddam il presidente che lanciò l’attacco e il candidato democratico fautore del ritiro parlano a distanza di meno di 20 minuti offrendo letture opposte su quanto avvenuto e su cosa bisogna fare in Iraq.
Bush prende la parola al Pentagono, rivendica con forza che «fu giusto rimuovere Saddam» e chiede all’America «di vincere» la sfida per la stabilizzazione dell’Iraq. «Grazie al fatto che abbiamo agito Saddam non riempie più i campi con i resti di uomini, donne e bambini innocenti, non tortura più, non invade più i vicini e non versa più denaro ai terroristi che seminano morte nella Terra Santa» dice il presidente rivendicando il merito di «una campagna militare brillante che in meno di un mese» portò alla deposizione di una terribile dittatura. «Ma è durata più di quanto ci aspettavamo» ammette, nell’unica autocritica.
Riguardo all’attuale situazione il plauso va all’opera del generale David Petraeus: «Da quando sono arrivati i rinforzi la violenza è diminuita, i morti civili sono diminuiti, gli omicidi etnici sono diminuiti e gli attacchi alle forze americane sono diminuiti» ma soprattutto ciò che più conta è quanto sta avvenendo nella popolazione civile perché «stiamo assistendo alla prima rivolta araba di grandi dimensioni contro Al Qaeda e la sue ideologia di morte».
Si tratta di un risultato strategico nella guerra contro il terrorismo iniziata in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001: «Al Qaeda voleva sfruttare l’Iraq per spingere gli arabi a cacciare l’America, invece è stata l’America a spingere gli arabi a cacciarla». «Nonostante questi risultati a Washington c’è ancora chi invoca il ritiro delle truppe» conclude Bush, inviando agli americani un messaggio che punta a identificare nei democratici di Hillary Clinton e Barack Obama un partito debole sulla sicurezza nazionale, a cui non consegnare la Casa Bianca in novembre.
Neanche venti minuti dopo è Barack Obama a prendere la parola di fronte ad una folla di sostenitori a Fayetteville, in North Carolina, per dare una lettura diametralmente opposta della guerra. «È iniziata a causa di un presidente che preferisce l’ideologia al pragmatismo - ha esordito il candidato afroamericano - è durata più della Prima Guerra Mondiale, più della Seconda Guerra Mondiale, più della guerra civile, è costata la vita a circa 4000 americani e quando sarò presidente la farò finire». La lezione che viene dagli errori commessi è che «quando bisogna decidere una guerra la politica deve basarsi sui fatti, non sull’ideologia». E riguardo ai plausi di Bush per Petraeus ribatte: «Lo stesso generale riconosce che i rinforzi non sono serviti a compiere i progressi politici necessari per porre termine alla guerra civile». Senza contare che «questo conflitto ha rafforzato Al Qaeda, aiutandola a reclutare mentre i suoi leader stanno al sicuro in Pakistan, a migliaia di miglia di distanza dall’Iraq».
Da qui l’impegno al ritiro: «Due brigate lasceranno l’Iraq ogni mese, sarà tutto finito in 16 mesi». E al repubblicano John McCain, che si augura di sfidare in novembre, manda a dire: «Lui persegue una guerra infinita, afferma che il ritiro sarebbe una resa ma in realtà è proprio lui che sta rafforzando il nemico, McCain vuole discutere di tattica ma la differenza fra noi è sulla strategia».
Il senatore dell’Arizona è in Medio Oriente ma replica in sintonia con Bush: «I nostri nemici fuggono ma non sono sconfitti, non è l’ora del ritiro». Hillary invece sceglie un profilo più basso, si limita ad incontrare i veterani ma preferisce non duellare con Bush sull’Iraq nel momento in cui la polemica sulla razza sta indebolendo Obama. Gli americani restano divisi: se per il 64 per cento non valeva la pena combattere in Iraq, il 48 per cento ritiene che la missione militare stia «andando bene» con buone possibilità di successo. Fra i contrari c’è anche un manipolo di manifestanti che sventolando bandiere rosse sfonda a San Francisco i portoni della Bechtel, destinataria di appalti del Pentagono per la guerra.

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