Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
La vergogna per la Shoah e l'appoggio a Israele, attaccata e minacciata da Hamas e dall'Iran le parole di Angela Merkel alla Knesset
Testata:La Repubblica - Corriere della Sera - La Stampa Autore: Angela Merkel - Mara Gergolet - Elena Loewenthal Titolo: «La catastrofe morale di cui perdiamo il peso - Applausi alla Knesset allla canceliera La Merkel convince Israele. In tedesco - Shoah ferita aperta, ma i figli non sono colpevoli - La forza della vergogna»
Da La REPUBBLICA del 19 marzo 2008, alcuni stralci del discorso che Angela Merkel, Canceliere della Repubblica tedesca, ha pronunciato alla Knesset:
Per molti anni sui passaporti israeliani si leggeva la frase: «Valido per tutti i paesi tranne la Germania». Ho trascorso i primi 35 anni della mia vita nella Rdt, dove il nazionalsocialismo era considerato come un problema che riguardava solo la Germania Ovest. La Rdt d´altra parte ha riconosciuto lo Stato di Israele solo poco prima del suo tracollo. Ci sono voluti 40 anni perché l´intera Germania si facesse carico della propria responsabilità storica, riconoscendo come Germania riunificata lo Stato di Israele. Sono profondamente convinta che solo assumendo la sua perenne responsabilità per la catastrofe morale della storia tedesca la Germania potrà andare verso un futuro umano. In altri termini, la nostra umanità vive e si sviluppa grazie all´assunzione delle responsabilità del passato. Diciamo spesso che tra la Germania e Israele esiste un rapporto particolare, unico. Ma cosa intendiamo esattamente quando parliamo dell´unicità di questo rapporto? Mi chiedo fino a che punto il mio Paese sia consapevole del significato di queste parole, non solo nei discorsi e nelle occasioni celebrative, ma alla prova dei fatti. Ad esempio, come ci comportiamo in concreto di fronte a chi cerca di relativizzare gli orrori del nazionalsocialismo? La risposta può essere una sola: ogni tentativo in questo senso va contrastato sul nascere. Non si dovrà mai più lasciare che l´antisemitismo, il razzismo e la xenofobia prendano piede in Germania o in Europa. Permetterlo sarebbe un pericolo per tutti - per la società tedesca, per l´Europa, per il fondamentale ordinamento democratico dei nostri Paesi. Oggi spetta a noi - alla mia generazione e a quella dei più giovani - il compito di dar vita a una cultura della memoria che possa sussistere anche domani, quando i superstiti della Shoah non saranno più tra noi. Per questo, ovviamente, non esiste una ricetta buona per tutti. Ma il primo passo, quello decisivo, consiste nel riconoscere questa sfida e raccoglierla, per poter trovare insieme, con i giovani israeliani e tedeschi, le vie creative per sviluppare nel futuro una cultura della memoria. In questo ci potrà aiutare la forza che ci ha sostenuti nei decenni passati: quella della fiducia. Una forza che ha la sua origine nei valori condivisi dai nostri due Paesi: i valori della libertà, della democrazia, del rispetto della dignità umana. E´ questo il bene più prezioso che possediamo: la dignità inalienabile, indivisibile di ogni singolo individuo, indipendentemente dal genere, dall´origine, dalla lingua, dal credo e dalla provenienza. Mentre noi discutevamo Israele era minacciato. Mentre discutiamo in questa sala, migliaia di persone vivono nel terrore degli attacchi missilistici e del terrore di Hamas. Lo dico nel modo più chiaro e inequivocabile: gli attacchi di Hamas devono cessare. Gli attacchi terroristici sono crimini, e non portano alcuna soluzione al conflitto che incombe sulla regione e sulla vita quotidiana della gente. L´ho detto più volte e lo ripeto qui: la Germania si schiera decisamente in favore della prospettiva di due Stati, entro frontiere sicure e nella pace - Israele per il popolo israeliano, la Palestina per il popolo palestinese. Per questo sosteniamo con forza, dopo la Conferenza di Annapolis, tutti gli sforzi - e in particolare anche quelli del governo americano - suscettibili di contribuire a tradurre in realtà questa visione, a portare la pace nella regione. Una preoccupazione particolare nasce indubbiamente anche dalle minacce del presidente iraniano contro Israele e il popolo ebraico. Le frasi ingiuriose più volte ripetute, così come il programma nucleare iraniano, costituiscono un pericolo per la pace e per la sicurezza. Se l´Iran entrasse in possesso della bomba atomica, le conseguenze sarebbero devastanti. Innanzitutto sarebbe minacciata la sicurezza e l´esistenza stessa di Israele, ma il pericolo si estenderebbe all´intera regione, all´Europa e a ogni parte del mondo ove valori quali la libertà, la democrazia e la dignità umana hanno un significato. Questa minaccia va evitata. Una cosa dev´essere chiara: come ho già detto davanti alle Nazioni Unite nel settembre scorso, l´onere della prova non spetta al mondo, ma all´Iran, che deve dimostrare al mondo di non volere l´arma atomica. Vorrei dire espressamente, a questo punto, che tutti i governi, tutti i cancellieri federali prima di me sono stati pienamente consapevoli della particolare responsabilità storica della Germania per la sicurezza di Israele. Questa responsabilità storica è parte della ragion di stato del mio Paese. Per me, nella mia veste di cancelliera tedesca, la sicurezza di Israele non può mai essere negoziabile. E queste, all´atto pratico, non devono rimanere parole vuole. La Germania, insieme con i suo partner, punta a una soluzione diplomatica. E se l´Iran non si mostrerà disponibile, il governo della Repubblica federale tedesca continuerà fermamente a chiedere sanzioni. La nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza, approvata pochi giorni fa, mette nuovamente alla prova la fermezza e l´unità della comunità internazionale, che continuerà a procedere in questa direzione. Anche in sede di Unione Europea insisterò per una posizione chiara in questo senso. Per me è importante intensificare sempre più i legami tra Israele e l´Unione Europea, grazie alla cooperazione mediterranea e alla politica europea di vicinato. Perciò sono esplicitamente favorevole all´avvicinamento all´Unione Europea auspicato da Israele, che sarebbe vantaggioso per entrambe le parti e offrirebbe tutta una gamma di nuove opportunità. Gli europei hanno appreso dalla loro storia che la pace è possibile, anche dopo secoli di scontri tremendi. Noi tedeschi, in particolare, abbiamo vissuto il miracolo della caduta del muro e della riunificazione. Anche a distanza di decenni, quando molti hanno ormai rinunciato a ogni speranza, possono avvenire mutamenti politici profondi. Io, cresciuta nella Rdt, non potrei oggi trovarmi qui di fronte a voi nella veste di cancelliera della Repubblica federale tedesca, se dopo la Seconda guerra mondiale non vi fossero stati Konrad Adenauer, Willy Brandt o Helmut Kohl, che hanno creduto nella forza della libertà, della democrazia e della dignità umana, e sono riusciti a tradurre in realtà ciò che sembrava impossibile: la riunificazione della Germania nella pace e nella libertà, e la riconciliazione del continente europeo. Partendo da quest´esperienza - sapendo che anche l´impossibile può trasformarsi in realtà - possiamo trovare la risolutezza e la fiducia per credere che vale la pena compiere ogni sforzo per fare in Medio Oriente un grande passo avanti verso una pacifica convivenza. O in altri termini, per citare le parole di David Ben Gurion: «Chi non crede nei miracoli non è realista».
Dal CORRIERE della SERA, la cronaca di Mara Gergolet:
GERUSALEMME — «La Shoah riempie noi tedeschi di vergogna. Mi inchino di fronte alle vittime. Mi inchino di fronte ai sopravvissuti e di fronte a tutti quelli che li hanno aiutati a sopravvivere ». Le scuse per i 6 milioni di ebrei uccisi Angela Merkel le porge al Parlamento israeliano. E lo fa nella sua lingua madre, primo cancelliere ad avere questo onore, la lingua che alcuni dei deputati assolutamente non volevano sentire, perché — come ha detto Arieh Eldad, deputato ultraortodosso — era la lingua nella quale sono stati sterminati i suoi nonni. Ci sono una dozzina di seggi vuoti, tre deputati che si alzano, la protestataria dell'ultim'ora, la laburista Shelly Yachimovich non si fa vedere. Ma la comparsa della Merkel è un successo annunciato, fila liscia fin dalle prime parole in ebraico, quando ringrazia per aver avuto l'opportunità di parlare. Il resto è il messaggio che è venuta a portare in Israele: «Ogni governo tedesco e ogni cancelliere prima di me è investito da questa speciale responsabilità che la Germania ha nei confronti di Israele». Una «responsabilità storica» che, sostiene, fa parte della politica fondamentale del suo Paese. «Significa che per me, come cancelliere tedesco, la sicurezza di Israele non è negoziabile». Sicurezza, per Merkel, vuol dire stop ai Qassam lanciati da Gaza. «Lo dico chiaramente: devono cessare». Ma soprattutto la Merkel promette l'impegno dei tedeschi sull'altro fronte, più ampio e potenzialmente ben più distruttivo, quello iraniano: «Se dovessero ottenere la bomba atomica, le conseguenze sarebbero disastrose». Non sta al mondo, sostiene, provare che l'Iran vuole ottenere le armi nucleari, sta agli iraniani dimostrare di non cercarle. «Se l'Iran non lo accetta, la Germania chiederà altre sanzioni ». Il finale è un crescendo: «Complimenti allo Stato d'Israele per i suoi 60 anni. Shalom ». Standing ovation. Se c'è qualche ombra, in questo viaggio compiuto con tutto il gabinetto non è sul versante israeliano. Ma su quello palestinese: può un simile sostegno allo Stato ebraico non attirare sospetti di parzialità? Qualche critica c'è stata, anche se la Merkel — che ripete «per la pace servono concessioni dolorose» da entrambe le parti — si è impegnata per una conferenza pro-palestinese a giugno. Le premeva un'altra cosa: ripetere il viaggio di Konrad Adenauer nel 1965, dopo che si stabilirono le relazioni tra Israele e la Germania, andare nel kibbutz e sulla tomba di Ben Gurion, che domina sul deserto del Negev e — lei, prima leader tedesca nata dopo la guerra — misurare la distanza da quel dopoguerra.
Sempre di Gergolet, un'intervista alla scrittore israeliano Aharon Appelfeld:
GERUSALEMME — Aharon Appelfeld, le dà fastidio sentire il tedesco alla Knesset? «No». Perché il tedesco è la sua lingua madre? «Lo era, fino all'età di 8 anni. Poi l'ho persa, e ne ho adottato un'altra. L'ebraico è diventato la mia lingua madre in una forma ristretta, la lingua della cultura, in cui scrivo e ho scritto con fatica e usando i dizionari, ma è anche la lingua in cui mi sento a casa». Aharon Appelfeld, 76 anni, risponde da Parigi, dov'è alla fiera del libro. Nessuno scrittore israeliano è stato identificato così profondamente con l'Olocausto, anche se lui non ha scritto della disumana dimensione dell'eccidio, ma delle sofferenze e distorsioni che ha generato, e della possibilità di sopravvivervi. Il discorso della Merkel è stata preceduto dalle proteste. «Le capisco. Quello che la Germania ha fatto è così difficile da comprendere, non si rimargina: non solo hanno ucciso milioni di ebrei, li hanno torturati. C'è un elemento sadico in questo sterminio. Io ero nel ghetto, poi in un campo di concentramento da cui sono scappato, ho vissuto nei boschi: ero un bambino, ma ricordo tutto. Non si deve dimenticare. Però oggi non si può prendere un tedesco nato dopo la guerra e accusarlo di quello che hanno fatto i padri». La Germania ha fatto abbastanza per affrontare l'eredità nazista? «Più di altri Paesi in Europa, più dell'Austria o della Polonia. Hanno offerto una compensazione allo Stato ebraico». Solo questo? Non crede che in Germania ci sia stata una profonda riflessione che li ha portati a considerare l'eredità di quegli anni quasi parte della propria identità nazionale? «Sì, c'è stato un momento in cui hanno capito d'aver fatto qualcosa di mostruoso ». Oggi la Germania è uno dei grandi alleati di Israele. «La storia è piena di paradossi. Gli ebrei hanno dato alla cultura tedesca più di qualsiasi altro popolo: Freud, Marx, Kafka, la modernità. E quella cultura li ha sterminati. Ora in un momento critico, li soccorre». Intende l'Iran? «Sì. La Germania è seria, la Merkel crede di avere un obbligo morale nei confronti del popolo ebraico. Noi viviamo sotto la minaccia del regime iraniano, che sta costruendo una bomba atomica. E l'Europa non lo capisce». Anche lei ritiene che l'Europa non capisca Israele? «La tragedia degli ebrei è che per generazioni non sono stati compresi. Da qui l'odio. Oggi in Europa non c'è più nessuna grande comunità ebraica, e allora tutte le cose cattive vengono attribuite allo Stato d'Israele. Ogni volta che sono in Europa e leggo i giornali, inglesi, tedeschi, francesi, mi sento minacciato. Non solo attraverso una critica a Israele, ma una vera demonizzazione ». Visto dall'Europa, spesso sembra che Israele accetti di essere criticato solo dagli israeliani, o dagli ebrei. «Israele dovrebbe aprirsi alle critiche. Ma ci sono cose sulle quale non si può essere critici. Non si può dire che siamo il peggior regime in Medio Oriente. Peggio di Siria e Iran. Se la critica è un esagerazione, non è più una critica». Alla fiera di Parigi boicottano la letteratura israeliana. «Che terribile parola, il boicottaggio. Significa: non parlo, non voglio ascoltare, non voglio capire, tu per me non esisti. Una parola usata da regimi fanatici».
Da La STAMPA, un editoriale di Elena Loewenthal:
In ebraico è una parola carica di una forza fulminea. «Vergogna» si dice con due sillabe corte e potenti: busha. «La Shoah riempie noi, i tedeschi, di vergogna». Così ha detto di fronte alla Knesset il cancelliere tedesco Angela Merkel. Il suo discorso al parlamento di Gerusalemme è un concentrato di significati, vicini e lontani nel tempo. Innanzitutto, è la prima volta che un capo di governo, e non il presidente di un paese, parla in questa sede. Angela Merkel ha avviato in ebraico il suo discorso, e non è difficile immaginare il tumulto di emozioni contraddittorie che ciò ha destato nel paese: la voce della Germania, dentro la propria lingua. Quella dei sopravvissuti e quella di chi non c’è più. La confessione della vergogna, che anche in tedesco, così come in ebraico, è una parola breve e potente, Schande, rappresenta una svolta. Si situa nel contesto dell’etica, certo, ma ha una carica storica di rilevanza sconcertante. La Germania ha fatto tardi i conti con il proprio passato: prima di riconoscerlo sono passati decenni di rimozione, di silenzi fra le generazioni. A poco a poco è venuto il ricordo, il riconoscimento traumatico di un passato quasi incredibile, eppure vero. Questa consapevolezza ha destato una partecipazione di ordine emotivo, è stata la premessa necessaria di un «discorso» ebraico (israeliano)-tedesco che non sarà mai una «normalizzazione» di rapporti, dato il peso di quel passato. Ma ha lentamente determinato l’avvio di un dialogo, attraverso la distanza incommensurabile che la Shoah ha disegnato fra le due esperienze storiche. La menzione della vergogna come sentimento che «riempie» i tedeschi situa in un contesto nuovo, non solo emotivo ma anche morale, la consapevolezza storica della Germania. L’imperativo etico che Merkel ha enunciato desta un’emozione profonda, quasi inesprimibile. È un assunto che si deve con tutta probabilità anche al calibro personale del cancelliere, all’esperienza che si è trovata ad attraversare. Figlia di un pastore evangelico, Angela Merkel ha visto lo strappo della Germania divisa, la coscienza storica sfasata da una parte all’altra del muro di Berlino, le rimozioni reciproche, la riunificazione tramite il crollo - del muro ma non solo. Forte di questo vissuto, ha saputo trovare le parole per guardare in faccia la storia e arrivare alle insondabili profondità di una memoria che, dopo sessant’anni, si impara con fatica e dolore a condividere. Elena.loewenthal@mailbox.
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