Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Iraq: la guerra che qualcuno vuole perdere cronache ed editoriali
Testata:La Repubblica - Corriere della Sera - L'Unità Autore: Bernardo Valli - Olivier Roy - Paolo Valentino - Robert Fisk Titolo: «Iraq, perché l'America non vince la guerra - L'Iraq e i veri obiettivi di Osama - Iraq, Clinton contro McCain: «Non possiamo vincere la guerra» Khaled che fece il kamikaze»
Gli Stati Uniti stanno perdendo la guerra in Iraq, sostiene senza esitazione Bernardo Valli su REPUBBLICA del 18 marzo 2008. I progressi realizzati sotto il comando de generale Petraeus non contano, la costituzione e le elezioni democratiche neppure.
E' vero che la guerra è ancora in corso, e la fragile democrazia irachena può essere sconfitta, ma è anche vero che certe profezie sono fatte per autorealizzarsi. La certezza dell'inevitabile sconfitta americana in Iraq, propagandata dai media e da certi politici, non può che portare alla resa, e alla sconfitta . Decisa però all'interno degli Stati Uniti e dell'Occidente e non sul campo.
Ecco il testo completo:
La sera del 19 marzo 2003, a Bagdad, noi cronisti ci preparavamo ad assistere in prima fila, anzi stando al centro del campo di battaglia, a una guerra alla quale stentavamo ad affibbiare un aggettivo. Non era in effetti facile definirla. In fondo si trattava di abbattere un odioso dittatore: e un dittatore sanguinario morto è sempre meglio di un dittatore sanguinario vivo. Ma era anche una guerra "coloniale", perché un esercito occidentale, cristiano, stava occupando una terra araba, musulmana, come ai tempi delle colonie. Non era anche una guerra "imperialista", decisa dalla super potenza, fregandosene di gran parte del resto del mondo, raccolto nelle Nazioni Unite? Ma che importanza avevano queste riserve se era urgente neutralizzare l´arsenale d´armi di distruzione di massa, più volte denunciato da George W. Bush? Li, sul posto, noi navigavamo tra tutte queste idee contraddittorie. Non avevamo comunque il tempo di misurare il nostro grado di imparzialità. Eravamo, in quanto cronisti, compresi dal compito di raccontare la guerra che stava per cominciare. Dire che eravamo al centro del campo di battaglia non era una fanfaronata. Anche se al momento era deserta, senza un´anima per le strade, avvolta in un silenzio sinistro, in prospettiva la capitale, Bagdad, era il traguardo delle truppe americane di invasione. E li ci sarebbe stata l´annunciata "regina delle battaglie". È un modo di dire militare. Quel 19 marzo tutto era cominciato senza che ce ne rendessimo conto. All´alba erano stati sparati missili di crociera e sganciati grappoli di bombe capaci di penetrare nelle casematte più blindate contro la fattoria Dora, una manciata di edifici a volte usati da Saddam Hussein, situati in un palmeto sulla riva occidentale del Tigri, nella periferia meridionale di Baghad. Gli americani avevano anticipato il programma, rispetto all´ultimatum rivolto agli iracheni, nella speranza di sorprendere il rais. Fatto fuori lui, si pensava a Washington, sarebbe finito tutto prima di cominciare. Ma Saddam sfuggi al bombardamento. La Cia aveva avuto false informazioni. Sicuro che quello sarebbe stato il primo obiettivo, Saddam si era spostato con la famiglia in un bosco a un chilometro dalla fattoria. Per noi che eravamo nel cuore di Bagdad i bombardamenti cominciarono alle nove di sera. Minuto più minuto meno, il primo missile cruise colpi il bunker di Saddam, in quella che è adesso la Zona Verde, ossia l´area blindata riservata al governo iracheno e agli americani inseguiti dai kamikaze. Ma il rais non era neppure in quel rifugio. I bombardamenti durarono quaranta minuti filati. Poi una sosta. Poi altri quaranta minuti. E cosi via. Noi pensavamo a quelle maledette armi di distruzione di massa, che pareva fossero all´origine della guerra (ma che in verità, si seppe poi, non esistevano) e per qualche minuto non abbandonammo le maschere a gas e le tute di protezione che avevamo portato con noi benché fossero ingombranti. E inutili. Le gettammo presto nella spazzatura. Avevamo intuito che la storia delle armi di distruzione di massa era una grossa balla. In quelle ore, come del resto nei giorni successivi, fino al 9 aprile, quando i marines entrarono a Bagdad, non ci rendemmo conto di un fatto essenziale: quella che pensavamo fosse una guerra in realtà non lo era, era semplicemente il prologo alla guerra. La guerra, quella vera, sarebbe cominciata dopo, dopo il prologo, come in teatro. Noi abbiamo assistito, tra il 19 marzo e il 9 aprile, ad avvenimenti che hanno condotto a una guerra che dura da cinque anni e che può durare ancora a lungo. Altro particolare, tutt´altro che trascurabile, di cui non ci rendemmo conto, era che la guerra vera, che sarebbe cominciata dopo il 9 aprile, era già persa prima ancora di iniziare. Mi spiego. L´invasione dell´Iraq fu soprattutto una grande operazione logistica, con poche vere battaglie. La famosa "regina delle battaglie", che doveva essere combattuta a Bagdad, non avvenne mai. L´esercito iracheno si squagliò senza opporre una seria resistenza. Sul piano tecnico militare gli americani funzionarono bene. Ma il loro successo fu tanto rapido che, arrivati a Bagdad, erano tanto baldanzosi per la vittoria riportata che non si curarono di amministrare il paese, come si conviene a un esercito di occupazione. I marines dicevano che non potevano fare i vigili urbani, i pompieri, i poliziotti. Loro erano uomini di guerra: e cosi persero la pace. Si comportarono da spettatori durante il saccheggio di Bagdad. Lasciarono che i beduini inurbati sciiti, del grande sobborgo Sadr City (allora Saddam City) appiccassero il fuoco a ministeri, caserme, residenze ufficiali, banche, ospedali, biblioteche. Ma protessero il ministero del petrolio, dando l´impressione che il petrolio fosse il vero obiettivo della guerra che non era ancora guerra. Quella vera cominciò presto perché l´esercito che si era sgretolato davanti all´avanzata americana si era disperso portando con sé le armi. Grazie alle quali fu in grado di organizzare la resistenza che era mancata durante il prologo alla guerra. Il denaro non è mancato, Saddam aveva messo da parte parecchi miliardi, e le confraternite arabe integraliste sono state generose. Lo sono ancora. Né sono mancati gli alleati, perché in Iraq si è formata subito una forza internazionale araba, ispirata da al Qaeda. È in quei giorni, dopo l´invasione, durante i saccheggi, che gli americani persero la faccia, cioè ogni credibilità di fronte alla popolazione irachena, e di fatto persero la guerra che stava per cominciare. In un conflitto come quello iracheno non vince l´esercito più forte militarmente. Esso non può nemmeno perdere militarmente ma non riesce a schiacciare l´avversario. Cosi finisce col perdere, vale a dire col "non vincere". Questo è accaduto più o meno in Algeria nel 1954 con i francesi e in Viet Nam con gli americani nel 1973, quando se ne dovettero andare. È politicamente difficile continuare una guerra per anni, impegnando enormi e dispendiose forze militari. Così si perdono le guerre asimmettriche. Quella in Iraq è la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, dopo il Viet Nam; e la più costosa, dopo la Seconda guerra mondiale. Cinque anni dopo sopravvivono dei ricordi, che pur non discostandosi troppo da quelli delle altre guerre del genere, hanno un´impronta particolare. Anzitutto non sono definitivi, perché nulla è ancora concluso. Prevalgono certo le immagini della continua, inesauribile ondata di kamikaze e dei massacri indiscriminati; delle vendette etniche tra sciiti e sunniti con i puntuali omicidi notturni nei quartieri misti; dei rapimenti e delle esecuzioni sommarie. Ma vi sono anche le immagini di Abu Ghraib, il carcere delle torture inflitte dai sadici custodi americani; del massacro a freddo di 24 civili a Haditha; dello stupro di una ragazza di 14 anni a Mahmudiya, insieme all´uccisione di tre membri della sua famiglia. E ancora tanti altri episodi di cui si sono occupate e si occupano le Corti marziale americane. L´assedio di Falluja, furioso, micidiale. Il 19 marzo 2003 non potevamo immaginare che negli anni successivi la presenza americana avrebbe raggiunto 160 mila uomini, che i morti americani sarebbero stati quattromila e che le vittime civili irachene sarebbero state decine di migliaia. Non ho mai visto un soldato americano camminare solo e disarmato in una strada di Bagdad. Era impensabile a Saigon. Non ne ho mai visto uno a braccetto con una ragazza irachena. Sarebbe stato assurdo ad Algeri. Nessuno americano ha mai bevuto una coca cola in pubblico con un iracheno. Uno degli obiettivi di George W. Bush era di portare la democrazia nella valle del Tigri e dell´Eufrate. In effetti ci sono state delle elezioni. Ma sono servite unicamente a far prevalere e a portare al governo la maggioranza sciita a lungo sottomessa alla minoranza sunnita. Sono servite in pratica ad accentuare quella che è difficile non chiamare una guerra civile: l´insurrezione armata essendo alimentata dai sunniti, spinti dalla speranza di recuperare il potere perduto, ed essendo sciite le forze governative, a fianco degli americani. Negli ultimi mesi gli attentati sono diminuiti. Impegnandosi maggiormente nella regione di Bagdad, la più tormentata, gli americani sono riusciti a recuperare parte dell´insurrezione sunnita, di origine nazionalista, staccandola dalle organizzazioni internazionaliste, più ispirate che legate ad al Qaeda. Ormai ci sono milizie sunnite («del risveglio») che combattono insieme alle forze governative. Ma il paese, tenuto insieme con la forza ai tempi di Saddam, è di fatto frantumato. A Nord i curdi sono trincerati in un´autonomia molto simile a un´indipendenza. A Sud gli sciiti, spesso rissosi tra di loro, sentono il richiamo del vicino Iran. Per cui sono in principio alleati degli americani e al tempo stesso alleati dei peggiori nemici degli americani. E nel centro del Paese continua la mischia. Dovuta anche all´insoluta questione della ripartizione del petrolio, abbondante a Nord e a Sud, e assente al centro, dove prevalgono i sunniti. La fine del conflitto non è per domani. Anche se Washington dovesse insediarsi l´anno prossimo un´amministrazione decisa a lasciare l´Iraq, non sarebbe facile organizzare una ritirata. Babilonia potrebbe crollare, frantumarsi alle spalle dei soldati che se ne vanno. Ma restando gli americani non sono ancora in grado di imporre la pace. Questa è la situazione dopo cinque anni.
Sul CORRIERE della SERA troviamo gli equlibrismi di Olivier Roy che si ingegna a dimostrare che una sconfitta in Iraq non sarebbe una vittoria per Al Qaeda, organizzazione che secondo lui non ha mai avuto "lo scopo di conquistare e governare un territorio". E il sogno del "ritorno del Califfato" proclamato a chiare lettere da Osama Bin Laden ? Va anche detto che Al Qaeda, fin dall'inizio, è una rete di sostegno e di organizzazione del terrorismo jihadista in diversi contesti "locali". La contrapposizione tra attori locali e l'organizzazione di Bin Laden è dunque quanto meno dubbia. Il problema non è infatti chi eserciti la "leadership" nella galassia del terrorismo islamico, ma il fatto che i diversi gruppi condividano medesimi obiettivi e medesima idelogia. Nientaffatto "locali" e reattivi, ma, al contrario, globali e aggressivi nei confronti di tutto l'Occidente.
Ecco il testo:
Cosa succederebbe, se le truppe americane lasciassero l'Iraq? Al Qaeda ne risulterà rafforzata o indebolita? Sono queste le due domande decisive delle elezioni presidenziali americane. Nessuno è in grado di fornire risposte precise. Tuttavia posso dire quello che invece non accadrà: Al Qaeda non salirà al potere e non costituirà uno stato islamico. Troppa gente nel mondo occidentale continua a considerare Al Qaeda un'organizzazione mediorientale con un suo territorio, che vuole espellere cristiani e ebrei dalla regione per creare un dar-al-Islam (terra islamica) sotto l'egida di un califfato. Al Qaeda però non è una continuazione della Confraternita islamica, di Hamas, o Hezbollah: è un'entità globale, non-territoriale, e non ha mai mirato a costituire uno stato islamico. Non ha alcun senso considerare Al Qaeda un'organizzazione politica che abbia lo scopo di conquistare e governare un territorio. Al Qaeda recluta ragazzi sradicati, che in genere non hanno una relazione diretta con i paesi coinvolti nei conflitti del Medio Oriente. Al Qaeda non ha le radici locali necessarie a assumere il potere. Quella di Al Qaeda è una duplice strategia: da una parte è determinata a scontrarsi direttamente con gli Stati Uniti: tira colpi contro gli Usa e conta non sull'effettivo danno che viene inflitto (nel senso di costo finanziario e numero delle vittime), ma sull'immagine, l'impatto dei media, e l'effetto terrore. Quelli che parlano di scontro tra civiltà amplificano, in modo speculare, l'impatto delle operazioni di Al Qaeda; in realtà, questa ha bisogno di essere demonizzata, per sembrare ciò che non è, la forza- leader dell' «ira musulmana ». In secondo luogo, Al Qaeda mira a dare un nuovo significato ai conflitti che già esistono, rendendoli parte della jihad globale contro l'Occidente. In Bosnia, Cecenia, Afghanistan e ora in Iraq, i gruppi internazionalisti islamici non sono tuttavia riusciti a spostare i conflitti locali e nazionali e hanno giocato solo un ruolo ausiliario. Gli attori decisivi delle guerre locali sono quelli, appunto, locali. I talebani in Afghanistan, i differenti gruppi sunniti e sciiti in Iraq, e gli Hezbollah in Libano, sono tutti gruppi che non sono sotto la leadership di Al Qaeda. Al Qaeda è solo stata capace di reclutare volontari che vengono da fuori e sono sostenuti dalle popolazioni locali solo a patto di combattere contro un nemico comune, come le truppe americane in Iraq. Le rispettive agende, però, sono completamente differenti: siano essi musulmani o no, gli attori locali perseguono una loro particolare soluzione politica. Non vogliono certo il caos o la jihad globale: al primo contrasto tra «la politica del più cattivo» promulgata da Al Qaeda, e una possibile risoluzione politica locale, gli attori locali scelgono quest'ultima. Al Qaeda è in grado di ingaggiare alcune organizzazioni locali, che hanno una loro storia, e sono attive all'interno di un'area limitata o di una regione linguistica: li possiamo trovare in Indonesia, nel Sahel del nord, nel Libano del nord, nel triangolo sunnita dell'Iraq e in Arabia Saudita e nello Yemen. Queste organizzazioni non hanno bisogno di Al Qaeda per reclutare gente o entrare in azione. Se si sono schierate dalla parte di Al Qaeda è proprio perché hanno difficoltà a definire o perseguire un obiettivo locale (quello ad esempio di uno stato islamico). Vengono globalizzati, così, per difetto. Possono esserci delle buone ragioni per rimanere in Iraq, ma non hanno niente a che fare con Al Qaeda, quanto, piuttosto con un'operazione di damage control. Se gli Usa lasciassero l'Iraq, potrebbe scoppiare una guerra civile o potrebbe aumentare l'influenza del-l'Iran. Sarebbe stato meglio concentrare le forze in Afghanistan, la reale culla di Al Qaeda: se fosse stata dedicata all'Afghanistan anche solo una parte dei cervelli e delle truppe impiegati invece in Iraq, le cose sarebbero andate meglio. Per l' Afghanistan, come per tutto il Medio Oriente, non esiste alcuna soluzione militare. Ce ne sarebbe una, politica: si dovrebbe trattare con gli attori locali e abbandonare l'assurda idea di una «guerra globale contro il terrore».
Sempre dal CORRIERE, un articolo di Paolo Valentino sulle posizioni di Hillary Clinton circa l'Iraq;
WASHINGTON — Con-tractors addio. Se Hillary Clinton diventasse presidente degli Stati Uniti, licenzierebbe tutte le controverse milizie private, forti di quasi 140 mila persone, che svolgono un ruolo cruciale nelle operazioni militari in Iraq, agiscono fuori di ogni regola d'ingaggio e sono pagate il triplo dei regolari. Sarebbe il primo passo di un piano generale per il ritiro delle truppe americane, che inizierebbe entro 60 giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca. «George Bush e il senatore McCain — ha detto l'ex first lady in un discorso interamente dedicato all'Iraq — vogliono tenerci legati alla guerra civile di un altro Paese, una guerra che noi non possiamo vincere». Nel quinto anniversario dell'invasione, Hillary ha voluto riproporre le sue credenziali di politica estera, presentando una strategia complessiva per tirare fuori gli Usa da un disastro militare e finanziario, che «ha reso il terrorismo più forte» nonostante il sacrificio di quasi 4 mila soldati americani: «È in gioco la nostra sicurezza economica, tenendo conto di tutto questa guerra potrebbe costarci più di mille miliardi di dollari». Quando sembrava dovesse essere la recessione economica a catturare l'agenda della campagna elettorale, è l'Iraq invece a riprendersi il centro della scena. Il discorso di Hillary cade mentre McCain, ormai certo della nomination repubblicana, ha iniziato proprio da Bagdad la sua prima missione internazionale da candidato alla Casa Bianca. A tenere il tema alto nell'attenzione dei media c'è stato ieri anche l'arrivo a sorpresa nella capitale irachena del vice-presidente Cheney, che rimarrà 10 giorni in Medio Oriente. Clinton non ha negato i risultati positivi della « surge», la strategia anti-guerriglia lanciata un anno fa che ha ridotto notevolmente i livelli della violenza e parzialmente stabilizzato la situazione. Ma se il suo scopo era di dare tempo e respiro agli iracheni per la riconciliazione politica, allora l'escalation (con lo schieramento di 30 mila soldati in più) non è servita a nulla: «La guerra civile continua. Il governo di Bagdad non dà i servizi essenziali ai cittadini e non approva le leggi necessarie. La corruzione dilaga». Ritirarsi non sarebbe una sconfitta, secondo la candidata democratica: «Sconfitta sarebbe rimanere lì per 100 anni, come vorrebbe McCain». Ma il ritiro dovrà avvenire senza perdere di vista gli interessi strategici degli Usa nella regione: da presidente, Hillary promette che manterrà «sul terreno squadre speciali, con il compito di compiere azioni mirate contro Al Quaeda». Parallelamente al ritorno a casa delle truppe, una forte iniziativa diplomatica a tutto campo verrà spiegata dalla Casa Bianca per stabilizzare il Paese e la regione. Un ruolo centrale per la riconciliazione nazionale dovrà essere giocato dalle Nazioni Unite. Verrà istituita un'autorità speciale, per indagare dove vadano a finire i proventi del petrolio e i fondi per la ricostruzione. Mentre nuova pressione sarà esercitata sugli alleati, «perché si assumano maggiori responsabilità»: Hillary vuole creare un «gruppo di stabilizzazione regionale» di cui facciano parte non solo gli europei, i Paesi del Golfo, la Giordania e l'Egitto, ma anche la Siria e l'Iran. Anche se Hillary non ha perso l'occasione per criticare il suo rivale per la nomination democratica, Barack Obama, accusato di non voler escludere l'uso dei contractors, il discorso di ieri è stato soprattutto puntato contro il binomio Bush/McCain: «Non hanno imparato dai loro errori e vogliono ripeterli. Bush vuole insistere in una politica fallimentare fino alla fine del suo mandato e McCain sarebbe ben contento di raccogliere il testimone ».
Robert Fisk, in un articolo pubblicato dall'UNITA', riesce avedere nel terrorismo suicida un lascito... dell'amministrazione Bush. Il suo articolo, nel quale si può percepire la sua simpatia umana per i terroristi suicidi e per i famigliari fieri del loro sacrificio (ma non quella per le vittime) ignora completamente l'indottrinamento ideologico e la predicazione d'odio alla base del fenomeno dei cosidetti "shahid".