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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Corriere della Sera - L'Unità Rassegna Stampa
18.03.2008 Iraq: la guerra che qualcuno vuole perdere
cronache ed editoriali

Testata:La Repubblica - Corriere della Sera - L'Unità
Autore: Bernardo Valli - Olivier Roy - Paolo Valentino - Robert Fisk
Titolo: «Iraq, perché l'America non vince la guerra - L'Iraq e i veri obiettivi di Osama - Iraq, Clinton contro McCain: «Non possiamo vincere la guerra» Khaled che fece il kamikaze»
Gli Stati Uniti stanno perdendo la guerra in Iraq, sostiene senza esitazione Bernardo Valli su REPUBBLICA del 18 marzo 2008.
I progressi realizzati sotto il comando de generale Petraeus non contano, la costituzione e le elezioni democratiche neppure.

E' vero che la guerra è ancora in corso, e la fragile democrazia irachena può essere sconfitta, ma è anche vero che certe profezie sono fatte per autorealizzarsi. La certezza dell'inevitabile sconfitta americana in Iraq, propagandata dai media e da certi politici, non può che portare alla resa, e alla sconfitta . Decisa però all'interno degli Stati Uniti e dell'Occidente e non sul campo.

Ecco il testo completo: 


La sera del 19 marzo 2003, a Bagdad, noi cronisti ci preparavamo ad assistere in prima fila, anzi stando al centro del campo di battaglia, a una guerra alla quale stentavamo ad affibbiare un aggettivo. Non era in effetti facile definirla. In fondo si trattava di abbattere un odioso dittatore: e un dittatore sanguinario morto è sempre meglio di un dittatore sanguinario vivo. Ma era anche una guerra "coloniale", perché un esercito occidentale, cristiano, stava occupando una terra araba, musulmana, come ai tempi delle colonie. Non era anche una guerra "imperialista", decisa dalla super potenza, fregandosene di gran parte del resto del mondo, raccolto nelle Nazioni Unite? Ma che importanza avevano queste riserve se era urgente neutralizzare l´arsenale d´armi di distruzione di massa, più volte denunciato da George W. Bush? Li, sul posto, noi navigavamo tra tutte queste idee contraddittorie. Non avevamo comunque il tempo di misurare il nostro grado di imparzialità. Eravamo, in quanto cronisti, compresi dal compito di raccontare la guerra che stava per cominciare.
Dire che eravamo al centro del campo di battaglia non era una fanfaronata. Anche se al momento era deserta, senza un´anima per le strade, avvolta in un silenzio sinistro, in prospettiva la capitale, Bagdad, era il traguardo delle truppe americane di invasione. E li ci sarebbe stata l´annunciata "regina delle battaglie". È un modo di dire militare. Quel 19 marzo tutto era cominciato senza che ce ne rendessimo conto. All´alba erano stati sparati missili di crociera e sganciati grappoli di bombe capaci di penetrare nelle casematte più blindate contro la fattoria Dora, una manciata di edifici a volte usati da Saddam Hussein, situati in un palmeto sulla riva occidentale del Tigri, nella periferia meridionale di Baghad. Gli americani avevano anticipato il programma, rispetto all´ultimatum rivolto agli iracheni, nella speranza di sorprendere il rais.
Fatto fuori lui, si pensava a Washington, sarebbe finito tutto prima di cominciare. Ma Saddam sfuggi al bombardamento. La Cia aveva avuto false informazioni. Sicuro che quello sarebbe stato il primo obiettivo, Saddam si era spostato con la famiglia in un bosco a un chilometro dalla fattoria.
Per noi che eravamo nel cuore di Bagdad i bombardamenti cominciarono alle nove di sera. Minuto più minuto meno, il primo missile cruise colpi il bunker di Saddam, in quella che è adesso la Zona Verde, ossia l´area blindata riservata al governo iracheno e agli americani inseguiti dai kamikaze. Ma il rais non era neppure in quel rifugio. I bombardamenti durarono quaranta minuti filati. Poi una sosta. Poi altri quaranta minuti. E cosi via. Noi pensavamo a quelle maledette armi di distruzione di massa, che pareva fossero all´origine della guerra (ma che in verità, si seppe poi, non esistevano) e per qualche minuto non abbandonammo le maschere a gas e le tute di protezione che avevamo portato con noi benché fossero ingombranti. E inutili. Le gettammo presto nella spazzatura. Avevamo intuito che la storia delle armi di distruzione di massa era una grossa balla.
In quelle ore, come del resto nei giorni successivi, fino al 9 aprile, quando i marines entrarono a Bagdad, non ci rendemmo conto di un fatto essenziale: quella che pensavamo fosse una guerra in realtà non lo era, era semplicemente il prologo alla guerra. La guerra, quella vera, sarebbe cominciata dopo, dopo il prologo, come in teatro. Noi abbiamo assistito, tra il 19 marzo e il 9 aprile, ad avvenimenti che hanno condotto a una guerra che dura da cinque anni e che può durare ancora a lungo. Altro particolare, tutt´altro che trascurabile, di cui non ci rendemmo conto, era che la guerra vera, che sarebbe cominciata dopo il 9 aprile, era già persa prima ancora di iniziare.
Mi spiego. L´invasione dell´Iraq fu soprattutto una grande operazione logistica, con poche vere battaglie. La famosa "regina delle battaglie", che doveva essere combattuta a Bagdad, non avvenne mai. L´esercito iracheno si squagliò senza opporre una seria resistenza. Sul piano tecnico militare gli americani funzionarono bene. Ma il loro successo fu tanto rapido che, arrivati a Bagdad, erano tanto baldanzosi per la vittoria riportata che non si curarono di amministrare il paese, come si conviene a un esercito di occupazione. I marines dicevano che non potevano fare i vigili urbani, i pompieri, i poliziotti. Loro erano uomini di guerra: e cosi persero la pace.
Si comportarono da spettatori durante il saccheggio di Bagdad. Lasciarono che i beduini inurbati sciiti, del grande sobborgo Sadr City (allora Saddam City) appiccassero il fuoco a ministeri, caserme, residenze ufficiali, banche, ospedali, biblioteche. Ma protessero il ministero del petrolio, dando l´impressione che il petrolio fosse il vero obiettivo della guerra che non era ancora guerra. Quella vera cominciò presto perché l´esercito che si era sgretolato davanti all´avanzata americana si era disperso portando con sé le armi.
Grazie alle quali fu in grado di organizzare la resistenza che era mancata durante il prologo alla guerra. Il denaro non è mancato, Saddam aveva messo da parte parecchi miliardi, e le confraternite arabe integraliste sono state generose. Lo sono ancora. Né sono mancati gli alleati, perché in Iraq si è formata subito una forza internazionale araba, ispirata da al Qaeda.
È in quei giorni, dopo l´invasione, durante i saccheggi, che gli americani persero la faccia, cioè ogni credibilità di fronte alla popolazione irachena, e di fatto persero la guerra che stava per cominciare. In un conflitto come quello iracheno non vince l´esercito più forte militarmente. Esso non può nemmeno perdere militarmente ma non riesce a schiacciare l´avversario. Cosi finisce col perdere, vale a dire col "non vincere". Questo è accaduto più o meno in Algeria nel 1954 con i francesi e in Viet Nam con gli americani nel 1973, quando se ne dovettero andare. È politicamente difficile continuare una guerra per anni, impegnando enormi e dispendiose forze militari. Così si perdono le guerre asimmettriche. Quella in Iraq è la più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, dopo il Viet Nam; e la più costosa, dopo la Seconda guerra mondiale.
Cinque anni dopo sopravvivono dei ricordi, che pur non discostandosi troppo da quelli delle altre guerre del genere, hanno un´impronta particolare. Anzitutto non sono definitivi, perché nulla è ancora concluso. Prevalgono certo le immagini della continua, inesauribile ondata di kamikaze e dei massacri indiscriminati; delle vendette etniche tra sciiti e sunniti con i puntuali omicidi notturni nei quartieri misti; dei rapimenti e delle esecuzioni sommarie. Ma vi sono anche le immagini di Abu Ghraib, il carcere delle torture inflitte dai sadici custodi americani; del massacro a freddo di 24 civili a Haditha; dello stupro di una ragazza di 14 anni a Mahmudiya, insieme all´uccisione di tre membri della sua famiglia. E ancora tanti altri episodi di cui si sono occupate e si occupano le Corti marziale americane. L´assedio di Falluja, furioso, micidiale. Il 19 marzo 2003 non potevamo immaginare che negli anni successivi la presenza americana avrebbe raggiunto 160 mila uomini, che i morti americani sarebbero stati quattromila e che le vittime civili irachene sarebbero state decine di migliaia.
Non ho mai visto un soldato americano camminare solo e disarmato in una strada di Bagdad. Era impensabile a Saigon. Non ne ho mai visto uno a braccetto con una ragazza irachena. Sarebbe stato assurdo ad Algeri. Nessuno americano ha mai bevuto una coca cola in pubblico con un iracheno. Uno degli obiettivi di George W. Bush era di portare la democrazia nella valle del Tigri e dell´Eufrate. In effetti ci sono state delle elezioni. Ma sono servite unicamente a far prevalere e a portare al governo la maggioranza sciita a lungo sottomessa alla minoranza sunnita. Sono servite in pratica ad accentuare quella che è difficile non chiamare una guerra civile: l´insurrezione armata essendo alimentata dai sunniti, spinti dalla speranza di recuperare il potere perduto, ed essendo sciite le forze governative, a fianco degli americani.
Negli ultimi mesi gli attentati sono diminuiti. Impegnandosi maggiormente nella regione di Bagdad, la più tormentata, gli americani sono riusciti a recuperare parte dell´insurrezione sunnita, di origine nazionalista, staccandola dalle organizzazioni internazionaliste, più ispirate che legate ad al Qaeda. Ormai ci sono milizie sunnite («del risveglio») che combattono insieme alle forze governative. Ma il paese, tenuto insieme con la forza ai tempi di Saddam, è di fatto frantumato. A Nord i curdi sono trincerati in un´autonomia molto simile a un´indipendenza. A Sud gli sciiti, spesso rissosi tra di loro, sentono il richiamo del vicino Iran. Per cui sono in principio alleati degli americani e al tempo stesso alleati dei peggiori nemici degli americani. E nel centro del Paese continua la mischia. Dovuta anche all´insoluta questione della ripartizione del petrolio, abbondante a Nord e a Sud, e assente al centro, dove prevalgono i sunniti. La fine del conflitto non è per domani.
Anche se Washington dovesse insediarsi l´anno prossimo un´amministrazione decisa a lasciare l´Iraq, non sarebbe facile organizzare una ritirata. Babilonia potrebbe crollare, frantumarsi alle spalle dei soldati che se ne vanno. Ma restando gli americani non sono ancora in grado di imporre la pace. Questa è la situazione dopo cinque anni.

Sul CORRIERE della SERA troviamo gli equlibrismi di Olivier Roy che si ingegna a dimostrare che una sconfitta in Iraq non sarebbe una vittoria per Al Qaeda, organizzazione che secondo lui non ha mai avuto  "lo scopo di conquistare e governare un territorio".
E il sogno del "ritorno del Califfato" proclamato a chiare lettere da Osama Bin Laden ?
Va anche detto che Al Qaeda, fin dall'inizio, è una rete di sostegno e di organizzazione del terrorismo jihadista in diversi contesti "locali". La contrapposizione tra attori locali  e l'organizzazione di Bin Laden è dunque quanto meno dubbia.  Il problema non è infatti chi eserciti la "leadership" nella galassia del terrorismo islamico, ma il fatto che i diversi gruppi condividano medesimi obiettivi e medesima idelogia.  Nientaffatto "locali" e reattivi, ma, al contrario, globali e aggressivi nei confronti di tutto l'Occidente.

Ecco il testo:

Cosa succederebbe, se le truppe americane lasciassero l'Iraq? Al Qaeda ne risulterà rafforzata o indebolita? Sono queste le due domande decisive delle elezioni presidenziali americane. Nessuno è in grado di fornire risposte precise. Tuttavia posso dire quello che invece non accadrà: Al Qaeda non salirà al potere e non costituirà uno stato islamico. Troppa gente nel mondo occidentale continua a considerare Al Qaeda un'organizzazione mediorientale con un suo territorio, che vuole espellere cristiani e ebrei dalla regione per creare un dar-al-Islam (terra islamica) sotto l'egida di un califfato. Al Qaeda però non è una continuazione della Confraternita islamica, di Hamas, o Hezbollah: è un'entità globale, non-territoriale, e non ha mai mirato a costituire uno stato islamico. Non ha alcun senso considerare Al Qaeda un'organizzazione politica che abbia lo scopo di conquistare e governare un territorio. Al Qaeda recluta ragazzi sradicati, che in genere non hanno una relazione diretta con i paesi coinvolti nei conflitti del Medio Oriente. Al Qaeda non ha le radici locali necessarie a assumere il potere.
Quella di Al Qaeda è una duplice strategia: da una parte è determinata a scontrarsi direttamente con gli Stati Uniti: tira colpi contro gli Usa e conta non sull'effettivo danno che viene inflitto (nel senso di costo finanziario e numero delle vittime), ma sull'immagine, l'impatto dei media, e l'effetto terrore. Quelli che parlano di scontro tra civiltà amplificano, in modo speculare, l'impatto delle operazioni di Al Qaeda; in realtà, questa ha bisogno di essere demonizzata, per sembrare ciò che non è, la forza- leader dell' «ira musulmana ». In secondo luogo, Al Qaeda mira a dare un nuovo significato ai conflitti che già esistono, rendendoli parte della
jihad globale contro l'Occidente. In Bosnia, Cecenia, Afghanistan e ora in Iraq, i gruppi internazionalisti islamici non sono tuttavia riusciti a spostare i conflitti locali e nazionali e hanno giocato solo un ruolo ausiliario. Gli attori decisivi delle guerre locali sono quelli, appunto, locali. I talebani in Afghanistan, i differenti gruppi sunniti e sciiti in Iraq, e gli Hezbollah in Libano, sono tutti gruppi che non sono sotto la
leadership di Al Qaeda. Al Qaeda è solo stata capace di reclutare volontari che vengono da fuori e sono sostenuti dalle popolazioni locali solo a patto di combattere contro un nemico comune, come le truppe americane in Iraq. Le rispettive agende, però, sono completamente differenti: siano essi musulmani o no, gli attori locali perseguono una loro particolare soluzione politica. Non vogliono certo il caos o la jihad globale: al primo contrasto tra «la politica del più cattivo» promulgata da Al Qaeda, e una possibile risoluzione politica locale, gli attori locali scelgono quest'ultima.
Al Qaeda è in grado di ingaggiare alcune organizzazioni locali, che hanno una loro storia, e sono attive all'interno di un'area limitata o di una regione linguistica: li possiamo trovare in Indonesia, nel Sahel del nord, nel Libano del nord, nel triangolo sunnita dell'Iraq e in Arabia Saudita e nello Yemen. Queste organizzazioni non hanno bisogno di Al Qaeda per reclutare gente o entrare in azione. Se si sono schierate dalla parte di Al Qaeda è proprio perché hanno difficoltà a definire o perseguire un obiettivo locale (quello ad esempio di uno stato islamico). Vengono globalizzati, così, per difetto.
Possono esserci delle buone ragioni per rimanere in Iraq, ma non hanno niente a che fare con Al Qaeda, quanto, piuttosto con un'operazione di damage control. Se gli Usa lasciassero l'Iraq, potrebbe scoppiare una guerra civile o potrebbe aumentare l'influenza del-l'Iran. Sarebbe stato meglio concentrare le forze in Afghanistan, la reale culla di Al Qaeda: se fosse stata dedicata all'Afghanistan anche solo una parte dei cervelli e delle truppe impiegati invece in Iraq, le cose sarebbero andate meglio. Per l' Afghanistan, come per tutto il Medio Oriente, non esiste alcuna soluzione militare. Ce ne sarebbe una, politica: si dovrebbe trattare con gli attori locali e abbandonare l'assurda idea di una «guerra globale contro il terrore».

Sempre dal CORRIERE, un articolo di Paolo Valentino sulle posizioni di Hillary Clinton circa l'Iraq;

WASHINGTON — Con-tractors addio. Se Hillary Clinton diventasse presidente degli Stati Uniti, licenzierebbe tutte le controverse milizie private, forti di quasi 140 mila persone, che svolgono un ruolo cruciale nelle operazioni militari in Iraq, agiscono fuori di ogni regola d'ingaggio e sono pagate il triplo dei regolari.
Sarebbe il primo passo di un piano generale per il ritiro delle truppe americane, che inizierebbe entro 60 giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca.
«George Bush e il senatore McCain — ha detto l'ex first lady in un discorso interamente dedicato all'Iraq — vogliono tenerci legati alla guerra civile di un altro Paese, una guerra che noi non possiamo vincere». Nel quinto anniversario dell'invasione, Hillary ha voluto riproporre le sue credenziali di politica estera, presentando una strategia complessiva per tirare fuori gli Usa da un disastro militare e finanziario, che «ha reso il terrorismo più forte» nonostante il sacrificio di quasi 4 mila soldati americani: «È in gioco la nostra sicurezza economica, tenendo conto di tutto questa guerra potrebbe costarci più di mille miliardi di dollari».
Quando sembrava dovesse essere la recessione economica a catturare l'agenda della campagna elettorale, è l'Iraq invece a riprendersi il centro della scena. Il discorso di Hillary cade mentre McCain, ormai certo della nomination repubblicana, ha iniziato proprio da Bagdad la sua prima missione internazionale da candidato alla Casa Bianca. A tenere il tema alto nell'attenzione dei media c'è stato ieri anche l'arrivo a sorpresa nella capitale irachena del vice-presidente Cheney, che rimarrà 10 giorni in Medio Oriente.
Clinton non ha negato i risultati positivi della « surge», la strategia anti-guerriglia lanciata un anno fa che ha ridotto notevolmente i livelli della violenza e parzialmente stabilizzato la situazione. Ma se il suo scopo era di dare tempo e respiro agli iracheni per la riconciliazione politica, allora l'escalation (con lo schieramento di 30 mila soldati in più) non è servita a nulla: «La guerra civile continua. Il governo di Bagdad non dà i servizi essenziali ai cittadini e non approva le leggi necessarie. La corruzione dilaga».
Ritirarsi non sarebbe una sconfitta, secondo la candidata democratica: «Sconfitta sarebbe rimanere lì per 100 anni, come vorrebbe McCain». Ma il ritiro dovrà avvenire senza perdere di vista gli interessi strategici degli Usa nella regione: da presidente, Hillary promette che manterrà «sul terreno squadre speciali, con il compito di compiere azioni mirate contro Al Quaeda». Parallelamente al ritorno a casa delle truppe, una forte iniziativa diplomatica a tutto campo verrà spiegata dalla Casa Bianca per stabilizzare il Paese e la regione. Un ruolo centrale per la riconciliazione nazionale dovrà essere giocato dalle Nazioni Unite.
Verrà istituita un'autorità speciale, per indagare dove vadano a finire i proventi del petrolio e i fondi per la ricostruzione. Mentre nuova pressione sarà esercitata sugli alleati, «perché si assumano maggiori responsabilità»: Hillary vuole creare un «gruppo di stabilizzazione regionale» di cui facciano parte non solo gli europei, i Paesi del Golfo, la Giordania e l'Egitto, ma anche la Siria e l'Iran.
Anche se Hillary non ha perso l'occasione per criticare il suo rivale per la nomination democratica, Barack Obama, accusato di non voler escludere l'uso dei contractors, il discorso di ieri è stato soprattutto puntato contro il binomio Bush/McCain: «Non hanno imparato dai loro errori e vogliono ripeterli. Bush vuole insistere in una politica fallimentare fino alla fine del suo mandato e McCain sarebbe ben contento di raccogliere il testimone ».

Robert Fisk, in un articolo pubblicato dall'UNITA', riesce avedere nel terrorismo suicida un lascito... dell'amministrazione Bush.
Il suo articolo, nel quale si può percepire la sua simpatia umana per i terroristi suicidi e per i famigliari fieri del loro sacrificio (ma non quella per le vittime) ignora completamente l'indottrinamento ideologico e la predicazione d'odio alla base del fenomeno dei cosidetti "shahid".

Ecco il testo:

Khaled mi guardava con un largo sorriso. Era quasi sul punto di scoppiare a ridere. Ad un certo punto, quando gli ho detto che doveva abbandonare ogni idea di diventare un attentatore suicida - e che avrebbe potuto esercitare una maggiore influenza sulla sua gente facendo il giornalista - ha rovesciato la testa all'indietro e mi ha lanciato un ghigno, come di chi è stanco della vita già a meno di venti anni. «Tu hai la tua missione», mi ha detto. «Io ho la mia». Le sue sorelle lo guardavano con soggezione. Era il loro eroe, il loro amanuense e il loro maestro, il loro rappresentante e il loro aspirante martire.
Era molto bello, giovane - appena 18 anni - indossava una t-shirt nera Giorgio Armani, aveva la barba molto curata da conquistador spagnolo, i capelli con il gel. Ed era pronto ad immolarsi.
Una sorpresa sinistra. Ero andato a casa di Khaled per parlare con sua madre. Avevo già scritto un libro su suo fratello Hassan e volevo presentare alla famiglia un mio collega giornalista canadese, Nelofer Pazira. Quando Khaled è apparso sul portico, Nelofer ed io abbiamo immediatamente - e simultaneamente - capito che sarebbe stato il prossimo a morire, il prossimo "martire". Ce lo diceva il suo sorriso. Avevo già incontrato questi giovani prima d’allora, ma mai il loro destino mi era apparso evidente come in questo caso.
La sua famiglia si è seduta intorno a noi sulla veranda della loro casa da cui si dominava la città libanese di Sidone. Il salotto era pieno di foto a colori di Hassan che era già andato in paradiso - cosi mi hanno garantito - quello stesso paradiso al quale Khaled era certo di essere destinato. Hassan si era schiantato con la sua autobomba contro un convoglio militare americano a Tal Afar nel nord-ovest dell’Iraq, il suo corpo, o quel che ne restava, era stato sepolto sul posto - o per lo meno questo avevano detto alla madre.
In Libano è facile trovare le famiglie di coloro che sono appena morti. I loro nomi vengono letti dai minareti delle moschee di Sidone (per lo più sono palestinesi) e a Tripoli, nel nord del Libano, il movimento sunnita “Tawhid” si vanta di annoverare centinaia di suicidi tra i suoi sostenitori....
Ciò che sorprende - e di cui non parlano gli americani né il governo iracheno o le autorità britanniche e nemmeno molti giornalisti - è la dimensione di questa offensiva suicida, l’enorme numero di giovani (solo raramente donne) che volontariamente pongono fine alla loro vita in mezzo ai convogli americani, dinanzi alle stazioni di polizia irachene, nei mercati, nei paraggi delle moschee, nelle strade commerciali e in strade isolate e vicino a remoti posti di blocco, nelle grandi città e nei vasti deserti dell’Iraq. Non è mai stato calcolato il numero vero di questa campagna stupefacente e senza precedenti di auto-distruzione... In Iraq si sono fatti saltare in aria 1.121 attentatori suicidi musulmani... È forse questo il più spaventoso e mostruoso lascito dell’invasione dell’Iraq voluta da George Bush cinque anni fa. Gli attentatori suicidi hanno ucciso in Iraq almeno 13.000 uomini, donne e bambini - la stima più prudente parla di 13.132 vittime - e ne hanno feriti almeno 16.112. Se teniamo conto anche dei morti causati dal panico e dalla folla in fuga - per paura degli attentatori suicidi - su un ponte sul Tigri nell’estate del 2005, il numero sale, rispettivamente, a 14.132 e 16.612. Va sottolineato, ancora una volta, che si tratta di stime prudenziali...
Un fenomeno di attentatori suicidi di queste dimensioni è senza precedenti nel mondo arabo. Durante l’occupazione israeliana del Libano, dopo il 1982, un attentato suicida al mese ad opera di Hezbollah era considerato un fatto straordinario. Durante la prima e la seconda Intifada palestinese, negli anni 80 e 90, quattro attentati suicidi al mese erano considerati un fatto senza precedenti. Ma in Iraq gli attentatori suicidi hanno colpito al ritmo di due ogni tre giorni dall’invasione anglo-americana nel 2003...
Studiosi e politici dibattono da tempo sulle motivazioni degli attentatori, sull’identikit psicologico degli uomini e delle donne che con estremo sangue freddo decidono di giustiziare delle persone sacrificando la loro vita. E di fatto sono giustizieri, assassini che vedono le loro vittime - siano essi soldati o civili - prima di far detonare l’esplosivo di cui sono imbottiti. Molto tempo fa gli israeliani sono giunti alla conclusione che non era possibile tracciare il profilo “perfetto” dell’attentatore suicida e, alla luce della mia esperienza in Libano, la penso allo stesso modo...
Khaled è - o era, dal momento che non so se è ancora vivo da quando l’ho incontrato appena qualche settimana fa - influenzato dal fratello Hassan il cui viaggio in Iraq fu organizzato da un gruppo sconosciuto, presumibilmente palestinese, e il cui addestramento militare nei pressi del fiume Tigri fu ripreso con una videocamera dai suoi compagni. La madre di Hassan mi ha fatto vedere la cassetta - che finisce con Hassan che saluta felice agitando la mano dal finestrino di un’auto sgangherata, probabilmente la stessa con la quale si apprestava a scagliarsi contro un convoglio americano a Tal Afar.
Ma nulla di quanto detto finora riguarda il problema della fede religiosa. Mentre molte sono le prove secondo cui i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale venivano talvolta costretti con le minacce e le intimidazioni a lanciarsi in volo contro le navi da guerra americane nel Pacifico, molti ritenevano che si sacrificassero per l’Imperatore. Secondo loro la caduta del fiore del ciliegio e il vento divino - il “kamikaze” appunto - avrebbero benedetto la loro anima mentre dirigevano i caccia contro le portaerei americane. Ma persino una dittatura industrializzata come quella giapponese - sull’orlo del collasso della sua struttura sociale per mano di una superpotenza - riuscì a mobilitare appena 4.615 kamikaze. I soli attentatori suicidi iracheni sono già più o meno la metà...
Sul piano individuale, è possibile vedere le tensioni e il trauma psicologico delle famiglie. La madre di Khaled, ad esempio, non faceva che dirsi orgogliosa del suo figlio morto, Hassan, e guardava con pari amore il fratello ancora vivo. Ma quando il mio collega ha detto a Khaled di non sacrificare la sua vita per il bene di sua madre - ricordandogli che lo stesso Profeta ha detto che il primo dovere di un musulmano è proteggere sua madre - la donna stava per scoppiare a piangere. Era combattuta tra il suo amore di madre e il suo dovere politico-religioso di donna che aveva messo al mondo un aspirante martire. Quando il mio amico ha ripetuto a Khaled di non suicidarsi, di rimanere a Sidone e di sposarsi - sinistramente il muezzin aveva intonato la preghiera proprio mentre parlavamo - Khaled ha scosso la testa.
Nemmeno un commento denigratorio su coloro che lo avrebbero mandato a morire - che gente è quella che continua a vivere ma che condanna a morte ragazzi come Khaled? - poteva scoraggiarlo. «Non diventerò uno “shahed” (martire) per la gente - ci ha risposto - Lo faccio per Dio»...
Ma c’è una spiegazione razionale dietro al fenomeno degli attentati suicidi in Iraq? I primi casi si sono verificati quando le truppe americane avanzavano alla volta di Baghdad. Vicino alla città sciita di Nassirya, un poliziotto iracheno fuori servizio, il sergente Ali Jaffar Moussa Hamadi al-Nomani, lanciò la sua autobomba contro un posto di blocco dei Marines americani. Sposato con cinque figli, aveva combattuto nella guerra Iran-Iraq del 1980-88 e si era arruolato come volontario per combattere contro gli americani dopo che Saddam aveva occupato il Kuwait. Non molto tempo dopo due donne sciite lo emularono.
Persino il governo, ormai morente, di Saddam Hussein ne rimase sconvolto...
Durante i cinque anni di guerra gli attentatori suicidi sin sono concentrati più sulle forze di sicurezza irachene addestrate dagli americani che sulle truppe americane. Almeno 365 attentati sono stati eseguiti con successo contro poliziotti o agenti paramilitari iracheni. Tra gli obiettivi almeno 147 stazioni di polizia (1.577 morti), 43 centri di reclutamento dell’esercito e della polizia (939 morti), 91 posti di blocco (con almeno 564 vittime), 92 pattuglie delle forze di sicurezza (465 morti) ed inoltre scorte, convogli con ministri del governo iracheno ecc. Uno dei centri di reclutamento - nel centro di Baghdad - è stato fatto oggetto di attentati suicidi in otto diverse occasioni.
Invece gli attentatori suicidi hanno attaccato solamente 24 basi americane, facendo 100 vittime americane e 15 irachene, e 43 pattuglie e posti di blocco americani uccidendo 116 soldati americani e almeno 56 civili, 15 dei quali probabilmente colpiti dai soldati americani che avevano aperto il fuoco, e 26 bambini che si trovavano accanto alla pattuglia americana. La maggior parte degli americani sono stati uccisi a ovest o a nord di Baghdad. Gli attentati suicidi contro le forze di polizia si sono concentrati a Baghdad e a Mosul e nelle città sunnite immediatamente a nord e a sud di Baghdad. La mappa degli attenti suicidi evidenzia una chiara preferenza per gli obiettivi militari durante tutto il corso dell’insurrezione. Gli attentati contro i soldati americani sono andati gradualmente diminuendo dal 2006 mentre gli attentati contro pattuglie di polizia irachene e reclute di polizia si sono andati intensificando negli ultimi due anni, specialmente in un tratto di 100 miglia a nord di Baghdad. Esattamente come gli assassini islamisti in Algeria - e i loro nemici militari - privilegiavano il mese di digiuno del Ramadan per i loro sanguinosi attacchi negli anni 90, anche gli attentatori suicidi in Iraq si mobilitano alla vigilia di qualunque festività religiosa. Dopo il 2005, durante il periodo del conflitto settario, ci fu un significativo calo degli attentati suicidi o perché gli attentatori temevano i tagliatori di gole delle bande tribali che confluivano a Baghdad o perché - ipotesi alquanto sinistra - venivano essi stessi arruolati e usati in quella drammatica campagna di sangue e violenza.
Gli attentati politicamente più devastanti sono stati quelli all’interno delle basi militari - compresa la Zona Verde a Baghdad (due nello stesso giorno nell’ottobre del 2004) - e contro la sede dell’ONU (con la morte dell’inviato delle Nazioni Unite Sergio de Mello) e della Croce Rossa Internazionale a Baghdad nel 2003. Nel dicembre 2003 le autorità britanniche avvertirono che ci sarebbero stati altri e più “spettacolari” attentati suicidi e il primo ebbe luogo nel gennaio dell’anno seguente quando un attentatore suicida si fece saltare in aria in una moschea sciita a Baquba, uccidendo quattro fedeli e ferendone 39.
Gli attentatori suicidi che si ispiravano ad Al Qaeda attaccavano con deliberato intento provocatorio le moschee sciite, ma anche i mercati e gli ospedali frequentati dai musulmani sciiti. Quasi tutti i 600 iracheni uccisi dagli attentatori suicidi nel mese di maggio 2005 era sciiti. Dopo la parziale demolizione della moschea sciita di Samarra, il 22 febbraio 2006, iniziò per gli attentatori suicidi dell’Iraq una vera e propria “guerra delle moschee”. Fu fatta saltare in aria una moschea sunnita con il bilancio di nove morti e dozzine di feriti e nella stessa settimana gli attentatori suicidi colpirono due moschee sciite. Ai primi di luglio del 2006 sette attentatori suicidi si fecero saltare in aria in moschee sunnite e sciite uccidendo 51 persone. Nello stesso periodo un attentatore suicida fu autore del primo attentato contro un gruppo di pellegrini sciiti che venivano dall’Iran.
Gli attentati suicidi non risparmiarono nemmeno i funerali delle vittime sciite di altri attentati e le feste di matrimonio. Tra gli obiettivi anche le università e i centri commerciali e le vittime erano per lo più sciite. Tuttavia nel corso dell’ultimo anno un crescente numero di leader tribali fedeli agli americani - tra cui Sattar Abu Risha, che ha incontrato pubblicamente il presidente Bush il 13 settembre 2007 ed ex insorti che si sono uniti alle milizie anti-Al Qaeda pagate dagli americani - sono stati oggetto di attentati ad opera di attentatori suicidi sunniti.
Sono stati identificati solamente circa dieci attentatori suicidi. Uno di loro, che si era scagliato nel giugno del 2005 contro una unita’ di polizia, si è rivelato essere un ex agente di polizia di nome Abu Mohamed al-Dulaimi, ma sembra che le autorità americane e irachene sappiano ben poco sulla provenienza di questi attentatori. In almeno 27 occasioni i funzionari iracheni hanno dichiarato di conoscere l’identità degli attentatori - affermando di aver recuperato passaporti e documenti di identità che provavano la loro provenienza dall’estero - ma non hanno mai fornito pubblicamente le prove. Si dubita che le due attentatrici suicide che si sono fatte saltare in aria in un mercato di uccelli all’inizio dell’anno fossero realmente due giovani mentalmente ritardate come sostenuto dal governo. Il fatto che le autorità non dispongono di informazioni affidabili è provato in maniera esemplare da due dichiarazioni contraddittorie rilasciate dagli americani e dai loro protetti iracheni nel marzo dell’anno scorso. Mentre David Satterfield, consigliere per l’Iraq della Segretaria di Stato Condoleezza Rice, affermava che il 90% degli attentatori viene dalla Siria, il primo ministro dell’Iraq, Nouri al-Maliki, annunciava che la maggior parte degli attentatori suicidi viene dall’Arabia Saudita - un altro Paese che confina con l’Iraq. I sauditi non avrebbero avuto alcun bisogno di arrivare fino a Damasco per poi varcare la frontiera ed entrare in Iraq visto che il loro Paese confina con l’Iraq. A Baghdad molti, tra cui alcuni ministri, sono convinti che gli attentatori suicidi siano in realtà per lo più iracheni. Ci vorranno molti anni prima di avere idee più chiare sul numero degli attentatori che si sono fatti saltare in aria durante la guerra in Iraq e sulla loro provenienza. Molto prima che The Independent scrivesse che gli attentatori suicidi erano arrivati a 500, Abu Musab al-Zarqawi, esponente di spicco di Al Qaeda, si vantava di "800 martiri" tra i suoi seguaci. E dal momento che la morte di al-Zarqawi non ha portato al benchè minimo calo degli attentati, dobbiamo presumere che ci sono molti altri "manipolatori" che si occupano di reclutare gli attentatori suicidi che operano in Iraq.
E’ sempre difficile risalire alle motivazioni delle stragi. Chi ricorda ora che l’attentato suicida che ha fatto il maggior numero di vittime - 516 morti e 525 feriti - ha avuto luogo in due remoti villaggi della regione di Kahtaniya, in Iraq, abitati da Yazidi? Sembra che una ragazza Yazidi si fosse innamorata di un sunnita e che la sua stessa gente avesse punito la sua "offesa contro l’onore" lapidandola. Gli assassini venivano probabilmente dalla comunità sunnita. E quindi uno dei lasciti più drammatici della presidenza Bush in Iraq rimane anche il più misterioso: il matrimonio tra nazionalismo e ferocia a sfondo religioso, la nascita di un esercito enorme e senza precedenti di musulmani attirati dall’idea della morte e del sacrificio.
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© The Independent
Traduzione di
Carlo Antonio Biscotto

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