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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Il Manifesto - Il Messaggero - L'Unità Rassegna Stampa
05.03.2008 Rice in Medio Oriente, la disinformazione continua
quotidiani a confronto

Testata:La Repubblica - Il Manifesto - Il Messaggero - L'Unità
Autore: Alberto Stabile - Michele Giorgio - Eric Salerno - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «La Rice ad Abu Mazen: pace ancora possibile - Gaza, bush non vede le stragi e parla di pace - Gaza, dopo la strage la mediazione Rice - Gaza, radografia di una strage - Israele, Anp e Hamas negozino per evitare nuove stragi»
Da La REPUBBLICA del 5 marzo 2008, un articolo di Alberto Stabile sulla situazione in Medio Oriente.
Nelle ultime righe Stabile nota che, in realtà, nel conflitto israelo-palestinese gli attori in campo sono tre e che l'ottimismo di Condoleezza Rice ne ignora uno: Hamas.
L'osservazione è pertinente, ma rischia di risolversi in un implicito appello al "dialogo" con il gruppo fondamentalista. Invece, la conclusione ragionevole è che la pace è improbabile, se non impossibile, finché dura il potere di Hamas.
Ecco il testo completo:

RAMALLAH - «Ci auguriamo che il negoziato riprenda al più presto possibile», dice, ansiosa, Condoleezza Rice, dopo un incontro di tre ore con il presidente palestinese Mahmud Abbas (detto Abu Mazen). Ma per la prima volta fra i due non c´è quel feeling diretto e consonante che s´era visto in altre occasioni. «Chiedo al governo israeliano di fermare la sua aggressione in modo da creare la giusta atmosfera per riprendere il dialogo», le risponde, freddo, il leader palestinese. Non ha raccolto molto da Ramallah, il segretario di Stato americano, volata in Israele e nei territori palestinesi, con l´aggiunta all´ultima ora di una tappa in Egitto, per cercare di rimediare ai contraccolpi provocati dall´operazione «inverno caldo» lanciata da Israele contro Hamas e i suoi alleati nella Striscia di Gaza.
Costretto ad assistere impotente ad un attacco militare durato cinque giorni che, è costato la vita a 116 palestinesi, molti dei quali civili (negli scontri sono morti anche due soldati israeliani e un civile è stato ucciso da un razzo) Abbas ha deciso di congelare le trattative per non trovarsi isolato rispetto all´opinione pubblica palestinese totalmente solidale con la gente di Gaza. Ma questa decisione è stata interpretata in Israele come un cedimento nei confronti di Hamas. Non è che Abbas non desideri ritornare rapidamente al tavolo con Ehud Olmert, tutta la sua strategia, il suo programma e la sua filosofia sono basati sulla rinuncia della violenza e la ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto. Quello che chiede Abbas è che Israele accetti di discutere una tregua generale sia a Gaza che in Cisgiordania, in modo da poter dire ai palestinesi che la scelta della pace, contrariamente a quanto è avvenuto finora, può portare dei frutti concreti.
Ma Israele non sembra disposto a rinunciare alla sua campagna contro Hamas. Già prima che la Rice arrivasse al "Ben Gurion", il premier Olmert, che il segretario di Stato ha visto ieri a cena, faceva sapere che il suo governo considerava, sì, le trattative coi palestinesi moderati di Abbas di somma importanza. Ma aggiungeva che davanti ai lanci di Qassam contro le città del Negev, Israele non intende rinunciare al suo diritto all´auto difesa. Pace sì, «ma non ad ogni costo». E ieri sono riprese le incursioni di Tsahal nella Striscia, con blindati appoggiati dall´aviazione. È stata un´operazione limitata, per dare la caccia a un capo della Jihad. Ma, secondo fonti mediche palestinesi, nei combattimenti che sono seguiti è stata uccisa una neonata nel villaggio di Al-Karara e sono stati feriti due civili.
E questa linea è stata ribadita, ieri, sia dal ministro della Difesa, Ehud Barak che dalla sua collega degli Esteri, Tzipi Livni. Entrambi incontreranno oggi la Rice. Barak ha chiarito che le operazioni militari contro Hamas a Gaza continueranno. E la Livni ha detto ad un gruppo di diplomatici che Israele potrebbe trovarsi nelle condizioni di dover rioccupare la Striscia.
Dunque, più che una tregua, quella che si profila all´orizzonte è piuttosto una radicalizzazione dello scontro. Con questa prospettiva suonano irreali le parole della Rice che, prima al Cairo, poi ha Ramallah, ha detto di credere che un accordo entro la fine dell´anno era ancora possibile. Il Segretario di Stato si riferiva, ovviamente, ad Abu Mazen ed Ehud Olmert, senza aver apparentemente realizzato che in questa partita c´è anche un terzo giocatore: il movimento islamico.

Michele Giorgio sul MANIFESTO definisce frutto di  "faccia tosta" le dichiarazioni di Condoleezza Rice. Secondo  lui a Gaza avrebbe avuto luogo un'aggressione israeliana, un indiscriminato massacro di palestinesi, ignorato dagli americani. 
Il fatto che Israele si difenda è ovviamente ignorato. Il che fa parte dell'ipocrisia di chi sostiene la "resistenza" palestinese e poi descrive le reazioni israeliane come stragi di inermi commesse a freddo.
Ecco il testo:

Ogni volta che Condoleezza Rice arriva a Ramallah per incontrare Abu Mazen, ci si rende conto che in politica e in diplomazia occorrerebbe porre un limite alla faccia tosta. Dopo 120 palestinesi uccisi da Israele a Gaza - ieri altri tre - in meno di una settimana (almeno il 50% erano civili), il Segretario di stato americano alla Muqata ieri ha affermato, come se nulla fosse accaduto, che rimangono intatte le possibilità di raggiungere un accordo di pace israelo-palestinese entro la fine del 2008. «L'obiettivo che ci siamo posti non è di facile realizzazione ma credo che si possa realizzare», ha detto la Rice, che qualche ora dopo ha ricevuto sostegno da George Bush il quale, incontrando re Abdallah di Giordania, si è detto «ottimista come ad Annapolis» sul successo delle trattative. Il Segretario di stato si è guardata bene dal mettere in dubbio la legittimità degli attacchi militari israeliani in aree popolate palestinesi - conseguenza, ha detto, dei lanci di razzi Qassam - e ha soltanto concesso che «si devono fare sforzi per risparmiare vite innocenti». La Rice dovrebbe spiegarlo ad ufficiali e soldati della Brigata Givati che, riferiva ieri Ron Ben Yishai sullo Yediot Ahronot, si fanno i complimenti a vicenda per il «coraggio» dimostrato in combattimento a Gaza. Ma quando la faccia tosta è troppa, disturba persino l'accomodante leader palestinese Abu Mazen che alla Rice ha ribadito che la trattativa con Israele resta sospesa e, soprattutto, ha sottolineato «la necessità d'instaurare una tregua globale a Gaza e in Cisgiordania». Ha quindi chiesto che Israele ponga fine «alla sua aggressione affinché si creino le condizioni propizie al successo dei negoziati», cercando di far comprendere al Segretario di stato che, se il governo israeliano non metterà fine alle sue offensive militari, l'Autorità nazionale palestinese non avrà alcuna possibilità di sopravvivere. Non tanto per il consenso di cui gode Hamas, ma per la rabbia dei palestinesi stanchi dell'occupazione e della debolezza dell'Anp. I segnali di un nuovo fermento - che a qualcuno già fa immaginare una «terza Intifada» - sono evidenti. Mentre a Gaza i civili venivano uccisi come mosche, in Cisgiordania sono divampati scontri tra palestinesi e forze di occupazione, anche a Gerusalemme Est. Due adolescenti palestinesi sono stati uccisi vicino Ramallah ed Hebron, il primo da un colono israeliano (che è stato prontamente rilasciato dalla polizia). E la tensione cresce anche in Galilea. Ad Um el-Fahem ieri si è svolta una manifestazione di massa della popolazione araba israeliana. Per Mustafa Barghuti, esponente di punta della società civile palestinese, «il pessimismo e lo scetticismo verso il negoziato sono giustificati». Da quando si è chiusa la conferenza di Annapolis, ha detto, «Israele non ha cessato per un minuto di espandere le sue colonie in Cisgiordania. I posti di blocco militari sono passati da 521 a 562 e in tre mesi sono stati uccisi 323 palestinesi, tra cui 31 bambini». D'altronde, ha aggiunto Barghuti, «lo stesso Abu Mazen riconosce che da quando è ripartito il negoziato con Israele non è stato affrontato alcuno dei nodi del conflitto». E non aiutano certo a rasserenare la popolazione dei Territori occupati le rivelazioni di stampa sulle manovre degli Stati Uniti volte ad interferire nella politica interna palestinese. Il magazine americano Vanity Fair, venuto in possesso di documenti segreti corroborati da fonti del Dipartimento di stato e da esponenti palestinesi, ha rivelato che George Bush aveva approvato un'operazione coperta per rovesciare il governo di Hamas poco dopo la vittoria del movimento islamico nelle elezioni politiche palestinesi del gennaio 2006. A rovesciare l'esecutivo di Hamas, democraticamente al potere, avrebbero dovuto pensarci i dirigenti del partito rivale Fatah - primo fra tutti l'ex «uomo forte» di Gaza, Mohammed Dahlan - finanziati e armati dagli Stati Uniti. Al Segretario di Stato Condoleezza Rice e al vice consigliere per la sicurezza nazionale, Elliot Abrams, era stato affidato l'incarico di alimentare una guerra civile tra i palestinesi. Manovre occulte che non sono servite a molto: oggi Hamas controlla tutta Gaza e Abu Mazen vacilla in Cisgiordania.

"Dopo il massacro la diplomazia" è l'esordio dell'articolo di Eric Salerno nel quale ricorrono espressioni come "violenza dell'attacco israeliano".


"Gaza radiografia di una strage" è il titolo dell'articolo di Umberto De Giovannangeli pubblicato dall'UNITA'.
Non si tratta affatto di una "radografia", per molti motivi. La scelta unilaterale delle fonti, per esempio: i dati dell'esercito israeliano sui morti civili e su quelli armati non sono forniti. Un altro elemento da sottolineare è l'interpretazione strumentale della convenzione di Ginevra che viene avvalorata. Che i bombardamenti delle postazioni dei razzi kassam, delle fabbriche che li producono, dei terroristi che li lanciano comportino rilevanti benefici militari è indubbio, a differenza di quanto suggeriscono u.d.g. e l'organizzazione umanitaria israeliana Betselem. E altrettanto indubbio è che per la  convenzione di Ginevra che conduce una guerra nascondendosi tra i civili è responsabile della loro morte.
Più fondamentalmente, il difetto dell'articolo consiste nel fatto che non indica i veri responsabili delle sofferenze degli abitanti di Gaza: i terroristi di Hamas che continuano la loro guerra a oltranza contro Israele, rifiutando ogni prospettiva di soluzione politica del conflitto.
Ecco il testo:


Iyad e Jacqueline Muhammad Abu-Shbak. Erano sorella e fratello. Avevano 14 e 12 anni. Sono morti il primo di marzo a Jabaliya «mentre assistevano dietro i vetri della finestra di casa ai combattimenti». Muhammad al Buri. Aveva appena sei mesi. È morto nel bombardamento della sua abitazione «colpita nonostante non fosse un obiettivo militare».
Salwa e Samah Zedan. Erano sorelle. Aveavano rispettivamente 13 e 17 anni. Il 2 marzo sono state uccise nella loro casa alla periferia di Jabaliya. La famiglia Attalla è stata colpita da un missile di 1 tonnellata sparato da un F-16 israeliano.
IYAD, Jacqueline, Muhammad, Salwa, Samah. Sono alcuni dei bambini uccisi nell’offensiva militare israeliana a Jabaliya, nord di Gaza. Non sono solo numeri, sono volti, storie, giovani vite spezzate. Ricordarli è un modo per onorarne la memoria e perché un silenzio assordante non cali sulla tragedia di Gaza
I
l missile ha distrutto la loro casa di due piani, alla periferia di Jabaliya, causando la morte di quattro membri della famiglia, tra i quali il piccolo Thabet, 11 anni. Zahira, 23 anni, è stata colpita al cuore da un proiettile mentre stava preparando la colazione ai suoi bambini. Un carro armato ha colpito la casa della famiglia Okel, uccidendo un bambino di 3 anni e la sua sorellina di 9. Quattro bambini colpiti da un razzo israeliano il 28 febbraio mentre giocavano a pallone alla periferia di Jabaliya. Radiografia di un massacro: quello che ha segnato il campo profughi di Jabaliya, nord di Gaza, investito per sei giorni dall’offensiva militare israeliana, nome in codice «Inverno caldo». In passato, l’Unità ha dato conto dell’angoscia, della paura, del trauma che scadenzano la quotidianità dei bambini israeliani di Sderot, la città frontaliera investita ogni giorno, da sette anni, da un martellante lancio di razzi Qassam. Oggi vogliamo raccontare la sofferenza di altri bambini e di una popolazione civile di 1milione e 400mila persone, quella della Striscia di Gaza, sottoposte ad una sofferenza senza fine. Radiografia di una tragedia, raccontata attraverso i rapporti, le testimonianze, i dati di associazioni umanitarie che non hanno mai taciuto di fronte agli attacchi contro civili israeliani, negli anni dell’«Intifada dei kamikaze», e non hanno mai lesinato parole di condanna per gli attacchi missilistici contro Sderot, Asqhelon, il sud d’Israele.
Organizzazioni come «Btselem», l’associazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei Territitori. «Secondo i dati in nostro possesso - afferma Sarit Michaeli, direttore della comunicazione di Btselem - i morti palestinesi sono stati in sei giorni di scontro 111: fra questi 56 erano civili non coinvolti in azioni di combattimento, e 25 di questi erano minorenni». «Btselem» accusa le forze armate dello Stato ebraico di aver violato le norme di guerra che proibiscono di colpire obiettivi militari quando questi attacchi, per la vicinanza ai centri abitati, rischiano di provocare un numero sproporzionato di vittime anche fra i civili.
I dati di «Btselem», per ciò che concerne i minorenni uccisi nei sei giorni di combattimenti, trovano conferma nel rapporto dell’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia. L’Unicef evidenzia che «la Convenzione sui diritti dell’infanzia sottolinea la necessità di prendere tutte le misure possibili per garantire la protezione e assistenza ai bambini colpiti da un conflitto armato. Oltre a quelli che ne sono vittime dirette, tutti i bambini sono colpiti dall’impatto terrificante di questo conflitto. I bambini costituiscono oltre la metà della popolazione di Gaza e subiscono l’urto della crisi». Bambini che «soffrono già a causa di una serie di restrizioni, fra cui il blocco della maggior parte delle derrate imposto sin dal giugno 2007». L’ultimo ciclo di uccisioni e distruzione, rimarca a sua volta Amnesty International, «giunge mentre il milione e mezzo di abitanti di Gaza sta soffrendo una crisi umanitaria a seguito dei sempre più rigidi blocchi imposti da Israele». Gli ospedali e le strutture sanitarie, già alle prese con la mancanza di elettricità, carburante, attrezzature e parti di ricambio stanno lottando per fare fronte alla nuova ondata di feriti causata dall’offensiva israeliana. «Coi confini di Gaza sigillati - rileva il direttore del Programma Medio Oriente e Africa di Amnesty, Malcom Smart - molti pazienti che hanno bisogno disperato di cure mediche non disponibili in loco, non possono essere trasferiti in ospedali all’estero e rischiano di perdere la vita» Tra questi, c’è Ahlam Abu Auda, 13 anni. Intisar Abu Auda, 48 anni, mamma di Ahlam racconta: «Cinque dei miei figli sono morti perché malati, non hanno potuto ricevere cure adeguate. Ora, il mio timore più grande e che, a causa dell’assedio, possa perdere anche la sesta». «L’assedio di Gaza - dice la piccola Ahlam - ha peggiorato molto le mie condizioni, e forse ha accelerato i tempi in cui troverò la morte. Basta un black-out elettriche, le macchine per la dialisi si fermano...». Solo negli ultimi due mesi - ricorda ancora Amnesty - le forze israeliane hanno ucciso quasi 200 palestinesi a Gaza, un terzo dei quali erano civili disarmati ed estranei agli scontri. Altre centinaia di persone sono rimaste ferite, molte delle quali in modo permanente. Nello stesso periodo, un civile israeliano è rimasto ucciso e diversi altri sono stati feriti dai razzi lanciati dai gruppi armati palestinesi di Gaza, che hanno colpito Sderot e altre zone del sud di Israele. La tragedia di Gaza è in una quotidianità che impone solo un obiettivo: la sopravvivenza. Sempre più difficile. Sempre più dipendente dagli aiuti umanitari. Oggi, rileva un recente rapporto del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam), il 70% della popolazione di Gaza è priva di sicurezza alimentare e la grande maggioranza dipende dall’assistenza dell’Onu per i bisogni basilari.

Affianca il pezzo su Gaza un'intervista al rappresentante speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi John Dugard. La maschera umanitaria assunta da Dugard è un fragilissimo paravento della natura politica delle sue posizioni. Che si possono riassumere nella volontà di legittimare Hamas.
Ecco il testo:


«C’è un solo modo per evitare nuove stragi di innocenti a Gaza. Favorire un negoziato tra il governo israeliano, Hamas e l’Autorità nazionale palestinese». A sostenerlo è John Dugard, rappresentante speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi.
Quelli appena trascorsi sono stati giorni di morte e distruzione nella Striscia di Gaza. In che modo è possibile a suo avviso evitare nuovi bagni di sangue?
«Ogni sforzo deve essere teso a porre fine alla violenza. Questa dovrebbe essere la priorità assoluta della comunità internazionale e in essa delle Nazioni Unite. I rapporti di tutte le organizzazioni umanitarie e delle agenzie Onu che operano nei Territori delineano un quadro angosciante: a morire nei sei giorni di combattimenti sono stati decine di bambini e di donne, almeno la metà dei palestinesi uccisi erano civili. Lo ripeto: ogni energia deve essere profusa perché ciò non debba ripetersi».
In quale direzione dovrebbero essere a suo avviso orientati tali sforzi?
«L’unica strada percorribile è quella del negoziato e della mediazione. Di questo ne sono profondamente convinta. La mia è una convinzione empirica, fondata cioè sulla realtà dei fatti. E i fatti ci dicono che per Israele non esiste una scorciatoia militare per la sua sicurezza. Questa è una illusione, una tragica illusione. Guardi cosa è accaduto in passato: Hamas ha eliminato i capi di Hamas, ne ha ucciso il fondatore (lo sceicco Ahmed Yassin, ndr.) e l’unico risultato raggiunto è stato il rafforzamento di Hamas».
Lei invoca la trattativa. Tra chi e quale soggetto internazionale dovrebbe farsene promotore?
«Le Nazioni Unite sono l’organismo appropriato per promuovere i negoziati, tra Hamas, il governo israeliano e l’Autorità nazionale palestinese. Fino ad ora, l’Onu è stato impossibilitata dagli Stati Uniti, dall’Europa e da Israele ad avviare contatti con Hamas e ciò non ha permesso alle Nazioni Unite di espletare quello che è il suo mandato principale: il mantenimento della pace. Mi auguro, innanzitutto per il bene dei due popoli, quello palestinese e l’israeliano, che venga posto fine a questo ostracismo».
Israele ha giustificato le operazioni militari a Gaza come risposta obbligato al continuo lancio di razzi Qassam su Sderot, Ashqelon e il sud del Negev.
«La mia risposta è la stessa che ha dato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon: si è trattato di una risposta militare eccessiva e sproporzionata, contraria al diritto umanitario. Per questo associo la mia voce a quella dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Louise Arbour, nel chiedere che sia avviata una indagine imparziale sulle uccisioni di dozzine di civili, tra cui anche bambini, nelle operazioni delle forze armate israeliane, di rendere pubblici i risultati e di punire i responsabili. Mi lasci ricordare che le punizioni collettive sono proibite e che Israele, in qualità di potenza occupante, ha una responsabilità particolare. Israele ha l’obbligo legale di proteggere la popolazione civile di Gaza».
Non ritiene che una condanna altrettanto netta dovrebbe riguardare quanti in campo palestinese bersagliano i civili israeliani di Sderot e Ashqelon?
«Non ho alcuna incertezza a farlo. Questi attacchi sono una chiara violazione del diritto umanitario internazionale e i responsabili dovranno renderne conto, ma questo, è bene sottolinearlo, non giustifica in alcun modo le punizioni collettive ed un uso spropositato della forza da parte di Israele».
In un nostro precedente colloquio, Lei ebbe a dire, reduce da una missione nei Territori, che la cosa che l’aveva maggiormente colpito, era l’assenza di speranza del popolo palestinese.
«Lo ricordo bene e le drammatiche vicende di queste giorni rafforzano, purtroppo, questa sensazione. Nel popolo palestinese è diffuso un sentimento di disperazione causato dalla violazione dei diritti umani. Un sentimento che interroga le coscienze di ognuno di noi».

Osserviamo in conclusione che i quotidiani analizzati non rinunciano alla parola "strage". Una parola adeguata a un deliberato massacro di civili, non a operazioni militari difensive, che hanno per obiettivi i terroristi e le infrastrutture terroristiche. anche quando, tragicamente,  colpiscono i civili, per responsabilità di chi si fa scudo.

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