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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Avvenire - Il Manifesto Rassegna Stampa
04.03.2008 Numero dei morti civili palestinesi e fuoco incrociato tra israeliani e terroristi
quelli che scelgono la versione che fa più comodo

Testata:La Repubblica - Avvenire - Il Manifesto
Autore: Alberto Stabile Bernardo Valli - Barbara Uglietti - Michele Giorgio
Titolo: «Israele si ritira da Gaza, Hamas canta vittoria - Pianto e lutto fra i profughi di Jabaliya Ma è colpa anche di chi lancia kassam - Israele, il ritiro da Gaza e la minaccia iraniana - Gaza, Israele si ritira: Pronte altre incursioni - Gaza, un massacro d»
A differenza di Davide Frattini sul CORRIERE della SERA (vedi cronaca riportata su Informazione Corretta), molti quotidiani del 4 marzo 2008, riportano il dato dei morti civili nelle operazioni militari a Gaza fornito dall'organizzazione umanitaria israeliana Betselem e dalle fonti palestinesi e non quello fornito dal capo di stato maggiore dell'Isf, secondo il quale la maggior parte dei morti erano terroristi (formalemente, per altro, anche questi ultimi, se non sono aruolati nelle "forze di sicurezza" sono civili, nel senso di non inquadrati in un esercito regolare, sebbene armati)
Adifferenza di Francesca Paci sulla STAMPA molti giornali attribuscono  la morte dei fratelli palestinesi Jacqueline ed Eyad Abu Shback (16 e 14 anni) semplicemente  agli  israeliani. La Paci fornisce una versione dicìersa, sostenendo che  che sono morti per il fuoco incrociato tra gli israeliani e Hamas:

Jacqueline è morta sabato sera insieme al fratello Iyaad, 15 e 16 anni, martiri veri del fuoco incrociato tra i militari israeliani acquartierati nella palazzina davanti e i miliziani di Hamas in trincea nella strada

scrive.
Ecco le due cronache di Alberto Stabile, da La REPUBBLICA:

GAZA - «Il sangue dei bambini di Gaza ha ottenuto la vittoria, l´occupazione sarà rimossa», dice trionfante Ismail Haniyeh, premier di fatto e signore incontrastato della Striscia. «Posso soltanto augurare ad Hamas molte altre vittorie come quella di oggi», gli risponde, ironico, il portavoce del governo israeliano, Mark Regev. È presto perché uno dei due contendenti canti vittoria.
L´operazione "Inverno caldo", s´è conclusa, ma il premier israeliano Ehud Olmert non sembra intenzionate ad allentare la pressione sul movimento islamico su cui fa ricadere la responsabilità dell´offensiva a base di missili Qassam e Grad lanciata contro le città del Negev settentrionale, Sderot ed Ashkelon. Hamas, di contro, considera i Qassam una ritorsione contro la perdurante occupazione israeliana.
«Noi non mostreremo alcuna tolleranza. Punto. Risponderemo colpo su colpo», è stato il telegrafico messaggio di Olmert, a commento del ritiro. Ciò significa che il vertice politico-militare israeliano considera conclusa una fase della battaglia, ma non la guerra contro Hamas. Per dirla con le parole di un alto ufficiale citato dall´agenzia Reuters: «Due giorni d´intervallo per la visita di Condoleezza Rice».
Più che ragioni di natura militare, sembra d´intravedere dietro la decisone di porre termine all´operazione a Nord di Gaza, motivi politici e d´opportunità. Anche perché sul piano militare, nonostante le alte perdite inflitte, durante cinque giorni di combattimenti, vale a dire, 116 morti di cui, secondo fonti mediche di Gaza, la metà civili, ed oltre 350 feriti, nonostante questo, i miliziani di Hamas e i loro alleati hanno continuato a lanciare missili su Sderot e su Ashkelon (persino dopo la temporanea fine delle ostilità, ieri sul Negev ne sono arrivati una ventina).
Olmert, ha in sostanza voluto dare un segnale di disponibilità all´amministrazione americana, che aveva ripetutamente chiesto la fine della violenza e la ripresa del negoziato con il moderato presidente palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen), riservandosi al tempo stesso, il diritto di riprendere la campagna contro Hamas. Oggi arriva nella regione Condoleeza Rice che stasera incontrerà Olmert. Domani, a Ramallah, il segretario di Stato vedrà Abu Mazen per convincerlo a ritornare al tavolo del negoziato, dopo che, sulla scia dell´operazione di Gaza, il leader palestinese aveva interrotto ogni rapporto con il governo israeliano.
È assai probabile che l´inviata di Bush non debba fare molta fatica per riallacciare i fili tra Olmert ed Abu Mazen, ma questo non basterà a rilanciare il negoziato. Innanzitutto, perché da Annapolis in poi non ci sono stati progressi e permangono differenze fondamentali tra le due parti. Mentre Abbas vuole che le trattative siano focalizzate sulla nascita dello Stato palestinese, Olmert pensa al massimo ad un accordo sui principi.
Ma soprattutto, se l´amministrazione americana intende favorire da un lato la trattativa tra Olmert ed Abu Mazen, lasciando mano libera agli israeliani di continuare la guerra contro Hamas (ed inevitabilmente contro i civili di Gaza) questo non risolverà la crisi, ma l´aggraverà. Perché l´opinione pubblica palestinese non fa differenza tra i palestinesi di Gaza e quelli della West Bank ed Abu Mazen, come si è visto con i gravi incidenti scoppiati nei Territori (tre morti) a seguito dei fatti di Gaza non può mettersi contro la propria opinione pubblica.

JABALIYA (STRISCIA DI GAZA) - Sul piccolo tavolo da cucina ci sono ancora le briciole di ciò che Eyad e Jacqueline Abu Shback, fratello e sorella, rispettivamente di 14 e 16 anni, una famiglia importante alle spalle, hanno mangiato quella sera: frittata, insalata di pomodoro, pane, frutta. I piatti sono nel lavabo, ancora sporchi, proprio sotto la finestra dai vetri opachi su cui i proiettili hanno aperto due buchi grandi come una moneta da due euro. Basta far scorrere le imposte e dalla strada arriva il confuso, eccitato vociare del giorno dopo la fine della battaglia.
Gli israeliani sono andati via all´alba e, adesso che è mattina inoltrata, la gente del quartiere "Abed Rabbo", cuore di Jabaliya ed epicentro dell´operazione "Inverno caldo", si affolla ai lati della strada principale percorsa da un torrente di fango. Dopo due giorni e tre notti di segregazione è bello assaporare l´aria fresca, il tepore del sole invernale ed anche, perché no, il calore della solidarietà. Dagli altri campi profughi della striscia arriva una colonna di autobotti d´acqua «per i fratelli di Jabaliya» che creano un ingorgo spaventoso. Le delegazioni di notabili si susseguono ad accertare i danni o a porgere condoglianze.
Una macchina con altoparlanti di Hamas esalta la vittoria contro il «nemico sionista». Ma, sarà perché questa è una zona tradizionalmente dominata da Al Fatah, qui nessuno parla di vittoria. «Cosa penso dei missili Qassam? Ecco cosa ne penso», dice Salman Shreath, 45 anni, meccanico di automobili, mostrando l´ingresso dell´edificio dove abita assieme a tre fratelli e quattro figli, in totale 53 persone, sfondato e ridotto in pezzi da un mezzo corazzato. «Gli israeliani si sono presentati così domenica pomeriggio, alle cinque. Erano venuti ad arrestare me e i miei quattro ragazzi. Ci hanno tenuti per un paio d´ore in una casa in cima alla collina. Volevano sapere se conoscevamo quelli della resistenza che lanciano i Qassam. I soliti discorsi: se ce lo dite vi proteggeremo. Poi ci hanno rilasciati, ma si sono tenuti le carte d´identità e i telefonini».
Torneranno? «L´hanno detto loro alla radio, che questa è stata la prima fase. Poi ci sarà la seconda, la terza, la quarta». Se Hamas continua a sparare sulle città israeliane, sarà inevitabile. «Ma perché gli israeliani devono punire me? Perché?», sbotta Salman, mentre uno dei fratelli cerca di frenarlo. Chi è allora responsabile di questa situazione? «Tutti e due. Tutti e due», risponde deciso.
Nel vicolo su cui si affacciano le case del clan Abu Shback, tre macchine incendiate sono rimaste pietrificate sul posto dalla notte di venerdì. Soltanto oggi, la famiglia ha potuto organizzare il lutto per Jacqueline ed Eyad. La file di poltroncine di plastica destinate ai partecipanti arrivano fin sulla strada principale. Tre ragazzi girano tra gli ospiti con le brocche piene di caffè al cardamomo per dare il benvenuto.
A ricevere la gente è il Muktar del quartiere "Abed Rabbo", una specie di sindaco della zona, Mahmud Muzanen, un vecchio spaventato e infreddolito, con la kefiah bianca e nera che scende dalla testa e s´infila nel cappotto pesante. È lui a fare le veci del padre dei due ragazzi, Mohammed, fuggito a Ramallah, assieme al cugino Rashid Abu Shback, alla fine della guerra civile che, nel giugno del 2007, ha visto Hamas conquistare a spese dell´Autorità palestinese e di al Fatah, la striscia di Gaza.
Rashid Abu Shback era il capo della Sicurezza Interna e grande alleato di Mohammed Dahalan, il proconsole di Abu Mazen a Gaza, in eccellenti rapporti sia con gli americani che con gli israeliani, anche lui costretto ad abbandonare Gaza per sottrarsi alla vendetta degli integralisti. Mohammed Abu Shback, oltre ad essere il cugino di Rashid ne era anche il braccio destro.
Per ciò fa una certa impressione vedere arrivare per la visita di lutto agli Abu Shback, Mushir al Mashri, deputato, ex portavoce e stella emergente del Movimento islamico. «Ma questa è la storia di Gaza», dice un amico palestinese: «Ieri erano i potenti di al Fatah a presentare le condoglianze agli uomini di Hamas, oggi è il contrario».
Per le scale che porta all´appartamento dove vivevano Jacqueline, Eyad, assieme ad un fratello più piccolo, Mohammed come il padre, sono rimaste alcune macchie di sangue. Su quella sera, Atem, un cugino che ha soccorso i due ragazzi fa un racconto credibile. Appena arrivati a Jabaliya, gli israeliani dispongono sui tetti i tiratori scelti. C´è un timido tentativo di resistenza da quelli che qui chiamano i Morabitun, la milizia territoriale che risiede in permanenza nei quartieri. Ma dura poco. Una postazione israeliana è su un terrazzo a 50 metri dalla finestra della cucina degli Abu Shback. I due ragazzi sono nel soggiorno, perché quella è la stanza centrale e la meno esposta della casa. Hanno deciso di dormire per terra. Ad un certo punto, Eyad si alza per andare in bagno, dicono i parenti, o per andare a sbirciare quel che sta succedendo fuori. Un´ombra dietro i vetri opachi. Un movimento improvviso. Il cecchino lo colpisce alla testa. Jacqueline va per aiutare il fratello. Viene colpita anche lei. «Mi sembra di sentire ancora il rumore del suo respiro, quando sono salito a prenderli», dice Atem.

Più equilibrata, su REPUBBLICA, l'analisi di Bernardo Valli. Il quale scrive:
Per motivi teologici, Hamas non può riconoscere definitivamente lo Stato ebraico. Può soltanto contrattare una tregua più o meno lunga.
Il linguaggio è piuttosto edulcorato. Per motivi teologici (, meglio, di fanatismo religioso), Hamas non può rinunciare alla sua volontà di distruggere Israele e alla sua escatologia antisemita (per la quale il giorno del giudizio verrà quando gli ebrei saranno sterminati). Questa è la cruda realtà. Non si tratta di questioni di forma, ma di sostanza
Ecco il testo completo:



Tre recenti avvenimenti hanno reso incandescente la situazione mediorientale. Incandescente e più che mai imprevedibile. Gli avvenimenti di Gaza, ma anche le nuove rivelazioni sul programma nucleare iraniano, e la sorprendente trionfale visita a Bagdad, sotto gli occhi di 158.000 soldati americani, di Mahmud Ahmadinejad, il nemico dell´America e di Israele, hanno ricordato, più che rivelato, l´inarrestabilità dei conflitti, delle minacce latenti e delle provocazioni politiche, vale a dire lo scarso peso nella regione della superpotenza e delle volonterose subpotenze. Nessuno si illudeva. Non erano in vista soluzioni, né una crescita dell´influenza americana, ma sembrava che le crisi croniche si fossero assopite, che fossero entrate in una specie di letargo, come capita ai vulcani tra due eruzioni. Senza prendere partito per una delle forze a confronto, considerando il più asetticamente possibile quel che le condiziona e spinge ad agire, si arriva a conclusioni tutt´altro che rassicuranti.
Cominciamo da Gaza. Da quando si è staccata dall´Autorità Palestinese, dichiarando la secessione di fatto, Hamas non può languire, isolata dal resto del mondo, dipendente dagli aiuti esterni che gli vengono centellinati, con gli abitanti affamati e disperati, pronti a esplodere e a traboccare in Egitto. Inoltre Hamas non può assistere passivamente al programmato avvio dei negoziati tra l´Autorità Palestinese di Abu Mazen e l´Israele di Ehud Olmert. Non resta quindi ai dirigenti islamisti più radicali che provocare Israele con i lanci di razzi artigianali Qassam, o di quelli Grad, fabbricati in Iran. Quest´ultimi capaci di raggiungere importanti centri abitati, quali Ashkelon e Siderot.
Per Hamas è meglio la guerra che l´immobilismo. L´una e l´altro provocano vittime, ma per un popolo che vive da quarant´anni le miserie dell´occupazione, dell´accerchiamento, delle rappresaglie, i morti sono i soli che possono smuovere il resto del mondo.
E infatti i circa cento morti di Gaza, molti dei quali civili, hanno subito attirato l´attenzione internazionale, ma soprattutto hanno costretto Abu Mazen a sospendere ogni contatto con gli israeliani. È così saltato, almeno per il momento, il negoziato deciso ad Annapolis (nel Maryland) il 27 novembre; negoziato da concludere, secondo le intenzioni di George W. Bush, entro la fine del 2008, con un accordo per la nascita d´uno Stato Palestinese. Così la sanguinosa repressione, pagata tanto cara dai disastrati abitanti di Gaza, ha segnato una (sia pur macabra) vittoria dei palestinesi contrari a un accordo con Israele. Hamas ha ottenuto quel che voleva. Già accusato di collaborazionismo con Israele, Abu Mazen è stato costretto a sospendere, per un po´ di tempo, il dialogo con Ehud Olmert e a condannare la repressione contro i fratelli secessionisti di Gaza. Gli islamisti di Hamas hanno sconfitto, in questa fase, politicamente, i laici di Al Fatah. Una battaglia tra disperati tutt´altro che conclusa, perché è assai improbabile che i dirigenti radicali di Gaza rinuncino ai missili. E Israele è già pronto a lanciare operazioni più ampie e durature.
Israele ha diverse opzioni. Può rispondere ai razzi provenienti da Gaza (i quali negli ultimi giorni hanno fatto un morto civile, oltre ai due soldati uccisi in combattimento) con bombardamenti non mirati, ossia indiscriminati, estesi fino a due chilometri dal punto di lancio. Ehud Barak, il ministro della difesa laburista, ha già fatto studiare le implicazioni giuridiche. Sarebbero crimini di guerra, anche se si trattasse di rispondere a tiri provenienti da zone abitate da civili? Giuridicamente non è chiaro. E moralmente? Altra opzione è l´ingresso dell´esercito a Gaza, per due o tre mesi, il tempo di distruggere tutte le infrastrutture militari di Hamas. Anche questa scelta comporterebbe tuttavia morti e distruzioni, quindi accuse contro Israele, come in questi giorni, per la reazione sproporzionata. Senza contare che un´operazione troppo lunga potrebbe spingere gli Hezbollah libanesi, aiutati dall´Iran, a intervenire alla frontiera Nord.
Perché non negoziare con Hamas? Sembra impossibile. Perché in tal caso verrebbero definitivamente compromessi i rapporti con Abu Mazen e con l´Olp di cui è il presidente. Se con i loro razzi gli islamisti si imponessero come interlocutori validi, Abu Mazen verrebbe ancor più indebolito ed emarginato. E Israele perderebbe un partner deciso ad arrivare a un accordo globale e definitivo. Per motivi teologici, Hamas non può riconoscere definitivamente lo Stato ebraico. Può soltanto contrattare una tregua più o meno lunga. Inoltre Ehud Olmert è un primo ministro troppo debole, troppo condizionato per compiere scelte che apparirebbero cedimenti. L´opposizione, anche all´interno del suo governo, è forte. Ed egli è condizionato dall´Esercito garante della sicurezza e dei coloni. Quest´ultimi si sentirebbero minacciati da un accoro con Hamas.
Il secondo avvenimento mediorientale si è verificato pochi giorni prima dell´operazione israeliana su Gaza, battezzata "Inverno caldo". Non c´è naturalmente alcun nesso tra i due fatti, ma la quasi concomitanza contribuisce ad appesantire l´atmosfera. Un rapporto dell´Agenzia internazionale dell´energia atomica di Vienna sostiene che l´Iran, al contrario di quanto si era saputo nel dicembre scorso dai servizi di informazione americani, ha continuato anche dopo l´autunno 2003 i lavori per la costruzione di un´ogiva nucleare. La comunicazione è stata fatta (il 25 febbraio) dal direttore generale aggiunto dell´Agenzia, il finlandese Olli Heinonen. Il suo superiore, El Baradei, pur sottolineando la buona collaborazione iraniana, aveva prudentemente evitato di confermare quanto avevano detto i servizi di informazioni degli Stati Uniti, contraddicendo lo stesso loro presidente. El Baradei non ha mai parlato di un "arresto" delle ricerche nel 2003. Ed ora il suo aggiunto sostiene che non c´è stato.
Mentre veniva rilanciata l´idea di una "minaccia nucleare" iraniana, Mahmud Ahmadinejad, presidente della Repubblica islamica, compiva un viaggio trionfale a Bagdad, dove, alla presenza del governo ospitante sostenuto appunto da 158 mila soldati americani, ha chiesto che quest´ultimi se ne vadano al più presto dal Medio Oriente. Vent´anni dopo la guerra tra Iraq e Iran (1981-1988) costata un milione di morti, era la prima volta che un capo di Stato iraniano arrivava sulle sponde del Tigri. La visita aveva un eccezionale valore. Significava l´intesa tra due grandi comunità sciite del Golfo: quella irachena finalmente riconosciuta legittima maggioranza e come tale al governo nel suo paese grazie all´intervento americano, e quella della Repubblica islamica considerata il nemico numero dell´America. È stata la settimana dell´Iran: razzi iraniani lanciati da palestinesi di Hamas piovevano su due città israeliane; riemergeva la questione nucleare iraniana; e il presidente iraniano trionfava nella Bagdad presidiata dagli americani.

La cronaca di Barbara Uglietti da AVVENIRE:

L’ operazione “Inverno caldo” è terminata. Cinque giorni, 115 palestinesi uccisi, metà dei quali civili, due soldati israeliani morti. All’alba di ieri i carri armati di Tsahal hanno lasciato il campo profughi di Jabalyia, nel nord della Striscia, per riposizionarsi a ridosso della linea di frontiera. Pronti a una nuova incursione.
  Il premier israeliano Ehud Olmert ha detto che «que­sto non sarà l’unico episodio». «Stiamo valutando raid aerei, offensive di terra, operazioni speciali», ha spiegato. Tutto, pur di fermare i palestinesi che lan­ciano Qassam verso Israele. Il fatto è che, nonostan­te l’«operazione speciale» di questi giorni, i miliziani non hanno mai smesso di tirare. Ancora ieri, mentre Olmert rinnovava la minaccia, quattro Qassam e u­na ventina di Grad (razzi più potenti), sono piovuti su Sderot e Ashkelon. Fortunatamente, senza fare vit­time. Hamas ha cantato vittoria: «Il nemico è stato sconfitto», ha detto un portavoce. Mentre in migliaia scendevano in piazza per festeggiare il «ritiro» israe­liano.
 
Ritiro? Fonti israeliane hanno spiegato che non si è trattato di un “ritiro”, ma della semplice conclusione dell’operazione dopo il raggiungimento degli obiet­tivi prefissati. Quali non è stato precisato, anche se le stesse fonti hanno sottolineato che ne sono stati con­siderati «un maggior numero» e che, per questo, ci sono state un maggior numero di vittime.
  In effetti l’aria che si respira è quella di u­na
pausa in vista del­l’arrivo nella regione di Condoleezza Rice. Il segretario di Stato americano tornerà a fare la spola, oggi e domani, tra Gerusa­lemme e Ramallah per cercare di rimet­tere insieme i pezzi. L’offensiva israeliana ha rischia­to di mandare definitivamente all’aria il tentativo sta­tunitense, iniziato ad Annapolis, di cercare una via di uscita dalla crisi. Sabato il presidente Abu Mazen, co­stretto a fare i conti con la realtà di un numero enor­me di vittime civili, ha annunciato la sospensione dei negoziati di pace. Ieri ha poi tentato, ancora una vol­ta, di porgere la mano, dicendosi disposto a «opera­re per arrivare alla conclusione di una tregua totale con la parte israeliana per risparmiare al nostro po­polo nuove vittime e sofferenze». Per parte sua, il pre­mier Olmert si è detto pronto a proseguire i nego­ziati. Colloqui sollecitati dal presidente George W. Bu­sh, che ieri ha rinnovato la sua fiducia nell’accordo siglato ad Annapolis. Ma il lavoro della Rice è tutto in salita.
  Anche perché nella regione la tensione aumenta. Pu­re nella Cisgiordania controllata da al-Fatah (la fa­zione del presidente Abu Mazen, rivale di Hamas) ie­ri ci sono state molte manifestazioni anti-israeliane. E un palestinese di 18 anni è stato ucciso a Ramallah durante un corteo: un colono israeliano gli ha spa­rato. Secondo fonti militari dello Stato ebraico, i di­mostranti hanno attaccato alcuni veicoli israeliani, spaventando i passeggeri di un autobus. Da qui, la reazione del colono, che è stato comunque fermato dalla polizia per accertamenti. Il giorno prima a He­bron, sempre n Cisgiordania, un ragazzo palestine­se di 13 anni è stato ucciso in circostanze analoghe.
  Ma le proteste si stanno allargando anche nei Paesi confinanti. Centinaia di alunni delle scuole libanesi gestite da Hezbollah hanno manifestato a Beirut. Un migliaio di persone sono scese in piazza a Damasco. Mentre il capo dei servizi segreti egiziani Omar Su­leiman ha cancellato la sua visita prevista per oggi in Israele a causa dell’escalation di violenza.
  L’Onu, ancora una volta, ha condannato l’uso spro­porzionato della forza da parte di Israele, chiedendo una «indagine imparziale» sulle uccisioni di civili. Le organizzazioni umanitarie moltiplicano gli appelli per una fine delle violenze, sottolineando «viva preoc­cupazione » per la strage di bambini (Unicef) e «l’in­curante disprezzo» per le vite civili da parte di Israe­le (Amnesty). L’Unione europea ha fatto sentire una (debole) voce: «Occorre lasciare aperta una finestra per le opportunità del processo di pace», ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicu­rezza della Ue Javier Solana. Opportunità che sem­brano
però, ormai, ridotte al lumicino.
 Bush chiede che ripartano subito i negoziati iniziati ad Annapolis Olmert apre al dialogo. Abu Mazen porge ancora la mano


Non può mancare ovviamente il MANIFESTO.
Dell'articolo di Michele Giorgio si confronti la versione della morte di un ragazzo palestinese a Nablus ( 
intanto arrivano notizie di manifestazioni e scontri con l'esercito e quella di un ragazzo palestinese ucciso da un colono israeliano ) con quella di Barba ra Uglietti nella cronaca riportata sopra:  un palestinese di 18 anni è stato ucciso a Ramallah durante un corteo: un colono israeliano gli ha spa­rato. Secondo fonti militari dello Stato ebraico, i di­mostranti hanno attaccato alcuni veicoli israeliani, spaventando i passeggeri di un autobus
Ecco il testo completo di Giorgio:

È difficile persino sognare in un campo profughi come Jabaliya eppure la stanza di Jacqueline parla di un'esistenza felice. Orsetti e bambole di peluche adornano la scrivania dove la bambina faceva i compiti. Sulle pareti foto di ragazzine sorridenti e disegni colorati si abbinano bene al piumone rosa e celeste con Micky Mouse sul lettino sfatto. «Jacqueline era una studentessa modello, tra le prime della sua classe», racconta un cugino, «lei e suo fratello Iyad sarebbero andati il prossimo anno ad una scuola migliore». Ma la bambina non varcherà il cancello di quella nuova scuola. Jacqueline è morta venerdì notte, in casa, mentre cercava di portare soccorso a Iyad, centrato alla testa dai colpi sparati da un tiratore scelto israeliano. Colpi che non hanno risparmiato nemmeno lei, scambiata come il fratello per un combattente palestinese, da chi aveva ricevuto l'ordine di sparare contro qualsiasi ombra, senza pensarci due volte. La gente di Jabaliya è in strada a celebrare il ritiro dei reparti israeliani dal campo profughi e dal villaggio adiacente, ma anche per rendersi conto dei danni gravi che strade, case, negozi, piloni dell'elettricità hanno subito dal passaggio dei giganteschi Merkava israeliani. I bulldozer comunali sono già al lavoro per cercare di rendere percorribili le vie bloccate da detriti o impraticabili per le buche profonde. Molti inneggiano ad Hamas che, in quel momento, sta tenendo un raduno a Gaza city. Il ritiro israeliano da Jabaliya e Beit Lahiya, dopo giorni di incursioni e raid aerei che non hanno fermato mai i lanci di razzi palestinesi su Sderot e Ashqelon, per il movimento islamico è l'inequivocabile segnale della vittoria. «Il nemico è stato sconfitto», ha commentato Sami Abu Zuhri, il portavoce di Hamas - «Gaza sarà sempre un cimitero per le forze di occupazione». Ma non tutti hanno voglia di festeggiare. «Mi piacerebbe sentirmi sereno, ma non ci riesco. Jacqueline e Iyad sono morti e anche la mia famiglia ha vissuto momenti difficili», spiega Rames Tbel, lo zio dei bambini uccisi, che si è visto occupare l'abitazione dalle truppe israeliane. «I soldati hanno sfondato la porta e sono entrati in casa in piena notte, tra venerdì e sabato» - racconta - ci hanno costretto a rimanere tutti in una stanza: io, mia moglie, mia sorella, i miei genitori e i bambini. In tutto 13 persone, sorvegliati da tre militari. L'incubo è terminato solo stamani all'alba». La casa dei Tbel è stata usata, assieme ad altre, come postazione militare e per la famiglia il dolore è stato doppio. «I soldati hanno sparato proprio dal nostro appartamento contro la casa di Jacqueline e Iyad», aggiunge Rames. Ieri l'Unicef ha espresso «profonda preoccupazione» per i bambini e adolescenti palestinesi rimasti uccisi e ricordato che occorre prendere tutte le misure possibili per garantire protezione e assistenza ai minori. L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Louise Arbour, ha chiesto a Israele di avviare una indagine sull'uccisione di civili. Dalla Cisgiordania - ma anche da Siria, Libano ed Egitto - intanto arrivano notizie di manifestazioni e scontri con l'esercito e quella di un ragazzo palestinese ucciso da un colono israeliano. A Gaza sperano in una sollevazione a Ramallah, quando oggi alla Muqata il presidente Abu Mazen incontrerà il Segretario di stato Usa Condoleezza Rice. «Sono di Fatah e non di Hamas - dice Rames Tbel - ma ad Abu Mazen dico di annullare subito il meeting con Condoleezza Rice. Il presidente non può stringere la mano di chi arma Israele contro i palestinesi». Intorno alcune persone annuiscono e vorrebbero rispedire al mittente i cinque milioni di dollari che Abu Mazen ha promesso alle famiglie colpite dalle operazioni militari israeliane. Jabaliya oggi respira ma a Gaza nessuno si fa illusioni. Le truppe israeliane torneranno, prevedono in tanti, non appena la Rice sarà ripartita, e forse penetreranno più a sud, a Khan Yunis e Rafah. D'altronde gli avvertimenti del premier israeliano Olmert non lasciano spazio a ipotesi più confortanti e i 110 palestinesi uccisi da mercoledì scorso - almeno il 50% erano civili (25 avevano meno di 18 anni), ha riferito ieri il centro israeliano per i diritti umani «B'Tselem» - potrebbero rivelarsi solo un anticipo di massacri futuri. E per impedirli non bastano le condanne di Amnesty che ha accusato Israele di aver avuto «un incurante disprezzo per le vite civili». Nella Gaza priva di tante cose dopo mesi e mesi di duro embargo economico e che pure regge l'urto degli attacchi militari, ora si pensa a come aiutare i feriti. «È un lavoro immenso - spiega il dottor Raed Arini, dell'ospedale Shifa - l'Egitto ha aperto le sue porte ai nostri feriti più gravi ma non possiamo inviarli tutti al Cairo perché abbiamo appena 4-5 ambulanze equipaggiate per la terapia intensiva e in ogni caso manca la benzina». Arini mostra le foto dei feriti, molti dei quali hanno subito orrende mutilazioni a causa di proiettili e schegge che provocano un foro minuscolo ma poi «bruciano» negli arti colpiti. «Dopo tanto giorni di emergenza scarseggiano i kit di pronto soccorso e di chirurgia - avverte Arini - risparmiamo su tutto, ma nessuno può compiere l'impossibile».

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