Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Israele si ritira da Gaza la cronaca di Davide Frattini, le analisi di Yossi Klein Halevi, R.A. Segre e Andrea Nativi
Testata:Corriere della Sera - Il Giornale - Avvenire Autore: Davide Frattini - R. A. Segre - Barbara Uglietti Titolo: «Israele ritira i tank Hamas: «Vittoria» - «Basta mezze misure: invadere o negoziare» - La guerra in Libano e le sue lezioni - È difficile fermare quei Qassam: arma non militare ma terroristica»
Dal CORRIERE della SERA del 4 marzo 2008, una cronaca di Davide Frattini:
GAZA — Per le strade distrutte di Jabalya, i miliziani di Hamas non si vedono più. Se ne sono andati, quando i tank israeliani che li attiravano come calamite hanno lasciato il villaggio. L'operazione «Inverno caldo» è finita ieri, poco prima dell'alba. Le truppe sono tornate al di là del confine, dopo due giorni di scontri. Gli elicotteri hanno continuato a colpire le squadre dei Qassam: un palestinese è stato ucciso a Beit Hanun, mentre stava per sparare una batteria di razzi. «Continueremo con le nostre azioni difensive», spiega un portavoce del governo di Ehud Olmert. «L'azione molto limitata a Gaza — spiega un'altra fonte israeliana — è servita per mostrare ad Hamas quello che potrebbe succedere. Se recepiscono il messaggio, ci sarà un periodo di calma. Se continuano a bombardarci con i missili, andremo avanti con raid anche peggiori ». Hamas ha letto diversamente il messaggio e ha dichiarato «vittoria». «Il nemico è stato sconfitto», proc lama Sami Abu Zuhri, uno dei portavoce del movimento fondamentalista. «Gaza sarà sempre la tomba delle forze d'occupazione ». B'Tselem, organizzazione israeliana per i diritti umani, ha sostenuto che 54 morti palestinesi su 106 sono civili. Gabi Ashkenazi, capo di Stato maggiore, aveva fornito cifre diverse: secondo l'esercito, sarebbero caduti 90 miliziani. Abu Mazen si è offerto di mediare una tregua tra Hamas e Israele. Il presidente palestinese ha congelato i negoziati con il governo Olmert, dopo l'attacco contro la Striscia. Condoleezza Rice, segretario di Stato americano, arriva oggi in Egitto e da lì si sposta a Gerusalemme e Ramallah. Vuole provare a salvare i colloqui di pace, avviati con la conferenza di Annapolis, nel novembre dell'anno scorso. La Casa Bianca ha condannato Hamas: «Devono scegliere tra il terrorismo e una soluzione politica che porti alla nascita di uno Stato», ha detto un portavoce del consiglio per la Sicurezza nazionale. Massimo D'Alema, ministro degli Esteri italiano, ha avvertito: «È difficile che il processo di pace con l'Autorità palestinese vada avanti, se non si apre un dialogo anche con l'altra parte che governa Gaza. Non si può fare insieme la guerra e la pace nel raggio di pochi chilometri ».
Un'intervista a Yossi Klein Halevy:
GAZA — Vent'anni fa, con la divisa da riservista, Yossi Klein Halevy si muoveva tra i campi rifugiati di Gaza. Rivoli di fogna che scorrevano sulla sabbia, vecchi e bambini che lo guardavano disperati. «Di notte entravamo nelle loro camere da letto — scrive sul Los Angeles Times —, arrestavamo sospetti, gente accusata di terrorismo o di non aver pagato la bolletta dell'acqua. Più poliziotti che militari, ci siamo ritrovati a imporre un'occupazione che minacciava il carattere ebraico e democratico dello Stato. Allora è nato l'israeliano con il senso di colpa, pronto a correre qualunque rischio per la pace». «Quell'israeliano non c'è più», dice al telefono da Gerusalemme. «Si è estinto, anche dentro di me. Solo voi in Europa credete ancora che esista, perché vi piacciono le nostre anime belle, pronte a prendersi la colpa per tutti i mali del Medio Oriente. Sappiatelo: sono un gruppo minoritario». Intellettuale dello Shalem Center, Klein Halevy è convinto che perfino l'impopolare Ehud Olmert abbia ottenuto il sostegno di tutto il Paese quando ha replicato «non venite a farci la morale » alle accuse di uso sproporzionato della forza a Gaza. «L'operazione di questi giorni era inevitabile. L'esercito doveva entrare nella Striscia per verificare quali armi e razzi fossero stati trafugati nella Striscia, dopo la breccia nel confine con l'Egitto. Abbiamo scoperto che ormai dai Qassam artigianali sono passati ai Katiuscia. Hamas si sta trasformando in un secondo Hezbollah». Il 64 per cento degli israeliani è favorevole a negoziare un cessate il fuoco con gli integralisti. Eppure il governo Olmert è stato sotto pressione in queste settimane perché intervenisse a fermare i bombardamenti quotidiani sulle città israeliane. «Gli israeliani sentono che la loro sovranità nazionale sta collassando, che le frontiere si stanno disintegrando. A nord, Haifa, la terza città del Paese, è finita nel raggio dei missili di Hezbollah. A sud, la minaccia si sta spostando verso centri come Ashkelon e Ashdod. La nostra deterrenza si sta erodendo e il governo deve agire per ristabilirla». Considera l'operazione di questi giorni a Gaza, «una mezza misura». Avverte che lo Stato ebraico «deve evitare una guerra d'attrito e decidere se è pronto a invadere la Striscia. Altrimenti negozi». L'organizzazione israeliana B'Tselem ha contraddetto le cifre dell'esercito, che aveva parlato di 90 miliziani tra i morti: secondo l'associazione per i diritti umani, le vittime civili sarebbero 54 su 106. «In una guerra d'attrito, i civili coinvolti sono destinati a crescere. Israele subirebbe la pressione della comunità internazionale e sarebbe costretta ad accettare, prima o poi, un cessate il fuoco. Sarebbe una vittoria per Hamas». Amy Ayalon, ministro senza portafoglio ed ex capo dello Shin Bet, ha spiegato alla radio militare che non si può «parlare di sconfitta o vittoria, quando si affronta un fenomeno come Hamas». Klein Halevy è pronto a offrire una sua definizione di vittoria nella sfida con il movimento fondamentalista: «Rovesciare il regime di Hamas. Con un'operazione militare su grande scala, che tenga conto delle lezioni del Libano: non ci si imbarca in una guerra senza considerare il contesto diplomatico; non si entra in un conflitto senza un obiettivo preciso. Olmert ha approvato un raid limitato a Gaza perché non ha ancora chiaro quale sia questo obiettivo. È un problema». Togliere ai fondamentalisti il dominio su Gaza per restituirlo al Fatah del presidente Abu Mazen. «Resto convinto che il Fatah non sia la soluzione perfetta, non è molto meglio di Hamas, se si parla di legittimazione di Israele. La vera differenza è che la guerra di Fatah contro di noi è nazionalista, quella di Hamas è teologica. È più facile risolvere il primo tipo di conflitto. Se gli integralisti restano al potere per un'altra generazione, non ci sarà più nessuno con cui dialogare. Mi preoccupa molto di più il potere di Hamas nel sistema educativo che la forza delle loro milizie. I terroristi sono un problema tattico-militare, l'educazione è una questione strategica di lungo termine».
L'analisi di R. A. Segre dal GIORNALE :
Prima dell'alba di ieri la brigata israeliana accompagnata da forze speciali che era penetrata nella zona di Gaza si è ritirata lasciando dietro di sé oltre 100 morti palestinesi (per la maggioranza, dicono fonti israeliane, combattenti armati) decine di feriti, gli uffici del governo di Hamas distrutti. I palestinesi, che tre giorni prima avevano chiesto l'intervento dell'Onu e l'aiuto dei Paesi musulmani per bloccare l'offensiva israeliana hanno proclamato la «seconda grande sconfitta» inflitta agli israeliani (la prima era stata quella nel Libano per mano degli hezbollah). I comandi israeliani hanno visto in queste manifestazioni di vittoria un coronamento della tattica voluta dal ministro della difesa Ehud Barak, fondata apparentemente su quattro idee: colpire duramente Hamas evitando per il momento una costosa offensiva; aprire alla dirigenza di Hamas una porta (le dichiarazioni di vittoria) per giustificare l'eventuale arresto di lancio di missili contro Israele (nella speranza che sia in grado di controllare tutti i gruppi terroristici che operano nella striscia); prendere il tempo necessario per preparare un grosso contingente di truppe di riserva per un eventuale attacco generale contro Gaza con lo scopo meno di mettere completamente fine al lancio dei razzi che di quello di abbattere il regime di Hamas; quarto: preparare l'opinione pubblica internazionale a questa eventualità, a cominciare dagli incontri con il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, attesa in Israele domani. Ovviamente questa politica - che il premier Olmert ha difeso ieri in parlamento - non piace all'opposizione e a una larga parte dei media che avrebbero voluto poter parlare di una rapida azione militare contro Hamas. Ma le lezioni apprese nel corso della condotta avventuristica della guerra in Libano sono ormai sufficientemente interiorizzate tanto a livello governativo che a quello militare perché Israele agisca con maggior cautela e meglio preparato militarmente e politicamente. L'unico punto che appare in sospeso è se dare il via a una azione mirata di soppressione fisica dei dirigenti di Hamas oppure attendere un momento più opportuno per invadere in forze la striscia di Gaza. Nel frattempo si vogliono riprendere i contatti con l'Autorità palestinese in Cisgiordania e rilanciare la mediazione del generale egiziano Suleyman per la ricerca di un compromesso mirante fra l'altro alla liberazione del Caporale Shalit da quasi due anni nelle mani di Hamas. Ma ben pochi pongono speranze nella diplomazia. I giochi sono lungi dall'essere fatti e non si può neppure parlare di ricerca di un armistizio dal momento che - almeno in apparenza - di contatti con Hamas non ve ne sono. C'è un tentativo di inviare ad Hamas un segnale inequivocabile: o cessazione del lancio di missili od offensiva rapida e dura per abbattere il regime fondamentalista islamico, preceduta o no dalla eliminazione fisica mirata dei suoi leader.
Da AVVENIRE, un'intervista all'analista militare Andrea Nativi:
T irano soprattutto razzi Qassam, i miliziani palestinesi. E ne stanno migliorando il potenziale esplosivo e la gittata. «Ma restano armi imprecise, rudimentali », spiega Andrea Nativi, esperto e direttore della Rivista italiana di difesa. Imprecise quanto? Molto. Sono razzi senza sistema di guida, a caduta balistica. I palestinesi sono riusciti a potenziarli e i Qassam 3, quelli di ultima generazione, hanno una gittata superiore ai dieci chilometri. Lo stesso, non hanno “significato militare”, nel senso che per essere veramente efficaci dovrebbero essere sparati in quantità enormi, e il margine di errore nel raggiungere l’obiettivo resterebbe comunque altissimo. Perché Israele, che ha un apparato militare e di intelligence sosfisticatissimo, non riesce allora a rendere inefficace questa minaccia? Perché la “forza” dei Qassam sta proprio nel loro essere un’arma militare usata impropriamente a fini terroristici, per tenere la popolazione delle cittadine- bersaglio, come Sderot e Ashkelon, sotto scacco. Non esiste un sistema anti-razzo, che intercetti i Qassam in volo? Certo che esiste un sistema di difesa attiva che può fermare il razzo appena sparato. Gli israeliani ci stanno lavorando. È una soluzione costosa e complicata, e che purtroppo mantiene un raggio di intervento ridotto: un conto è proteggere un singolo obiettivo sensibile, un conto è proteggere un’intera città: bisognerebbe piazzarne migliaia. Perché è così difficile per gli israeliani localizzare e annientare chi tira dalla Striscia? Perché sono armi piccole, roba di un metro o poco più. I miliziani le mimetizzano e poi utilizzano un sistema di accensione remota: non stanno certo ad aspettare di essere presi. E se usano i Qassam 3, più grandi (quasi due metri), più pesanti, e più difficili da montare, tirano dall’interno dell’enclave, in una fascia relativamente più protetta. È per questo che hanno aumentato la gittata dei razzi ed è per questo che anche i Qassam 3 difficilmente raggiungono zone più a nord di Sderot o Ashkelon. Quindi cosa può fare Israele? Quello che fa: rispondere con una ritorsione pesante. In questi giorni la ritorsione è stata pesantissima. Eppure i lanci continuano. Non è una risposta militare. È una risposta politica. Costata però la vita anche a decine di civili, donne e bambini. Non contano? Certo che contano: Israele sa perfettamente che ogni morto civile crea problemi strategici, perché alimenta nuovo terrorismo, e problemi politici, sul piano interno e internazionale. Per questo a Gaza, in un’area ad altissima densità di popolazione, si muovono con la maggior precisione possibile. Ma la loro è una reazione necessaria.