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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - La Stampa Rassegna Stampa
03.03.2008 Cronache scorrette da Gaza
di Alberto Stabile e Francesca Paci

Testata:La Repubblica - La Stampa
Autore: Alberto Stabile - Francesca Paci
Titolo: «Israele non ferma l´esercito Gaza è una città fantasma - Nella Striscia irriducibile Ogni casa una trincea»
Le sofferenze dei palestinesi, senza la spiegazione di ciò che le ha causate, ovvero la guerra di Hamas contro Israele. Le sofferenze degli israeliani ignorate
I dati (le vittime civili (60) hanno superato i morti con le armi in pugno) delle ong palestinesi  , a Gaza ovviamente vicine al potere di Hamas, enfatizzati , quelli israeliani ignorati ( “Dei circa cento palestinesi morti a Gaza negli scontri con le Forze di Difesa israeliane degli ultimi giorni, 90 erano armati, per la maggior parte affiliati al movimento Hamas”. Lo ha dichiarato il capo di stato maggiore israeliano Gaby Ashkenazi., fonte israele.net). L'infondata informazione secondo cui la famiglia Atallah, nella quale si contano sei morti, era priva di una "particolare coloritura politica": Francesca Paci sulla STAMPA scrive invece che  due fratelli della famglia erano leader delle Brigate al Qassam (braccio "militare" di Hamas)

Ecco la cronaca di Alberto Stabile da La REPUBBLICA del 3 marzo 2008, un concentrato di disinformazione:



La paura ha risucchiato la gente nelle case. Le scuole sono chiuse. I ministeri sono trincee esposte al fuoco nemico. I negozi sono sbarrati da portelloni di ferro. La spazzatura, che s´accumula sui marciapiedi da quando è cominciata la penuria di benzina, comunica un senso di disfacimento. Gaza sembra una città morta che oggi celebra il suo funerale.
Dall´inizio della battaglia, venerdì notte, sono state uccise 101 persone, dieci soltanto ieri, domenica, tra cui una bimba che non aveva ancora due anni. Miliziani e civili, uomini armati e bambini, donne, anziani, vite diverse, esistenze spesso contrapposte che la potenza delle armi israeliane e l´astuzia dell´intelligence non sono riuscite a separare. Anzi secondo le organizzazioni umanitarie palestinesi nella contabilità di questa guerra non dichiarata ma come tale combattuta, le vittime civili (60) hanno superato i morti con le armi in pugno.
La maggior parte delle vittime s´è avuta a Jabaliya e a Beit Hanun, i due villaggi che un tempo formavano come i due stipiti del grande cancello che immette nella Striscia. Ma a giudicare dalla quantità di tende impiantate per il lutto si direbbe che non c´è quartiere di Gaza che non abbia avuto i suoi morti. Lunghi cortei con grappoli di bandiere gialle, se il defunto era un militante, o senza bandiere, soltanto le face assorte del dolore, scivolano lungo le strade che portano ai cimiteri di Jabaliya e di Sheik Radwan. Una di queste processioni riunisce gli amici e i parenti superstiti della famiglia Atallah, nome noto a Gaza e, a quanto sembra, senza una particolare coloritura politica. Resta perciò un mistero, come mai, sabato pomeriggio poco dopo le cinque, un aereo israeliano abbia sganciato tre bombe sull´edificio di via Nafaq, nel centralissimo quartiere di Rimal, dove Abdel Rahaman Atallah, di 62 anni, viveva con la moglie, Suad Rajab, 60 anni e i suoi quattro figli, due maschi e due femmine, a loro volta sposati e genitori di sei bambini. Gli adulti sono morti tutti. Dei sei bambini, quattro sono ricoverati in ospedale per ferite gravi e tra questi un neonato di due giorni.
«Non è vero che questa è la guerra degli israeliani contro i Qassam - dice Ahmed Ibrahim, uno dei nipoti di Abdel Rahaman, a cerimonia finita - , questa è una guerra contro i palestinesi. A casa di mio zio non c´erano missili e non c´era uomini armati appostati alle finestre ma donne e bambini. Eppure hanno raso al suolo il palazzo e ucciso sei persone».
All´ospedadale «Kamal Odwan» di Beit Layha, in un quartiere creato durante l´occupazione israeliana per insediare alcune migliaia di profughi del campo di Jabaliya in qualcosa che assomigliasse a una città, esperimento allora caldeggiato da Sharon, i 19 feriti ricoverati rappresentano altrettanti casi di "danni collaterali". La piccola Besan Musellan, 2 anni e mezzo, giace con un braccio fratturato e una scheggia conficcata nella spalla, nel reparto ortopedia. La guarda e la cura con gli occhi la madre, Amina. Amina racconta di come Besan, la mattina di sabato, sedeva sul gradino di casa, assieme al fratellino di Mohammed, di 4 anni, e a un zio. Un auto parcheggiata e vuota viene polverizzata da un missile. Lo zio, lui stesso ferito alle gambe, fa in tempo ad afferrare Mohammed e a coprirlo, ma non Besan.
Le fonti ufficiali israeliane hanno giustificato l´alto numero di vittime civili col fatto che le milizie di Hamas non hanno esitato a trasformare case ed edifici residenziali, in postazioni d´artiglieria e posti di combattimento. Fatma Abed Rabbo, 26 anni, sposata e madre di una bambina di pochi mesi, è stata ferita alla schiena mentre si trovava nella stanza da letto con la bambina. Ricorda perfettamente che prima di sentirsi bruciare le spalle, era accorsa al balcone attratta da una forte esplosione. La casa dei vicini Abu Shback era saltata in aria. Jacqueline Abu Shback, di 17 anni, e il fratello Eyad Mohammed di 14 erano morti sul colpo. Abdallah Nabil Abed Rabbo, di 27 anni, l´hanno tirato fuori cadavere dalle macerie.
Abed Rabbo è un clan di Jabaliya, tanto importante da aver dato il nome ad un intero quartiere. E´ stato questo l´epicentro iniziale dello scontro. Ora dice, Fatma, stringendo i denti dal dolore, «sfido chiunque a dire che la mia famiglia ha mai avuto a che fare con la resistenza. Io ho visto morire attorno a me solo civili e non capisco come davanti a questo massacro il mondo, gli arabi, e soprattutto l´America possano restare in silenzio». Fatma non poteva sapere che in serata la Casa Bianca avrebbe chiesto la fine degli scontri e la ripresa del negoziato tra Israele ed Abu Mazen.
Sulla strada principale di Jabaliya, i pochi passanti camminano rasentando i muri, il naso all´insù per cogliere i segnali della guerra che riempiono l´aria: esplosioni, sirene, raffiche di mitra. Ad un certo punto la strada si restringe e torce in una curva a destra tra due file di case basse. Al di là della curva, a poche centinaia di metri, ci sono gli israeliani che presidiano la zona. La prima linea è formata da carri armai e blindati semicoperti da sacchetti di sabbia, dietro le truppe di terra da cui partono le unità speciali per arrestare, perquisire, annientare le «basi del terrore». E qui, prima della curva che, paradossalmente, la scena cittadina è più animata. Gruppi di uomini disarmati e in abiti civili seguono a distanza di sicurezza i cauti spostamenti di miliziani da un lato all´altro della strada, l´andirivienti delle troupe televisive, l´improvviso irrompere di un´ambulanza, con le bandiere della Croce rossa al vento. E´ lo spettacolo della guerra, se così si può dire, un minuto prima che si trasformi in tragedia.
In un vicolo stretto e fangoso tre uomini armati di kalashnikov, il busto avvolto dalle cartucciere, il passamontagna arrotolato sulla testa, si rilassano bevendo tè caldo. Avranno non più di vent´anni, le barbe folte, gli sguardi sprezzanti. La buttano sullo scherzo. «Dove volete andare? - ci chiede con aria inquisitoria, quello che sembra il capo - Non sapete che gli israeliani vi stanno guardando?». In cielo si sente il ronzio di un drone, l´aereo senza pilota che filma, registra e all´occorrenza spara ordigni micidiali. Lo chiamano «Umm Kamal», la madre di Kamal e nessuno sa spiegare perché, ma loro ridono e ridono.

Da La STAMPA, il reportage di Francesca Paci, anch'esso esclusivamente incentrato sulle sofferenze palestinesi

Hassan non ha paura. Ha compiuto 12 anni venerdì sotto i missili israeliani che da cinque giorni rispondono al fuoco di Hamas bersagliando la periferia Est del campo profughi di Jabaliya dove vive con la famiglia, mamma, papà, sette fratelli, tre sorelle. «Ho visto due corpi di martiri fatti a pezzi, proprio lì», racconta senza turbamento indicando una montagnola di sabbia sullo sterrato invaso da ragazzini come lui. Soldati in prima linea, incuranti delle raccomandazioni della tv, calamitati dal fronte aperto contro «il nemico sionista», ebbri del mito della morte catartica.
I carri armati appostati a cinquecento metri oltre le ultime case ripetono senza tregua la stessa nota, ratatata. Hassan è sincero, davvero non è spaventato, non dalla guerra almeno, ci è cresciuto dentro, un grottesco grembo materno: «Abbiamo coperto il sangue che era sparso tutto in giro». Ora sono di nuovo in strada a dire che 10 palestinesi morti ieri, 61 sabato, 106 da mercoledì mattina, non fanno paura. Non qui.
Da Jabaliya a Gaza City, poco più di dieci chilometri, si snoda un lungo multiplo funerale interrotto da soste e colpi di kalashnikov nei punti in cui ci sono stati caduti. Le macerie della palazzina degli Atallah, distrutta da un missile sabato notte, sono già una pietra miliare di questo macabro corteo. Sei vittime, madre, padre, due sorelle e due fratelli entrambi leader delle Brigate al Qassam. «Erano appena rientrati in casa, gli israeliani hanno mirato a colpo sicuro» dice il cugino Abu Assad, impiegato del governo, lasciando intendere che «qualcuno dei vicini ha parlato». Tra i calcinacci da cui spuntano un materasso, una bacinella per il bucato, pentole accartocciate, Samir e Ali, 13 e 14 anni, giocano a tirarsi piccole pietre.
«Alla fine vinceremo noi perché a differenza degli ebrei non ci tiriamo indietro di fronte al martirio», spiega Ismail el Ashqer, membro del consiglio legislativo di Hamas insieme a Mahmoud al Zahar e Haniyeh, uno dei «dead man walking» obiettivo dei raid israeliani. Cambia indirizzo più volte per l’appuntamento, si muove ogni mezz’ora, alla fine decide per un garage a Sud di Jabaliya. La vocazione alla morte in battaglia sarà la carta decisiva ma, ammette, non l’unica: «Non siamo equipaggiati come si millanta, altrimenti avremmo già distrutto Israele, insciallah. Però negli ultimi tempi ci siamo dati da fare. Non chiediamo altro che gli ebrei ci invadano, troveranno parecchie sorprese: tunnel di cui sanno poco, armi contro i carri armati Merkava e soprattutto nuovi razzi. Li stiamo aspettando: se penetrano nella Striscia non ne escono vivi».
Ogni vicolo, ogni abitazione, ogni cortile è una potenziale trincea. Israele lo sa e prende tempo: a Gerusalemme l’ipotesi dell’invasione raccoglie molte perplessità. Una cosa è il campo aperto al margine di Jabaliya, altra la giungla delle città palestinesi con una densità di popolazione altissima.
Anche all’ospedale Shifa, il più importante di Gaza, trovi uomini pronti a combattere. Nasser Hadar aspetta che il figlio Shukri, 7 anni, colpito al collo da un proiettile, venga accompagnato a Rafah con una delle 27 ambulanze che ieri hanno trasportato 200 feriti oltre il confine. È tardi per proteggere Shukri, ma Nasser ha altri cinque bambini: «Se gli israeliani arrivano ci trovano preparati, la rabbia ci carica di giorno in giorno». Al pronto soccorso Fatima al Bijar tiene l’elenco aggiornato di morti e feriti, provenienza, nome, età. Gli over 50 si contano sulle dita di una mano: il 47,6 per cento della popolazione della Striscia di Gaza ha meno di 15 anni.
«Siamo sommersi di gente che vuole arruolarsi, morire per morire tanto vale cadere sul campo», dice uno dei comandanti delle Brigate Ennasser, nome di battaglia Abu Asef, passamontagna nero sul viso, giacca e pantaloni da impiegato. Alle sue spalle, in un sottoscala scalcinato di Khan Yunis, due giovanissimi col volto coperto e il Kalashnikov a tracolla tengono d'occhio la porta. Raccontano di aver affrontato gli israeliani sabato, quasi corpo a corpo: «Quando arrivavamo a poche decine di metri lo scontro era violentissimo».
Vita e morte a Gaza sono la stessa moneta. All’ingresso dello Shekh Radwan, tra lapidi bianche e senza foto, ci sono dieci corpi sepolti nelle ultime ore e orientati verso la Mecca, che da qui è la direzione di Jabaliya. Quattro bambini si rincorrono saltando sulla terra fresca, quando due aerei israeliani sganciano un missile poco più in là alzano appena gli occhi al cielo.

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