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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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L'Espresso - Panorama Rassegna Stampa
12.02.2008 A proposito del boicottaggio antisraeliano alla Fiera del libro
le parole chiare di Antonio Polito e quelle ambigue di Umberto Eco

Testata:L'Espresso - Panorama
Autore: Umberto Eco - Antonio Polito
Titolo: «Nè col Sessantotto Nè col Settantotto»
Scrive Umberto Eco sull'ESPRESSO della settimana dell'8 febbraio 2008

quello che sta accadendo col Salone di Torino è un poco come se il Telefono Azzurro, per attirare l'attenzione della pubblica opinione sui maltrattamenti a cui sono sottoposti i bambini, ne fustigasse alcuni a sangue sulla pubblica piazza. Non mi pare che sia così che si fa, perché due torti non fanno una ragione.

Evidentemenete, Eco (uno degli scrittori italiani più premiati in Israele)  prende le distanze dal boicottaggio, ma non dai miti della propaganda antisraeliana

Iniziano le rievocazioni-celebrazioni-glorificazioni-demonizzazioni del Sessantotto. Ne vedremo delle belle. Per cominciare, domenica scorsa un importante quotidiano attribuiva all'onorevole Casini la frase "Il '68 ci ha lasciato in eredità lo slogan 'né con lo Stato né con le Brigate rosse'". Io non mi fido mai di quello che leggo sui giornali ma, anche se Casini non avesse mai pronunciato quella frase, l'avrebbe scritta il cronista che gliela ha attribuita per sintetizzare il suo pensiero, ritenendola sensata. Ora, se vogliamo riflettere sul '68, comportiamoci da storici, non da comari. Una frase del genere non poteva essere pronunciata nel '68 anzitutto perché all'epoca le Brigate rosse non esistevano ancora, e in secondo luogo perché, si dice, fu pronunciata da Leonardo Sciascia (che certamente sessantottino non era) ai tempi dell'affare Moro - e dunque dieci anni dopo.

Se andate ora a ricercarla su Internet vedete che alcuni l'attribuiscono a Lotta continua altri persino a Moravia, troverete che Sciascia ha poi cercato di spiegare in che senso la si poteva intendere, e che all'epoca intorno a questa frase c'era stata amplissima polemica, e dunque se si deve riflettere non dico sul '68, ma su tutto il decennio successivo, che si torni alle fonti, altrimenti ci attende un anno di rievocazioni deliranti tipo "nonno, quand'è l'ultima volta che sei andato in mona?" (e il nonno fa il verso del lupo).

Dopo questa profondissima riflessione, l'ultima che nel corso di quest'anno farò su quell'anno preterito, passiamo a cose più tristi - ma che forse con il sessantottismo deteriore hanno qualche vaga parentela - e mi riferisco all'incrocio di proteste, veti, ukase nati intorno all'invito fatto dal Salone del Libro di Torino a scrittori israeliani, e in particolare a scrittori antiguerrafondai e fondamentalmente pacifisti come Amos Oz, David Grossman o Abraham Yehoshua.

Tutti ormai sapete la storia, il Salone di Torino, che nel corso degli anni ha invitato scrittori di tutti i paesi, non dovrebbe invitare gli scrittori israeliani perché il governo di Israele merita numerose censure - alcune delle quali non io, ma gli stessi scrittori israeliani sono disposti a condividere. Ora forse i lettori affezionati di questa rubrica ricorderanno che nel gennaio 2003 avevo denunciato la decisione di Mona Baker, stimabile studiosa di traduttologia e direttrice della rivista 'Translation Studies Abstracts' la quale, non condividendo la politica del governo israeliano (suo diritto) aveva invitato a dimissionare i due studiosi israeliani che facevano parte del comitato direttivo della rivista (e, badiamo, ai quali riconosceva di aver varie volte espresso giudizi critici nei confronti del loro stesso governo) all'insegna di un "richiamo al boicottaggio delle istituzioni di ricerca israeliane".

La decisione della signora Baker era (oltre che vagamente nazista) delirante perché era un poco come se, negli anni Quaranta, un buon democratico antinazista, avesse deciso di mandare al rogo le opere di Thomas Mann, e magari di Goethe. Ma non ci sono limiti al peggio, ed ecco la polemica intorno al Salone del Libro.

Se essa fosse condotta solo da fondamentalisti amici di Bin Laden, niente da obiettare, sono fanatici che non fanno altro che ripetere che se dipendesse da loro su Israele lancerebbero una bomba atomica, e non ci si può attendere da costoro un comportamento da intellettuale illuminato. Ma la protesta contro il salone è venuta anche da rappresentanti della sinistra italiana, come se nulla avessero mai appreso dai roghi nazisti delle opere di arte degenerata, e secoli di cultura umanistica non avessero loro insegnato che un conto è la politica di un governo e un conto è la letteratura o la scienza praticata dai sudditi di quel governo.

Io capisco benissimo il rozzo ragionamento che certi amici della sinistra estrema (che ormai per rotazione di trecentosessanta gradi stanno avvicinandosi pericolosamente alla destra estrema) hanno fatto: siccome bisogna richiamare l'attenzione dei cittadini sulla nefasta politica del governo di Israele, facciamo scoppiare uno scandalo che finirà sulle prime pagine di tutti i giornali. D'accordo, in politica e in tecnica della pubblicità si fa anche così (Berlusconi è maestro), ma quello che sta accadendo col Salone di Torino è un poco come se il Telefono Azzurro, per attirare l'attenzione della pubblica opinione sui maltrattamenti a cui sono sottoposti i bambini, ne fustigasse alcuni a sangue sulla pubblica piazza. Non mi pare che sia così che si fa, perché due torti non fanno una ragione.

Mi pare che stiamo perdendo la sinderesi, che nel De Mauro viene definita come (in filosofia medievale) la naturale capacità dell'animo umano di distinguere immediatamente il bene dal male e di avere consapevolezza della legge morale, ed estensivamente come capacità di giudizio e discernimento, per cui perdere la sinderesi significa perdere la bussola, non essere in grado di ragionare.

Più netta la presa di posizione di Antonio Polito su PANORAMA:

Non so se Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni abbiano invitato alla Fiera del libro di Torino anche lo scrittore Michael Chabon. Se non l’hanno fatto, dovrebbero. Anche se non è un israeliano è pur sempre un ebreo, e i boicottatori nostrani, si sa, non vanno tanto per il sottile con queste differenze. Chabon è uno strano ma già celebratissimo romanziere, vincitore di un premio Pulitzer.

Ciò che mi ha fatto pensare a lui, in questi giorni di razzismo intellettuale antiebraico, è il suo ultimo romanzo. È un poliziesco e si intitola The Yiddish policemen’s Union. La trama immagina come sarebbe andata una certa storia se la storia fosse andata diversamente.

I fatti si svolgono nel distretto di Sitka, in Alaska, un piccolo territorio dove gli ebrei si sono rifugiati nel 1948 dopo aver perso la guerra d’indipendenza in Palestina. La violenza ha prevalso sulla volontà dell’Onu di dare agli ebrei una terra dove sentirsi finalmente al sicuro. Una nuova fuga li ha portati dall’altra parte del mondo: l’imbarazzo degli Usa ha strappato loro la concessione di un piccolo territorio ghiacciato, che però potranno avere in uso solo 60 anni. Le vicende del detective Meyer, intrise di dolore e sensi di colpa, si svolgono alla vigilia della nuova cacciata: «Il sogno di questi ebrei sta giungendo alla fine, ancora una volta la marea della storia minaccia di spazzarli via e di trascinarli nell’ignoto».

Se le cose fossero andate come le immagina Chabon, e cioè per il verso giusto secondo il pensiero dei Ramadan e dei Vattimo, se cioè gli ebrei fossero stati cacciati via dalla Palestina, forse oggi non dovrebbero prendersi la briga di provare a cacciarli via pure da Torino, pure da una fiera del libro. Avremmo risolto la questione ebraica una volta e per tutte. Purtroppo, per i Ramadan e per i Vattimo, le cose non sono andate così, e gli imperativi dell’antisemitismo li costringono a una nuova, vigliacca battaglia di boicottaggio, secondo la moda che ha preso piede proprio tra le classi intellettuali europee.

Non ci sarebbe da aggiungere molto al senso di nausea. Se non che questa nuova persecuzione degli ebrei, fatta in nome dell’opposizione allo stato di Israele nato 60 anni fa, rende perfettamente chiaro perché l’antisionismo è una grave forma di razzismo, e sempre meno distinguibile dall’antisemitismo. Vergogna a chi se ne macchia.

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