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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa - L'Unità - Europa - La Repubblica - Liberazione - Il Manifesto Rassegna Stampa
06.02.2008 Sul boicottaggio antisraeliano alla Fiera del libro di Torino
rassegna di editoriali

Testata:Il Giornale - La Stampa - L'Unità - Europa - La Repubblica - Liberazione - Il Manifesto
Autore: R. A Segre - Alain Elkann - Furio Colombo - Khaled Fouad Allam, Victor Magiar - Massimo Novelli - Angelo D'Orsi - Rina Gagliardi - Tariq Ali - Maurizio Matteuzzi - Antonio La Volpe
Titolo: «Boicottaggio, il più classico degli autogol - Israele e i suoi scrittori, l'identità conquistata - Se il nemico è Israele - Ecco il nostro appello, contro il boicottaggio - Invitare Israele è una scelta giusta - L'utopia di una fiera ebraico-palestinese»

Un pregiudizio di inuietante ambiguità -Perché non parteciperò alla Fiera del Libro - Fiera del libro di torino: dubbi, sensazioni e trappole - Israele rispetti Annapolis
Da Il GIORNALE del 6 febbraio 2008 (a pagina 30), l'intervento di R.A. Segre:

Se non fosse nota l’incapacità congenita di Israele nel promuovere la propria immagine nel mondo mediatico contemporaneo, il boicottaggio, promosso recentemente da personaggi che si credono portavoce della cultura italiana e araba, alla presenza dello Stato ebraico alla prossima Fiera del Libro di Torino, potrebbe essere visto come una straordinaria operazione di successo in relazioni pubbliche del governo di Gerusalemme.
La pubblicità fornita al 60º anniversario della fondazione di Israele da questo stupido boicottaggio ha ormai varcato i confini italiani, sviluppando un positivo atteggiamento di riconoscimento del buon diritto di Israele, della sua vitalità e del contributo culturale e umano di una società a cui si contesta il diritto all’esistenza. Una società, fra l’altro, che continua a imporsi per le sue conquiste intellettuali, scientifiche e sociali nonostante l’ininterrotto stato di guerra. Il tentativo di boicottaggio si è così trasformato in un significativo autogol per gli avversari di Israele. Questi sono infatti riusciti a spaccare la sinistra; a schierare a favore di Israele rappresentanti di influenti circoli - imprenditori, avvocati, banchieri, accademici - che generalmente si tengono fuori dal battibecco palestinese.
Prendere le difese della cultura di Israele non è così soltanto diventato un modo di essere molto «in» ma ha anche fatto scoprire a parecchia gente in Italia la normalità dello Stato ebraico. Cosa che l’intellighenzia sinistroide italiana e larga parte di quella araba-islamica cercano di negare creando l’immagine falsa di uno Stato razzista, oggetto permanente di invidia e causa di confronti che mettono in luce l’assolutismo e il razzismo dei regimi arabi, la loro oppressione della cultura e delle libertà individuali.
Accettare il fatto che Israele sia onorato per la sua cultura significa infatti andare contro l’immagine di un Paese guerrafondaio che affama con la sua inesistente occupazione, quei palestinesi di Gaza a cui i fratelli arabi vietano l’accesso al loro territorio e che domandano il diritto di entrare in Israele, Paese a cui inviano missili e kamikaze. Per i marxisti, la menzogna è sempre stata l’arma preferita, nella delegittimazione dell’avversario. Di conseguenza il fallimento di questo tentativo di delegittimare Israele sta rivelandosi dannoso proprio per chi lo ha organizzato, più che per Israele stesso.
Con questa iniziativa gli avversari di Israele sono riusciti anzitutto a indebolire i loro alleati israeliani, quella schiera di scrittori invitati alla Fiera del Libro di Torino che sono fra i più influenti critici del loro governo, oppositori della colonizzazione e favorevoli alla creazione di uno Stato palestinese. Obbligando inoltre scrittori arabi a dissociarsi da esso per difendere i propri diritti di libera espressione. Infine personaggi come Tariq Ramadan, come Ben Jalul, come Suad Amiry che debbono il loro riconoscimento alla libertà di espressione che invece vorrebbero negare a Israele, rivelano le cause vere del decadimento della società araba-islamica contemporanea. Non a caso il rapporto annuale delle Nazioni Unite sullo sviluppo del Paesi arabi nota che il numero di libri tradotti per un mercato di 250 milioni di persone è inferiore a quello dei libri tradotti in Spagna.
Il ritardo sociale, culturale, scientifico arabo non è tanto il frutto di un’oppressione straniera - certo non di quella israeliana - ma di una chiusura mentale incapace di liberare le élite dall’immobilismo dettato dal vittimismo a cui tutto dovrebbe essere permesso.
Quando scrittori arabi protestano contro «l’onore» che la Fiera di Torino tributa alla cultura dello Stato di Israele, non si accorgono di svelare le ragioni per le quali nella loro lunga guerra contro Israele gli arabi hanno perduto il loro onore. Non l’onore effimero, tribale, medievale sui campi di battaglia, ma l’onore che impone di distinguere fra passione e menzogna.
Una carenza che rende ancor più difficile affrontare i mali propri e spinge a credere che il solo modo per riconquistare la propria dignità sia quello di toglierla al nemico.

Da La STAMPA, a pagina 34, un intervento di Alain Elkann:

Nel suo piccolo capolavoro Tonio Kröger il romanziere tedesco Thomas Mann fa dire a Tonio che guarda la bionda Inche ballare «vorrei dormire, ma tu devi danzare»: è un famoso verso del poeta romantico tedesco Storm che spesso mi ha accompagnato nella vita. L’intellettuale, l’artista non dovrebbe trovarsi ad essere uomo o donna d’azione. La letteratura non è di destra o di sinistra, è al di sopra della politica. La letteratura può valersi di metafore o di riferimenti, ma Dante Alighieri non è un grandissimo poeta perché attraverso la Divina Commedia si toglie qualche sassolino personale o politico...
Scrivo questo perché non mi sento di rispondere a nessuno in particolare su quanto riguarda la ormai troppo nota vicenda della Fiera del libro di Torino che quest’anno ospita come paese Israele e i suoi scrittori, così come negli scorsi anni ospitò Canada, Portogallo... e i suoi scrittori e così via. Mi auguro anch’io come hanno scritto su questo quotidiano prima Avraham B. Yehoshua e poi Arrigo Levi che un altro anno un nuovo stato palestinese possa essere ospite con i suoi scrittori della Fiera. Sono d’accordo con Claudio Magris quando sul Corriere della Sera cita il proverbio viennese che dice «Certe cose non vanno neppure ignorate perché già ignorarle è troppo».
Vorrei solo dire che mi rallegro del fatto che Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero, il presidente ed il direttore della Fiera, non abbiano avuto paura né si siano inginocchiati davanti a minacce di vario genere a scritti polemici a volte solo stupidi o faziosi di intellettuali in cerca di scalpore o di visibilità. Israele è una nazione nata nel 1948 che ha saputo esprimere una grande letteratura contemporanea frutto di diverse esperienze. Aharon Appelfeld scrive in ebraico, ma potrebbe essere il degno successore di Kafka. Amos Oz è lo scrittore che ha vissuto nel kibbutz è rappresenta la prima generazione israeliano nato in Israele. Yehoshua è un intellettuale uno scrittore che ha lasciato la natia Gerusalemme per trasferirsi a Haifa in modo di sentirsi più immerso nella realtà israeliana e descrivere meglio i sentimenti e le vicende personali dei suoi personaggi. David Grossman è uno scrittore che ha saputo esprimere bene il clima della nostra generazione, l’ansia di una vita vissuta sempre in un paese che è come una casa senza pareti definite. Non solo, ma Grossman ha perso un figlio ventenne nell’ultima guerra in Libano a poche ore dalla tregua.
Ebbene la lingua ebraica, le difficoltà umane, la consapevolezza di una grande avventura storica per tutto il popolo ebraico che è tornato a vivere là dove era stato distrutto il suo Tempio due mila anni fa, ha fatto nascere degli scrittori che sono letti e conosciuti in tutto il mondo. Scrittori di lingua ebraica non di lingua inglese come Philip Roth, yiddish come Singer, italiana come Primo Levi, francese come Elie Wiesel. Allora se una fiera del libro ha per vocazione di invitare ogni anno un paese, non vedo perché Israele che è un paese come tutti gli altri dovrebbe essere escluso.
I palestinesi avranno, ne sono certo, il loro Stato. Hanno degli eccellenti scrittori, parlano una lingua bellissima e quindi verranno a Torino al più presto. Non sono d’accordo con Dario Fo che vorrebbe invitare scrittori palestinesi quest’anno alla Fiera. Avrebbe il sapore di una giustificazione come se la lingua ebraica, gli scrittori israeliani e Israele non fossero in grado di stare in piedi da soli. Bisogna credere fortemente nella pace e capire che la pace significa rispetto della diversità la pluralità significa ricchezza. Ognuno ha il diritto di essere chi è, soprattutto se se lo merita e credo che gli scrittori israeliani abbiano fatto le loro prove in tutto il mondo. Prendiamo esempio da due premi letterari di cui mi onoro di essere in giuria come il Grinzane Cavour e il Mondello. Fino dalle loro origini hanno premiato indistintamente grandi scrittori o poeti arabi o israeliani. Il talento non ha nazionalità. Sono assolutamente d’accordo con il premio Nobel per la letteratura lo scrittore turco Orhan Pamuk che scrive «mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura». Sembra impossibile che appena si parla di «ebrei» o di «Israele» si debbano sempre fare distinzioni, creare polemica, essere pro o antisemiti. L’ho già scritto nel mio libro Mitzvà uscito qualche anno fa da Bompiani. Chiedo una sola cosa: «Lasciate in pace gli ebrei e gli israeliani». Sono un popolo come tanti altri con le sue qualità e i suoi difetti e la sua storia.

In prima pagina sull'UNITA', l'intervento di Furio Colombo:

Se il nemico è Israele, avevano ragione i nazisti che si erano impegnati a sterminare a uno a uno gli ebrei in modo che nessuno potesse mai partecipare al complotto sionista e fondare uno Stato.
Se il nemico è Israele, al punto da lanciare un appello agli italiani perché sia boicottato il prossimo Salone del Libro di Torino, dedicato a Israele (ogni anno il Salone è in onore di un Paese diverso), allora gli amici sono la Siria dei feroci delitti in Libano, l’Arabia Saudita, mega-potenza del petrolio che ha eletto a suo nemico principale Israele, il presidente dell’Iran che dichiara la Shoah «una invenzione dell’imperialismo» e chiede che Israele sia cancellato.
Se il nemico è Israele, al punto da rifiutare con sdegno i libri e gli scrittori di quel Paese, che sono tutti per il diritto alla nascita di uno Stato dei palestinesi e al convivere in pace, allora la decisione è che i palestinesi devono essere condannati alla guerra perenne purché muoiano gli israeliani.
Se il nemico è Israele, al punto di voler cacciare dall’Italia coloro che ne rappresentano la voce più alta della poesia e del narrare, e di voler fare tutto ciò nel sessantesimo anniversario della legittima nascita di quello Stato (deciso da un voto delle Nazioni Unite, lo stesso voto che aveva istituito anche uno identico Stato palestinese, che le potenze petrolifere arabe hanno impedito ai palestinesi di accettare) allora l’intenzione è la stessa del leader iraniano Ahmadinejad: cancellare Israele.
Se qualcuno pensa che questo atteggiamento di repulsione verso Israele sia nato dai cascami della destra fascista, da relitti di nazismo, occorre ripetere la brutta notizia: è un appello che viene da alcuni personaggi della sinistra. Viene da sinistra la richiesta di negare un giorno di festa allo Stato di Israele nell’anniversario della sua nascita. Si noti bene: negare un gesto amichevole a Israele in questa circostanza significa affermare (come fanno siriani, iraniani, sauditi, gli assassini di Daniel Pearl, ma non il legittimo governo palestinese, non gli Stati arabi con governi democratici) che Israele non ha - e non ha mai avuto, fin dall’origine - alcun diritto di esistere, né ora né mai.
Alcuni “commenti” o “chiarimenti”, anche di voci illustri, hanno reso più cupa la scena. Si è detto: se il Salone quest’anno è dedicato a Israele, allora devono essere invitati anche i palestinesi. Strana visione coloniale. Il popolo palestinese ha i suoi scrittori e i suoi poeti - alcuni dei quali noti nel mondo - che saranno felici e orgogliosi di venire a Torino quando saranno invitati come unità nazionale e come popolo (speriamo presto come Stato) non quando sono chiamati dal padrone bianco con l’intenzione di far dispetto agli indigeni della tribù vicina.
Un argomento che fa impressione, data la firma (Gianni Vattimo) e che fa pensare a un momento di smarrimento, è stato detto così: «Hanno forse pensato (gli organizzatori del Salone, ndr) di invitare alla Fiera del Libro Noam Chomsky o Edgar Morin?». Detto da un grande intellettuale giramondo, la domanda appare (mi esprimo con mitezza) insensata. Chomsky è un grande studioso americano, e anzi si può dire di lui che è “profondamente americano”. Sarà certamente invitato in futuro Salone del Libro dedicato agli Stati Uniti e alla cultura americana. Considerare di invitarlo adesso, in quanto ebreo, è fuorviante, offensivo, ma anche ridicolo. Sarebbe come interpellare Barak Obama sugli scontri a Nairobi in quanto il candidato alla presidenza degli Stati Uniti è di origine kenyota.
Quanto a Edgar Morin, non ho mai sentito nessuno, in Francia o nel mondo, definirlo un grande sociologo ebreo. È un intellettuale francese tra i più importanti e credo che chiunque in Francia non accetterebbe altra definizione.
Il fatto è che i due tristi argomenti vengono usati per dire «Non ce la abbiamo con gli ebrei, ce l’abbiamo con Israele». Il problema non sono gli ebrei sparsi per il mondo. Il problema è quando alcuni di essi si mettono insieme per fare uno Stato. Evidentemente questo, secondo alcuni, che purtroppo dicono di parlare da sinistra, non si può e non si deve fare.
Una simile visione annebbiata li isola dal presidente palestinese Abu Mazen, abbandona al loro destino tutti i palestinesi che - come moltissimi israeliani e la totalità degli scrittori che verranno a Torino - vogliono la pace.
Di pace parlano, per fortuna, tanti nel mondo, dentro e fuori dalla politica, vicino e lontano dal Medio Oriente. Rifiutano di immaginare che - dove ci sono ebrei - “guerra è sempre”.
La citazione è da La tregua di Primo Levi. Il nostro appello è questo. Nella città di Primo Levi, dove ebraismo, antifascismo, Resistenza sono stati l’identità di tanti (e il prezzo, la vita) non lasceremo che sia la destra a difendere il Salone del Libro dedicato al compleanno di Israele. Vecchi e giovani, lo faremo noi. Noi, la sinistra che si riconosce nella lotta partigiana, nella cancellazione delle leggi razziali, nel “Giorno della Memoria”, nella Costituzione.
furiocolombo@unita.it

L'appello di Victor Magiar e Khaled Fouad Allam contro il boicottaggio, pubblicato da EUROPA a pagina 6

È stata lanciata un’ignobile campagna che, nei fatti, è una minaccia alla libertà di espressione e che ha assunto la forma vergognosa della discriminazione nei confronti di un intero popolo, della sua cultura e del suo stato.
È una campagna ignobile anche perché fondata sulla faziosità, sul pregiudizio, sull’ingratitudine. Faziosa perché mai abbiamo assistito ad iniziative simili contro quei paesi (e i loro intellettuali) che violano o negano i basilari diritti umani, o governati da feroci dittature, o responsabili di atrocità e violenze contro i popoli propri o altrui.
Fondata sul pregiudizio perché si propone un’immagine di Israele e degli israeliani come quello di un popolo persecutore, e non come quello di un paese e un popolo in cerca di una strada verso la pace.
Fondata sull’ingratitudine perché gran parte del popolo israeliano, con in testa i suoi uomini e donne di cultura, scrittori e poeti, si batte da sempre non solo per la difesa dei propri diritti ma anche per quella dei propri nemici.
Oggi, il pregiudizio contro Israele, la patria degli ebrei, è la nuova forma di pregiudizio contro gli ebrei intesi come Nazione.
Ci rivolgiamo a tutte le persone di cultura affinché facciano sentire la loro voce: boicottare, discriminare, gli scrittori israeliani vuol dire discriminare noi; accettare come “normale” la proposta di boicottaggio vuol dire aprire la strada a nuove forme di intolleranza.
Il mondo ha bisogno di cultura, di conoscenza, di libertà.

Da La REPUBBLICA un 'intervista a Enzo Bianchi , priore di Bose;

«La politica ha parlato, ma ora taccia. E lasci che parli la cultura, in modo che la Fiera del libro possa riprendere la sua normale routine di lavoro». Così si è espresso Rolando Picchioni, presidente della Fondazione per il libro, la musica e le attività culturali, che promuove la manifestazione torinese. Lo ha fatto al termine del consiglio d´amministrazione dell´ente, «che ha preso atto all´unanimità del comunicato congiunto relativo all´incontro con la delegazione israeliana», con cui si è riconfermata la scelta dello stato di Tel Aviv quale ospite della Librolandia di quest´anno. Anche ieri, però, non sono mancate le note polemiche, oltre a un´occupazione, sia pure pacifica, nella sede della Fondazione da parte di alcuni esponenti dei centri sociali antagonisti, che hanno esposto uno striscione recante la scritta «No Israele» e una bandiera della Palestina.
Sulla vicenda è ritornato quindi Tariq Ramadan, il teologo e intellettuale egiziano favorevole al boicottaggio, che ha riaffermato il suo pensiero, sebbene abbia detto che non bisogna impedire «agli autori israeliani di esprimersi o di dibattere con loro». Tariq Alì, poi, romanziere e saggista, ha annunciato la sua defezione dalla kermesse del Lingotto, ritenendo l´invito a Israele «una bruttissima provocazione». Di tutt´altro tenore sono le dichiarazioni di Enzo Bianchi, il fondatore e priore della comunità monastica di Bose, sulle colline della Serra d´Ivrea, che approva le scelte della Fiera del libro. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente.
Come ha ricordato il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, si può dire che tutto sia cominciato proprio da Bose. Nella sua comunità, nella primavera scorsa, si riunì la Fondazione per il libro e decise di puntare sulla cultura israeliana. È andata in questa maniera?
«Effettivamente si sono riuniti da me, li ho ospitati, anche se non faccio parte della Fiera del libro. In ogni caso penso che la loro, rispetto a Israele, sia stata una scelta giusta, che ha un profondo significato».
Ma c´è chi non è d´accordo. Ci sono polemiche, campagne di boicottaggio, proteste politiche. Tariq Ramadan, per esempio, sostiene che «non è umanamente accettabile celebrare Israele dal momento che siamo a conoscenza della politica che conducono questo stato e il suo governo nei territori occupati». Che cosa ne pensa?
«Capisco le critiche. Credo tuttavia che non si possa vietare la partecipazione di Israele a una fiera del libro, e questo quando tutti tentano di dialogare tra le parti. Se pure le iniziative culturali e le occasioni di riconciliazione, di dialogo, di incontro, finiscono in una logica di esclusione, allora diventa davvero difficile incontrarsi e dialogare. Oltretutto il salone di Torino è un salone culturale e la letteratura di Israele, i suoi scrittori, hanno tutta la dignità per parteciparvi, per essere invitati. Sono un piccolo popolo con tanti importanti letterati. Proprio in vista di un dialogo fra Israele e i palestinesi, insomma, credo che vada lodata l´iniziativa della Fiera del libro e dei suoi organizzatori: hanno avuto l´audacia di far tacere le divisioni».
Chi minaccia il boicottaggio dimostra di non volere nemmeno distinguere tra un governo e un popolo, un´entità politica e una cultura.
«È inaccettabile che si identifichi un popolo, una cultura, con il potere politico, con il suo governo. È invece molto rilevante che si dia spazio alla cultura».
I più famosi ed autorevoli narratori israeliani, inoltre, da Amos Oz a David Grossman, ad Abraham B. Yehoshua, hanno spesso criticato, anche duramente, il loro governo in merito alla questione palestinese.
« Ma certo. Li conosco bene, sono tutti miei amici. Ripeto: non si può confondere la cultura di un paese con la sua classe politica».
In sostanza, la Fiera del libro di Torino ha fatto la scelta giusta.
«Ha fatto una scelta importante e giusta. Oggi ha invitato Israele, domani inviti la Palestina».

Ilan Pappe, anche all'interno del campo degli storici israeliani cosiddetti revisionisti, è un campione di fanatismo ideologico.
Non si limita a riscrivere la storia di Israele, anche promuovendo come serie ricerche storiche falsi conclamati (si veda il caso dei massacri falsamente attribuiti alla Brigata Alexandroni a un ricercatore da lui sostenuto, che ha poi ammesso di essere stato pagato dall'Olp).
Ricava invece dai risultati quanto meno opinabili e dubbi delle sue ricerche una sentenza di condanna  contro lo Stato di Israele e il suo diritto all'esistenza.
La sua cioè, non è una ricerca storica volta semplicemente all'accertamento dei fatti, ma un trbunale (fraudolento) nel quale si ricercano le prove del "peccato originale" di Israele, secondo un metro di giudizio che non viene applicato a nessun altro stato (per esempio, nè agli stati arabi per l'espulsione delle comunità ebraiche, nè a India e Pakistan, Grecia e Turchia, Cecoslovacchia e Polonia per i trasferimenti di popolazione che vi hanno avuto luogo in seguito a conflitti armati)
Non stupisce
che Angelo D'Orsi, già promotore dell'appello che criminalizzava Israele per la risposta all'aggressione di Hezbollah, si rifaccia a Pappe per giustificare la sua adesione al boicottaggio alla Fiera del libro, la sua esplicita negazione del diritto all'esistenza di Israele (questo significa "fine della soluzione a due stati), il suo processo contro scrittori pacifisti come Yehoshua, Oz e Grossman, colpevoli di essere comunque sionisti.

Ecco il testo, pubblicato in prima pagina, con un titolo falsamente conciliante ed "ecumenico" da LIBERAZIONE (quotidiano di Rifondazione Comunista) il 6 febbraio 2008:

La pulizia etnica della Palestina. Così s'intitola uno straordinario, drammatico libro - quasi un reportage documentatissimo e insieme una dolorosa introspezione analitica - di colui che oggi è considerato il maggiore storico "revisionista" israeliano, Ilan Pappe, che pubblicato in edizione originale ( The ethnic cleansing of Palestine , Oneworld Publications, Oxford, 2006), sarà, dopo alcune traversie, tradotto in italiano dall'editore Fazi, nel prossimo autunno. Si tratta della più impietosa, e appassionata, ricognizione della sessantennale tragedia palestinese, che, insieme agli altri scritti e alle costanti prese di posizione a favore della causa di chi oggi è scacciato dalle sue case, come i loro genitori furono scacciati prima di loro, ha provocato al suo autore tali difficoltà in patria da costringerlo a emigrare definitivamente in Gran Bretagna. Israele (e l'Università di Haifa) ha perso una delle sue voci più critiche, ma anche uno dei suoi intellettuali più liberi e prestigiosi. Perché citare questo libro di cui si attende con impazienza l'edizione italiana? Perché torna utile per fare chiarezza in merito alle polemiche, ogni giorno più aspre, sulla Fiera del Libro di Torino edizione 2008. In uno dei numerosi interventi - pressoché quotidiani - di Yehoshua abbiamo letto (sulla Stampa di ieri) che quest'anno, per celebrare il 60° della nascita di Israele, è cosa buona e giusta fare di questo Stato l'ospite d'onore della Fiera torinese; ma, ha aggiunto, il prossimo anno sarebbe bello invitare la Palestina, posto che questa abbia uno Stato.
segue a pagina Ora, sarà opportuno ricordare che Yehoshua, insieme con Grossman e Oz (di solito chiamati in campo come il trio critico della cultura israeliana), ha giustificato con la guerra del Libano cose anche peggiori, come il taglio dell'energia elettrica e dell'acqua alla popolazione di Gaza. In secondo luogo, va ribadito - e mi scuso dell'ovvietà, che tale non deve apparire se sempre ieri, sempre sulla Stampa , Gianni Vattimo è stato costretto a precisarlo - che il punto non è impedire il dialogo tra arabi ed ebrei, e neppure tra palestinesi e israeliani (e chi lo afferma o è sciocco o è in malafede, "lupo travestito da agnello", per citare un'antica metafora sempre utile). Il punto è, semmai, l'opportunità di invitare, nel sessantennio della fondazione di Israele (che è per gli arabi, e in specie per i palestinesi, un lutto, la "Nakba"), uno Stato che pratica qualcosa che uno studioso israeliano che gode del maggior credito scientifico sul piano internazionale chiama senza mezzi termini "pulizia etnica", e ciò senza fare contestualmente l'invito al costituendo Stato palestinese. Tanto più che questo invito a Israele, a quanto si dice, sarebbe stato in qualche modo richiesto dal governo di Tel Aviv (continuo personalmente a considerare Gerusalemme una civitas universalis che non può essere oggetto di appropriazione da parte di un governo, di una religione, di un'etnia qualsivoglia), il quale avrebbe avanzato la stessa richiesta pure al Salone del libro di Parigi. E, sempre stando a voci circolanti - che attendono smentita -, precedenti accordi prevedevano che l'ospite 2008 della Fiera di Torino sarebbe stato l'Egitto.
Dunque, si tratta di una questione squisitamente politica; e non ci si venga a dire che la cultura è indipendente dalla politica. Che cosa ci ha insegnato tutta la tradizione filosofico-politologica, da Aristotele a Machiavelli? Da Tocqueville a Marx? Da Croce a Gramsci? Non inganniamo noi stessi, ripetendo luoghi comuni, o peggio - e purtroppo è capitato; ma c'era da aspettarselo - non banalizziamo la Shoah e lo stesso antisemitismo che ha prodotto quell'orrore senza pari nella Storia, bollando, appunto, come "il solito antisemitismo rinascente", le voci critiche sull'opportunità di fare dello Stato di Israele l'ospite della Fiera di Torino.
Ciò detto, ha senso ed è utile il boicottaggio? Personalmente nutro seri dubbi in proposito; ma non per le ragioni, ahimé terribilmente banali, che abbiamo letto troppo spesso in questi giorni anche su fogli sui quali ci saremmo aspettati ragionamenti e analisi, invece che scomuniche o liquidazioni sommarie, come se fosse un falso problema. Invece di boicottare, propenderei per un allargamento: invece che lasciare, raddoppiare, insomma. Facciamo, subito ora l'invito alla Palestina; un modo per far capire che si crede davvero in quella soluzione dei "due popoli, due Stati" tanto sbandierata. Ma ci si crede davvero? A tale soluzione, sbandierata con grande clamore e reiteratamente, a dirla tutta, gli analisti più avveduti non credono affatto, e la politica israeliana degli ultimi anni sembra andare in direzione contraria: si legga in proposito un altro libro, questo uscito in edizione italiana presso una casa editrice rigorosamente cattolica, la Jaca Book di Milano Palestina. Quale futuro? (pp. 300, euro 22). Si tratta di un'opera collettiva curata da un altro dei massimi specialisti, Jamil Hilal, storico, sociologo, politologo e finissimo analista, provvisto (se non vado errato) del doppio passaporto, palestinese e israeliano. Le analisi - a carattere economico, geopolitico, demografico, ideologico, ambientale… - contenute nei diversi contributi raccolti in questo utilissimo volume (che tanti chiacchieratori di professione farebbero bene non a leggiucchiare, bensì proprio a studiare, prima di tranciare giudizi ed emanare verdetti) portano a una conclusione oggi tanto necessaria, quanto inattuale, per usare una formula celebre di Norberto Bobbio (lui si riferiva alla pace mondiale, e invece di inattuale usava l'aggettivo ancora più drastico di "impossibile"): ossia l'unica soluzione duratura, credibile ed efficace, per salvare i diritti degli uni e degli altri - ma, sia consentito ricordare i tanti cristiani, ortodossi, copti e cattolici… - sarebbe, per dirla con le parole di Hilal: «La riunificazione della Palestina in uno Stato democratico e pluralista», come «risposta alla pulizia etnica che i palestinesi hanno subìto nel 1948 e alla distruzione della loro società, che continua sotto il colonialismo militare».
Ciò che più conta rilevare è, però, che questa è anche, secondo gli autori del libro (tra i quali lo stesso Pappe), «l'unica via d'uscita che gli israeliani hanno dalla trappola dell'isolamento etnico, dall'istituzionalizzazione di un sistema di Apartheid e dalla continua oppressione di un altro popolo». Ebbene, lancio una sfida: perché non trasformare questa edizione della prestigiosa Fiera di Torino, da vetrina propagandistica di uno Stato (da tanti studiosi indipendenti definito come colonialista e oppressore), in un laboratorio dell'unificazione tra i due popoli? Forse sarebbe davvero un contributo, magari minimo, ma importante sul piano simbolico: nessuno pensa che una tale soluzione politica sia imminente; e i più la giudicano pura utopia. Ma non è forse l'utopia un messaggio lanciato in una bottiglia? Chissà che presto o tardi, qualcuno non lo raccolga.

LIBERAZIONE, sempre in prima pagina , puibblica anche l'editoriale di Rina Gagliardi, contraria al boicottaggio:

"Il pensiero ha le ali, nessuno può arrestarne il volo". Nella Spagna musulmana del 1195, così Muhammed ibn-Rushd, in occidente conosciuto come Averroè, suggella la parabola della sua vita. Nel finale del film "Il Destino" (del grande regista egiziano Youssef Chahine), il filosofo e commentatore arabo brucia provocatoriamente un suo libro - mentre infuria l'integralismo e sta per volgere al termine l'era felice della tolleranza, della razionalità preilluminista, di quel gusto della contaminazione intellettuale che indusse Averroè a salvare i testi aristotelici dall'oblio e a diventarne il massimo interprete. Ma i "libri proibiti" di Averroè, per fortuna, saranno trascritti da allievi volenterosi e portati in salvo, in Egitto, in un viaggio epico e memorabile. Ottocento anni dopo, sarà l'occidente cristiano, il nazismo al potere, a bruciare i libri, a mettere al bando l'arte degenerata, a perseguitare la cultura - come ci ricorda un film ancora più antico, "Farenheit 451". Sì, quando ho sentito parlare della proposta di boicottare la Fiera del Libro di Torino, mi sono venute alla mente queste immagini. E lo voglio dire senza reticenza alcuna: proporre il boicottaggio di una manifestazione culturale, fatta di libri, imperniata sui libri, sugli scrittori, sugli autori, sulle idee, sul confronto delle diversità, è un fatto molto grave. Una distorsione dell'idea del mondo. Un segnale di fondamentalismo, che sarà certo più in sintonia con i tempi di quanto non lo sia lo spirito di tolleranza, o l'amore per i libri, ma che non è per questo, ai miei occhi, meno inquietante. Giacché, come è evidente, l'oggetto reale del boicottaggio che si propone non sono gli stands del Salone, non è la politica di Ferrero o Picchione, e non sono neppure i romanzi di Oz o Grossmann: è tout court l'esistenza dello Stato di Israele.
Dunque, quello di cui stiamo parlando è un boicottaggio doppiamente improprio: nella sua immediatezza (e parvenza), ha la cultura come bersaglio; nel suo "afflato simbolico", è ispirato da un'opzione politica di intolleranza e fanatismo, che non solo non aiuta, ma danneggia la causa palestinese. Per essere ancora più chiari: la scelta di invitare gli scrittori di Israele alla Fiera di maggio è del tutto lecita e "normale", come sarà quella del 2009 di invitare al medesimo appuntamento gli intellettuali egiziani, come sarebbe quella (che auspichiamo) di dedicare alla letteratura palestinese una sessione apposita. L'idea, poi, di "reggere" l'iniziativa, bilanciando la presenza degli scrittori israeliani con i loro omologhi palestinesi, mi pare un'ulteriore assurdità: una specie di SuperMuanuale Cencelli applicato alla tragedia del Medio Oriente. Ma perché tante assurdità sono così diffuse a sinistra, e alimentate da rispettabili intellettuali di sinistra?
***
Io non ho mai creduto che, a sinistra, sia cresciuto in questi anni il mostro dell'antisemitismo. In singoli individui, in piccoli gruppi, può darsi che sia così - se è vero che tutti, anche le persone di sinistra, in qualche modo respirano lo "zeitgeist", il cattivo "spirito del tempo" che ci è toccato. Penso che si tratti di altro, di qualcosa che ha a che fare con le culture politiche di fondo, con cui tante persone di sinistra, specie in un'epoca di smarrimento e confusione, e quindi di pulsioni identitarie elementari, non possono o non vogliono fare i conti. Un'idea di politica, intanto, che per un verso è "onnipossente", onnicomprensiva, totalizzante, al punto che non conosce sfere o dimensioni davvero autonome o davvero diverse da sé - non riesce per esempio a vedere nessuna differenza tra un evento culturale e un evento politico, ed anzi tende ad assoggettarlo in toto all'interno dei propri confini. Ma per l'altro verso questa politica così forte e assoluta viene ridotta, schmidtianamente, alla dialettica Amico-Nemico: cioè al conflitto distruttivo, al potere da conquistare, all'annientamento dell'Altro. La tragedia del Medio Oriente, purtroppo, sembra confermare proprio questo schema, e la sua lucida perversione: lì, guerra e terrore continuano a regnare, non ci sono né spazi né speranze di pace; lì, c'è solo l'odio, anche e soprattutto per gli oppressi; lì, c'è solo da schierarsi, risolutamente, per i palestinesi e contro Israele. E se il fondamentalismo religioso ha fatto percorsi da gigante anche nel popolo arabo più laico e tollerante, come sono stati storicamente i palestinesi, ebbene la sua "parte di verità" va assunta, anche qui da noi: se lo scontro si fa "totale", è Israele che diventa il Nemico. Israele in quanto tale, non i suoi governi - il suo popolo, i suoi lavoratori, i suoi intellettuali. Israele e la sua potenza politica - ma anche, giocoforza, tutto quello che Israele rappresenta per gli ebrei di tutto il mondo, il luogo della sicurezza e dell'identità. In questa sequenza, mi pare, si annidano posizioni culturalmente e politicamente molto pericolose. Si annulla una lunga storia, e le ragioni per cui nacque lo Stato di Israele: una scelta che la responsabilità europea rese non solo inevitabile, ma necessaria. Si accetta, quasi senza accorgersene, una tremenda coazione a ripetere: l'idea che, per affermare un diritto - il diritto ineludibile dei palestinesi ad avere il loro Stato e la loro sovranità - se ne deve distruggere un altro, il diritto del popolo israeliano a vivere in sicurezza dentro i confini del proprio Stato. Si cancella, alla fine, una distinzione che la sinistra (e i comunisti) hanno sempre avuto a cuore: quella tra Governo e Popolo, tra governanti e governati, tra Stato e politiche concrete - perfino tra il governo di uno Stato, e gli scrittori che abitano quello Stato (che cosa direbbe Palmiro Togliatti di fronte a una tale confusione di piani, di soggetti, di interlocutori? di fronte a chi riduce la realtà di un Paese a un monolito, e non ne vede la complessità, il travaglio, il tormento?). Così si scivola inesorabilmente su un pregiudizio antiisraeliano di inquietante ambiguità. Per chi, come me, segue da tanti anni con passione e dolore la lotta dei palestinesi, e si identifica con la causa del loro riscatto (non solo nazionale), questa non può essere la strada da seguire: se non si esce dalla spirale tremenda del conflitto di annientamento, se non si lavora, per quello che si può, a costruire un clima diverso tra i popoli, se non si mettono, testardamente, al primo posto, la pace e il dialogo (e lo storico obiettivo "due popoli, due stati"), lo Stato palestinese non nascerà mai. E sarà sempre di più il popolo palestinese ad esserne umiliato e offeso, sistematicamente perseguitato, tendenzialmente sterminato. E sarà solo odio aggiunto ad odio, disperazione aggiunta a disperazione, violenza aggiunta a violenza. Che cosa ancora dovrà accadere per convincersi che, anche e proprio nelle situazioni drammatiche come queste, soltanto la lotta di liberazione nonviolenta può davvero vincere?

Post scriptum . A proposito: se è vero che quello di George W. Bush è stato forse il peggior governo della storia (non gloriosa) dei governi di Washington, se è vero che ha devastato il mondo tra guerre e saccheggi e sterminio di popoli, perché non si propone il boicottaggio del prossimo film di George Clooney, o dei romanzi di Philip Roth? O di Mac e Microsoft? O della Motorola?

Dal MANIFESTO l'adesione al boicottaggio di Tariq Ali (con una lettera inviata alla direzione della Fiera):

Quando ho accettato di partecipare alla Fiera del libro di Torino, cosa che avevo fatto in precedenza, non avevo idea che l'«ospite d'onore» fosse Israele con il suo 60esimo anniversario. Ma questo è anche il 60esimo anniversario di quella che i palestinesi chiamano la nabka: il disastro che si abbatté su di loro quell'anno, quando furono espulsi dai loro villaggi, in alcuni casi uccisi, le donne stuprate dai coloni. Questi fatti non sono più in discussione. Perché dunque la Fiera del libro di Torino non ha invitato israeliani e palestinesi in pari numero? La presenza, accanto a trenta autori israeliani, di trenta autori palestinesi (e vi garantisco che ne esistono: sono poeti e romanzieri raffinati) avrebbe potuto essere vista come un gesto positivo e pacifico, e avrebbe consentito un dibattito costruttivo: una versione letteraria della West-Eastern Diwan Orchestra di Daniel Barenboim, metà israeliana, metà palestinese. Una scelta di questo tipo avrebbe unito le persone, ma no. I commissari dela cultura sanno quello che fanno. Ho discusso energicamente con alcuni degli scrittori israeliani presenti alla Fiera del libro in altre occasioni, e sarei stato felice di fare lo stesso anche questa volta, se le condizioni fossero state diverse. Quello che hanno deciso di fare è una brutta provocazione. Sembrerebbe che la cultura sia sempre più legata alle priorità politiche del duo Stati uniti-Unione europea. L'Occidente è cieco nei confronti delle sofferenze dei palestinesi. La guerra israeliana contro il Libano, le notizie quotidiane dal ghetto di Gaza non commuovono l'Europa ufficiale. In Francia, lo sappiamo, è praticamente impossibile criticare Israele. In Germania pure, per motivi particolari. Sarebbe triste se l'Italia imboccasse la stessa strada. Quante volte dobbiamo sottolineare il fatto che criticare le politiche colonialiste di Israele non è una forma di antisemitismo? Accettare quel principio significherebbe diventare vittime volontarie del ricatto cui l'establishment israeliano ricorre per tacitare le voci dissenzienti. Ma ci sono alcune persone coraggiose, come Aharon Shabtai, Amira Hass, Yitzhak Laor e altri, che criticano Israele e non intendono permettere che le loro voci siano imbavagliate in questo modo. Shabtai si è rifiutato di partecipare a questa Fiera. Come avrei potuto fare altrimenti. Una cosa è difendere il diritto di Israele a esistere, come faccio e ho sempre fatto. Ma da questo a trarre la conclusione che il diritto di Israele a esistere si traduca nella concessione di un assegno in bianco per fare ciò che vuole di quanti ha espulso, e che tratta come untermenschen, è inaccettabile. Personalmente sono favorevole a un solo stato israeliano-palestinese in cui tutti i cittadini siano pari. Mi si dice che questo è utopistico. Può darsi, ma è l'unica soluzione a lungo termine. Per via degli argomenti di cui trattano i miei romanzi, mi viene spesso chiesto (l'ultima volta a Madison, nel Wisconsin) se sarebbe possibile ricreare l'epoca migliore della al-Andalus e della Sicilia, quando tre culture coesistettero a lungo. La mia risposta è la stessa: oggi l'unico luogo dove essa potrebbe rivivere è Israele/Palestina. Viviamo in un mondo di doppi standard, ma non è necessario accettarli. A volte accade che individui e gruppi a cui viene fatto del male, infliggano il male a loro volta. Ma la prima cosa non giustifica la seconda. E' stato l'antisemitismo europeo a tollerare il genocidio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, genocidio di cui i palestinesi sono ora diventati indirettamente le vittime. Molti israeliani sono consapevoli di questo fatto, ma preferiscono non pensarci. E molti europei oggi guardano ai palestinesi e ai musulmani così come un tempo guardavano gli ebrei. Questa è l'assurda ironia cui assistiamo nei commenti sulla stampa e in televisione, virtualmente in ogni paese europeo. E' un peccato che la burocrazia della Fiera del libro di Torino abbia deciso di assecondare i nuovi pregiudizi che spazzano il continente. Auguriamoci che il loro esempio non sia seguito da altri. (Traduzione Marina Impallomeni)

E la reprimenda di Maurizio Matteuzzi a Valentino Parlatoe Marco D'Eramo (contrari al boicottaggio), incentrata sull'equivalenza tra Israele e il Sud Africa dell'apartheid:

 

Devo dire che invidio le certezze delle autorevoli opinioni apparse sul nostro giornale, nettamente contrarie alla proposta di boicottaggio contro la scelta dello stato di Israele quale ospite d'onore alla prossima Fiera del libro di Torino, e anche della grande maggioranza delle lettere pubblicate dal manifesto, assolutamente favorevoli al boicottaggio. Confesso di non avere le certezze né delle prime né delle seconde. E di essermi trovato in piena sintonia, finora, solo con l'intervento di Michele Sarfati: le sue considerazioni e i suoi dubbi sono i miei. Dubbi rafforzati anche dal ricordo che il compianto - e grande - Edward Said una volta si espresse contro il boicottaggio a istituzioni accademiche e culturali israeliane. Certezze no, dubbi sì. E sensazioni. Sensazioni - confesso - di disagio e di fastidio. Non tanto per le candide argomentazioni del direttore della fiera Ernesto Ferrero raccolte nell'intervista di Francesca Borrelli (il manifesto del 30 gennaio, ndr). Se non fosse che il giornale israeliano Haaretz ha spiegato per primo come tutta l'operazione sia nata dal ministero della cultura di Israele e dall'ambasciata israeliana a Roma per celebrare degnamente - e politicamente - i 60 della nascita dello stato ebraico, verrebbe solo da chiedersi: in che turris eburnea vive il signor Ferrero? La sensazione di disagio e fastidio mi viene dagli interventi più «nostri». Quelli di Valentino Parlato e Marco d'Eramo. In sintesi - e scusandomi per i rischi sempre presenti nelle sintesi - Valentino, nel suo primo articolo e poi nella risposta alle lettere di critica al suo articolo, si è provato a spiegare perché è sbagliato - anzi perché non si può - boicottare Israele e, prescindendo completamente dalla situazione reale sul campo - ossia che lo stato di Israele pratica una politica di occupazione-espansione permanente contro i palestinesi e una scientifica politica di apartheid contro i «suoi» cittadini di etnia araba, e quindi è uno stato colonialista e razzista -, al termine di un excursus storico con le immancabili citazioni di come si arrivò, nel '48 all'Onu, alla nascita dello stato ebraico, dei pogrom e della Shoah, arriva una conclusione micidiale: l'identificazione fra gli ebrei e lo stato di Israele. Una conclusione poi «arricchita» in una successiva intervista a La Stampa in cui, parlando del boicottaggio, conferma l'esistenza di un anti-semitismo «di sinistra». Con queste affermazioni Valentino, a mio parere, si è cacciato in diverse trappole, una peggio dell'altra. La prima è, appunto, l'identificazione più o meno assoluta fra gli ebrei e lo stato di Israele. La seconda è l'equazione fra l'anti-sionismo (l'ideologia «socialista» alla base della fondazione dello stato ebraico) e l'anti-semitismo. La terza è che la critica contro le politiche adottate fin qui dai governi israeliani equivale a voler buttare a mare lo stato di Israele che, en passant, è la terza potenza militare al mondo, con tanto di fornitissimo - per quanto illegale - arsenale atomico. Nell'intervento di Marco d'Eramo, dotto e ricco di citazioni, mi ha colpito il richiamo a contrariis del Sudafrica dell'apartheid, di Nelson Mandela e Nadine Gordimer (non parlo, per rispetto dell'intelligenza di Marco, del paragone fra «i buoni» di Hamas e «i cattivi israeliani»). Non mi risulta che Mandela, nei 27 anni passati nel carcere di Robben Island, fosse contrario al boicottaggio internazionale - in tutte le forme e i campi - contro il Sudafrica segregazionista e il miracolo della transizione pacifica che nel '94 portò attraverso negoziati alla democrazia a-razziale e al paese rainbow non ha niente a che vedere con il boicottaggio durante gli anni della lotta armata, in cui anche l'immenso Mandela era definito un «terrorista». Fra l'altro i negoziati avvennero solo dopo che F. W. De Clerk fu costretto a liberarlo per via (anche) della campagna mondiale di boicottaggio e a accettare una trattativa da pari a pari col suo nemico. Tutt'altro discorso è perché fra i palestinesi non ci sia un Mandela (forse anche perché quelli che potevano esserlo - due nomi a caso: Arafat e Marwan Barghouti - sono stati liquidati dagli israeliani, fisicamente o politicamente?). Bisognerebbe però chiedersi perché neppure fra gli israeliani sia mai apparso - almeno - un De Gaulle (l'unico che forse c'era, Rabin, fu assassinato da un fondamentalista ebreo, non di Hamas). Ma questo è un altro discorso. A me risulta che durante l'apartheid i più grandi scrittori sudafricani - la Gordimer, Breyten Breytenbach, John Coetzee, André Brink per citare solo i più famosi - fossero o in esilio o in carcere e che i loro libri fossero banditi nel Sudafrica segregazionista. Non che andassero in giro per le fiere letterarie all'estero su iniziativa del ministero della cultura di Pretoria per presentare la faccia buona - e perfino critica - del regime di apartheid. Per caso qualcuno sa se Nadine Gordimer sia mai andata - e se sarebbe mai andata - a una qualche fiera del libro sponsorizzata dall'ambasciata di P. W. Botha? Si potrebbe ribattere che proprio questo fa la differenza fra Israele e il Sudafrica bianco. Ma si potrebbe anche controbattere che proprio questo fa la differenza fra gli scrittori «critici» sudafricani di allora e gli scrittori «critici» israeliani di oggi. Perché alla fine la domanda a cui rispondere - a meno di non prendere per buona l'invincibile separazione fra la cultura e la politica che è il succo della lettera della signora Elisabetta Sgarbi della Bompiani - è una, e molto semplice: lo stato di Israele - indipendentemente dal fatto se sia lo stato di tutti gli ebrei - pratica o no una politica colonialista, razzista e di apartheid? Se sì, come si reagisce: con gli attentati, il terrorismo e i kamikaze come fanno i palestinesi ritrovandosi più soli, perdenti (e esecrati) che mai? Con la resa incondizionata allo stato delle cose e ai rapporti di forza? O, esponendosi alle rituali accuse di anti-semitismo, con il boicottaggio, che in fin dei conti è uno strumento pacifico? Io, al contrario dei «nostri» interlocutori, non ho risposte certe. Mi sembra convincente la proposta contenuta nella lettera di Isabella Camera d'Afflitto: seguire la decisione dell'Unione degli scrittori palestinesi e arabi. O se no io proporrei di chiedere agli scrittori israeliani invitati, che rappresentano la faccia «buona» e «dialogante» di Israele - i Grossman, gli Oz, gli Yehoshua -, di farsi carico personalmente di invitare gli scrittori e i poeti palestinesi, come condizione sine qua non per la loro stessa presenza. Sarebbe sempre una finzione di parità, perché la Fiera del libro di Torino (basta andare sul suo sito web per verificarlo, come ricordava Sarfati) resterà sempre la celebrazione concomitante dei 60 anni dello stato di Israele e della «catastrofe» palestinese. Ma almeno sarebbe un passo.

Sempre Il MANIFESTO pubblica le seguente lettera::


Gli interventi di Bertinotti, Fassino, Parlato, insieme a tanti altri esponenti politici e del mondo della cultura hanno fatto chiarezza nel respingere la proposta di boicottare la Fiera del libro di Torino per l'invito a Israele. Tale presa di posizione segna un ulteriore passo verso il superamento di una persistente faziosità nell'ambito della sinistra. Noi respingiamo la proposta di boicottaggio, ma nello stesso tempo riportiamo l'attenzione sullo stallo totale delle trattative tra il governo israeliano e l'Anp. Gli incontri si succedono agli incontri, ma in nessun settore si ravvisa un qualche passo in avanti. Gaza è stata totalmente imprigionata; oltre 170 palestinesi sono stati uccisi negli ultimi mesi, tra questi moltissimi innocenti. Gli ospedali sono stati senza medicine, e perfino l'esportazione del cous cous è stata vietata. Solo l'abbattimento di una parte del muro verso l'Egitto ha consentito alla popolazione di Gaza di poter acquistare indispensabili beni di consumo. Tutto ciò rafforza il fondamentalismo di Hamas e la disperazione degli abitanti di quel ghetto, circa un milione di persone. Inoltre, recentemente la municipalità di Gerusalemme ha autorizzato la costruzione nell'area araba della città di circa 7 mila alloggi in contrasto formale e sostanziale con lo spirito di Annapolis. In questo quadro si registra il drammatico ritorno del terrorismo in Israele, con due kamikaze che hanno provocato la morte di una signora israeliana. Sarebbe importante per tutte queste ragioni, che gli amici del popolo israeliano - e noi vorremmo essere considerati tra questi - in particolare le «storiche associazioni» Sinistra per Israele, Associazione Italia-Israele, affermino il diritto di Israele a partecipare alla Fiera del libro, ma nello stesso tempo spingano il governo israeliano a rispettare gli impegni assunti a Annapolis.
Alberto La Volpe, pres. Associazione nazionale Italia-Palestina Roma

La Volpe dimentica, tra le altre cose, che  l'abbattimento del muro tra Gaza ed Egitto, da lui lodato, ha portato all'ingresso di molti terroristi dal Sinai nel Neghev. Forse i terroristi di Dimona erano tra questi (secondo la rivendicazione di Fatah), o forse provenivano da Hebron (secondo la rivendicazione di Hamas), zona nella quale la barriera difensiva israeliana non è stata ancora completata.
Morale: non è Israele, difendendosi, a non "rispettare Annapolis". E' il terrorismo palestinese, con la sua costante aggressione, a impedire la pace, un accordo e in ultimo gli stessi negoziati.

Per inviare una e-mail alla redazione de Il Giornale, La Stampa, L'Unità, Europa, La Repubblica, Liberazione, Il Manifesto

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