Dal CORRIERE della SERA del 3 febbraio 2008, un intervento di Pierluigi Battista sul boicottaggio alla Fiera del libro di Torino:
No, stavolta bisogna fare barriera. Stavolta non è possibile non avvertire il divario morale tra le immagini ancora fresche del raccoglimento per la Giornata della memoria e l'intimazione al silenzio minacciata contro gli scrittori ebrei.
Stavolta bisogna chiedere ad Abraham Yehoshua, Amos Oz e David Grossman di vincere la loro ritrosia e di sfidare il boicottaggio anti-israeliano alla Fiera del libro di Torino. E alle autorità italiane, ovviamente, di tutelare il loro diritto di parola.
Si comprende lo spirito che ha indotto Giorgio Israel sul Foglio a consigliare a Israele il boicottaggio dei boicottatori, un gesto ascetico e pedagogico di rinuncia che, ricalcando la scelta di Benedetto XVI di non recarsi alla Sapienza, rendesse ancora più evidente il volto intollerante degli imbavagliatori di professione. Stavolta è diverso. Chi protesta perché a Torino saranno presenti gli scrittori israeliani non contesta soltanto il diritto di esprimere un'opinione: contesta loro il semplice fatto di esistere. Considerando Israele come il frutto di una brutale usurpazione, ogni israeliano meriterebbe perciò di essere trattato come un usurpatore. Cancellato. Indegno di esistere. E dunque bruceranno senza pudore, come al solito, le bandiere con la stella di Davide. Accetteranno nelle loro schiere, come al solito, chi si traveste da terrorista, con la cintura esplosiva ben esposta attorno al corpo come quella usata dagli jiahdisti per deflagrare nelle strade di Tel Aviv e Gerusalemme allo scopo di uccidere quanti più «sionisti» (bambini compresi) è possibile.
Qualche anno fa un corteo che si diceva solidale con gli oppressi e i perseguitati del mondo circondò con bastoni e urla raccapriccianti il Ghetto ebraico di Roma, quello dei rastrellamenti del 16 ottobre 1943, destinazione Auschwitz. Non ci fu un grande sdegno, come se quell'episodio rappresentasse qualcosa di sgradevole certo, ma normale. Come è normale bollare i figli di Israele come i «nuovi nazisti» e suggerire spaventose somiglianze iconiche tra la croce uncinata e la stella di Davide. Ecco, non può più essere normale che la semplice presenza degli ebrei di Israele a Torino sia considerata addirittura come un'offesa. Non può più essere normale che una minoranza fanatica disponga del diritto dei torinesi di ascoltare ciò che hanno da dire gli scrittori israeliani.
Non può essere normale che vinca con il suo appello al boicottaggio Tariq Ramadan, ideologo dell'islamismo fondamentalista, un volgare antisemita che dopo l'11 settembre accusò gli intellettuali francesi di essere alla mercé di una «cricca» di ebrei e ciò nonostante viene calorosamente accolto come una creatura esotica nei salotti dell'intellighenzia italiana. Non è normale che il direttore della Fiera del libro torinese Ernesto Ferrero sia costretto a giustificare un atto coraggioso ma che dovrebbe essere, questo sì, considerato persino ovvio: invitare chi scrive libri a una festa del libro. Non è normale che Valentino Parlato sulle colonne del manifesto
venga lasciato solo e insultato perché ha criticato la scelta dissennata di boicottare gli ebrei. Non è normale che uno scrittore come Tahar Ben Jelloun, schierandosi su Repubblica contro il boicottaggio di Torino, inviti a dissociare le responsabilità degli scrittori israeliani da quelle del governo di Israele: loro cui viene concessa la patente d'innocenza, quest'ultimo colpevole per definizione. Colpevole comunque, colpevole di esistere, colpevole di esser nato sessant'anni fa sulla base di una spartizione tracciata dall'Onu per dare una vita a uno Stato nelle cui librerie sono liberamente esposte le opere di Edward Said, l'intellettuale palestinese e anti- israeliano il cui nome è ancora oggi tassativamente proibito a Gaza, dove spadroneggiano gli squadroni di Hamas. Non è normale che si accrediti come paladino della lotta all'oppressione chi non spende una parola per protestare contro gli Stati in cui si fa scempio quotidiano di diritti umani fondamentali. E non è normale che esponenti piemontesi del Pdci e di Rifondazione aderiscano impunemente a questa campagna di intolleranza estranea, ne siamo certi, alla sensibilità di Fausto Bertinotti.
Per questo è un buon segnale che gli organizzatori della Fiera tengano duro, che gli sponsor privati, come ha sostenuto Franzo Grande Stevens, non possano assistere muti a una simile campagna censoria, che le istituzioni di Torino e del Piemonte dicano che non intendono cambiare la loro linea. Per questo il bel gesto della rinuncia stavolta non funzionerebbe. Non servirebbe a rompere l'incantesimo di assuefazione che ha favorito il diffondersi della prepotenza intollerante. Stavolta a Torino gli scrittori, gli israeliani, gli ebrei devono poter parlare.
Da La STAMPA, un intervista di Elena Loewenthal ad Amos Oz:
È appena rientrato ad Arad, la cittadina nel deserto del Neghev dove abita da molti anni. Quando scrive, Amos Oz non si sposta più in là dell’orizzonte di colline nude che accompagnano la sua passeggiata mattutina, puntualmente a ridosso dell’alba. Lui dice che il deserto gli insegna ogni volta qualcosa di importante, che qui in mezzo al niente si misura meglio che altrove il tempo che passa. Ma questa è per il grande scrittore israeliano una stagione «errante», di viaggi, di impegni da dedicare ai lettori sparsi per il mondo. Nei prossimi mesi sarà in Francia, in Russia, in Italia. L’ultimo suo libro è appena uscito Oltralpe con il titolo Vie et mort en quatres rimes. Fra qualche settimana, in tempo per essere «celebrato» alla Fiera del Libro di Torino, apparirà anche in italiano, come di consueto per l’editore Feltrinelli.
La voce di Oz è pacata e solida come sempre: non si scompone di mezzo tono. A dispetto della vita relativamente movimentata di questo periodo, a dispetto degli «scottanti» argomenti di cui si chiacchiera. Non è freddo aplomb, il suo. Non è neppure indifferenza. Amos Oz non è minimamente turbato dal polverone intorno alla Fiera di Torino, per ragioni più serie e profonde.
Amos Oz, che cosa pensa delle proteste di cui è bersaglio la Fiera del Libro di Torino, per il semplice fatto di avere scelto per quest’anno Israele come paese ospite?
«Che cosa penso? Che esistono delle persone così. Fedeli al principio di ”o tu o io”. Ma credo anche che la maggior parte degli uomini abbia una mentalità diversa. È tutta solo questione di essere aperti o no al prossimo. Il discorso è più semplice di quanto non si possa immaginare, in fondo. C’è chi accetta gli altri ed è disposto a parlare con loro. E chi no. Tutto qui».
Il boicottaggio di una fiera del libro è il punto di partenza, ma in fondo anche di arrivo, della negazione. Rifiutare il terreno della letteratura significa veramente non accettare il presupposto stesso della parola: la sua natura di comunicazione. Che cosa ne pensa, in quanto israeliano e scrittore?
«Che non fa per me raccogliere le provocazioni. Non discuto con questo genere di mentalità, che esclude a priori di discutere con me. Come si fa? Vede, la provocazione non mi interessa per una ragione di fondo: perché abbatte la possibilità stessa di un confronto. E prima ancora, perché si pone nella condizione di non ascoltare, che è invece il presupposto fondamentale della conoscenza, della convivenza».
Tariq Ramadan, l’intellettuale arabo-svizzero ospite l’anno passato della Fiera di Torino, ha appena dichiarato che questa edizione, con la presenza di Israele in veste di paese ospite, è da evitare.
«Dica quel che vuole. La sua dichiarazione non riguarda né me né gli scrittori, i lettori e soprattutto i libri che verranno alla Fiera. E saranno tanti sicuramente. Il mondo è fatto di persone così tanto diverse fra loro, che non sento il bisogno di parlare con chi rifiuta a priori il dialogo con me. Questo genere di persone non mi riguarda».
Amos Oz, lei ritiene che la letteratura sia un territorio privilegiato, con delle regole proprie, delle leggi specifiche? In tal caso, questi inviti alla censura di libri e scrittori solo perché vengono da un certo paese, nella fattispecie Israele, risultano secondo lei ancora più gravi proprio perché sono sul terreno delle parole?
«Guardi, molto semplicemente io ritengo che l’unica regola della letteratura sia il confronto. Non mi riferisco soltanto al dibattito culturale o letterario in senso stretto, a libri e scrittori seduti a una tavola rotonda. Intendo qualcosa di più generale e basilare».
Quale la sua idea di letteratura?
«La letteratura è dialogo per antonomasia: dello scrittore con il mondo. Con i personaggi che crea sulla pagina. Dei lettori con lo scrittore. Dei lettori con i personaggi e le storie che essi trovano sulla pagina. È un continuo scambio di conoscenze ed emozioni fra mondi diversi. Distanti. Irraggiungibili a vicenda, se non sulla pagina scritta. E allora, come si fa a boicottare un libro o una letteratura, solo perché viene da un certo paese? Tutto ciò, secondo me, va contro l’essenza stessa di letteratura. Di ogni letteratura, non importa da dove venga. Non riesco proprio a capire cos’abbia in testa chi esclude questo dialogo: in fondo non ci provo nemmeno perché la battaglia è perduta in partenza, perché con il fondamentalismo, anche quello armato di parole, non c’è via di uscita. Il confronto è possibile solo con chi accetta l’idea stessa del dialogo. E rifiutare una letteratura, qualunque essa sia, significa rinunciare a priori al dialogo».
Da La REPUBBLICA un'intervista a Marek Halter di Giampiero Martinotti:
- «Ho sempre paura quando si attaccano gli ebrei perché scrivono». Marek Halter scuote la testa, il suo tono è grave: francese, ebreo di origine polacca, da quarant´anni si batte per la pace in Medio Oriente. Oggi in arriva in Italia per presentare il suo nuovo libro, "La mia ira", pubblicato da Spirali, e la contestazione contro la presenza degli scrittori israeliani alla Fiera del libro di Torino (che in marzo saranno al Salon du Livre parigino) lo lascia allibito.
A cosa ha pensato quando ha saputo delle critiche contro l´arrivo degli scrittori israeliani?
«Mi è venuta subito in mente una cosa: quando si tratta degli ebrei, forse inconsciamente, Tariq Ramadan e gli altri sanno che gli ebrei sono sopravvissuti, perché erano radicati nel Libro. Chateaubriand lo ha raccontato molto meglio di come potrei farlo io, ma il popolo ebraico è sradicato da una terra e radicato nel Libro. Tutti quelli che hanno voluto massacrare gli ebrei hanno cominciato bruciando i loro libri. Mi fa veramente paura vedere gli ebrei attaccati perché scrivono. Che una nazione di sette milioni di abitanti abbia 40 scrittori da esportare è fantastico, bisogna solo rallegrarsene. E bisogna pensare che la maggior parte di loro è critica nei confronti del governo e della sua politica. Per questo mi sembra vergognoso prendersela con gli organizzatori della Fiera. Gli invitati rappresentano prima di tutto la letteratura e la letteratura non ha frontiere, non ha ideologie: non è né palestinese, né araba, né ebrea. E´ letteratura».
Non le sembra che ci sia almeno una cosa che dà forza a chi contesta, anche se con argomenti inaccettabili: ai saloni del libro si invitano cinesi, indiani, tedeschi, francesi, italiani, israeliani, ma mai gli scrittori palestinesi?
«Ha ragione. In un prossimo salone bisognerebbe invitare i grandi scrittori di lingua araba. In tutti i paesi arabi c´è una letteratura che dovrebbe essere rapidamente onorata. E che si tratti di nazioni democratiche o no non ha nessuna importanza: è gente che crea e lo scrittore, per sua essenza, è sovversivo. Prendersela con la letteratura israeliana, che è rinata dalle sue ceneri e che conta tre o quattro nomi che possono aspirare al Nobel, può essere appannaggio solo di idioti o di criminali».
Ma non è forse sbagliata la data, visto che l´invito coincide con il sessantesimo anniversario della creazione di Israele e che i palestinesi aspettano ancora di avere il loro Stato?
«Guardi, io sono stato il primo ebreo ad incontrare Arafat dopo la strage di Monaco di Baviera. Due mesi fa sono andato da Assad, malgrado tutti abbiano messo al bando la Siria. Io voglio la pace in Medio Oriente e incontro la gente che fa la guerra. Virgilio ha detto, non mi ricordo esattamente dove, che in guerra ci sono tre possibilità: o uccido il mio nemico o è lui ad uccidermi oppure tratto con lui. Chi lega l´invito a quaranta scrittori e l´anniversario sbaglia: si celebrano i sessant´anni di uno Stato, non della politica di Olmert. Un tempo, nel mondo arabo c´erano delle correnti progressiste o marxiste che capivano la differenza che esiste tra i popoli e i governi».
Per placare gli animi non si potrebbero invitare a Torino anche degli scrittori palestinesi?
«E´ un´idea sensata, ma occorre separare le due cose, non si devono far concessioni ai fanatici. La letteratura israeliana sarà onorata e merita di esserlo, come quella araba o palestinese. Se ai margini della Fiera si possono organizzare degli incontri fra scrittori israeliani e palestinesi sarebbe stupendo. Molti di loro già s´incontrano spesso».
Non le sembra strano che ci siano queste critiche radicali in Italia, mentre per il salone parigino non c´è traccia di contestazione, malgrado i timori diffusi nel mondo editoriale?
«Per il momento non c´è niente, ma la stampa non ne ha ancora parlato molto. Forse capiterà la stessa cosa anche da noi: la stupidità è universale».
Da LIBERO un articolo di Amy Rosenthal che riporta le opinioni di Abraham B. Yehoshua e di altri:
Abraham Yehoshua La parola ad Abraham Yehoshua, fra gli scrittori israeliani invitati alla prossima Fiera del Libro di Torino (8-12 maggio) contestata proprio perché Israele è ospite d'onore: «Questo boicottaggio è ingiustificato e del tutto inutile.Tra la'la tro, io e tutti gli altri autori israeliani che parteciperanno alla manifestazione abbiamo collaborato per anni con gli scrittori palestinesi al fine di realizzare la soluzione dei "due Stati"». L'autore di "Fuoco Amico" prosegue: «Per questo è un errore protestare contro la nostra presenza. Inoltre, vorrei ricordare a quella parte della sinistra che alimenta la polemica che dovrebbe aiutare culturalmente e spiritualmente entrambi i popoli che in questi giorni sono impegnati nel processo di pace». Ma in Israele c'è anche chi usa toni meno concilianti. Libero ha intervistato quattro intellettuali israeliani: Ruthie Blum, firma del Jerusalem Post; Rami Tal, direttore della importante casa editrice Yediot Books; Anat Berko, ricercatrice dell'Istituto Internazionale per le politiche di Controterrorismo; e Giordana Grego, manager dello "Israel Project", osservatorio dei media israeliani ed arabi. Grego inizia col dirci che «il boicottaggio della Fiera del Libro sia controproducente per i palestinesi. Gli autori israeliani invitati, ad esempio Oz, Keret, Yehoshua e Grossman, sono tutti quanti individui che cercano di mettere in luce anche le tragedie dei palestinesi stessi». E dunque la opposizione di una parte della sinistra italiana «è una colossale dimostrazione di ignoranza. Demonizzano tutto ciò che ha a che fare con Israele e gli israeliani. Se ne fregano se alcuni israeliani si danno da fare per i palestinesi. In realtà non gli interessa un fico secco della cultura israeliana. La sinistra italiana dovrebbe incoraggiare il dialogo con scrittori come questi anche perché giova alla causa palestinese». Rami Tal è d'accordo: «Non c'è dubbio: nessuno degli autori invitati a Torino sostiene posizioni razziste o estremistiche. Sono tutti contrari alla occupazione dei territori, e supportano la soluzione dei "due Stati". Per questo le polemiche sono completamente ingiustificate». Berko non usa mezza misure: «Mi sembra che l'estrema sinistra in Italia si comporti esattamente come i fondamentalisti musulmani. Vogliono tappare la bocca alla gente. Essi non accettano Israele perché è uno Stato pluralistico e democratico. La cultura non c'entra niente in questa storia. Si tratta soltanto di trovare una nuova scusa per attaccare Israele». Rispondendo direttamente a Ibrahim Nasrallah, romanziere, nato nel 1954 in un campo profughi giordano, che ha detto: «Non dialogo con i rappresentanti delle forze di occupazione che massacrano la mia gente a Gaza», Berko, ex tenente colonnello dell'Israel Defense Forces, ricorda che i palestinesi, a Gaza, per due anni e mezzo «hanno avuto una grande opportunità per prendere le distanze dal terrorismo. Ma hanno deciso di continuare una sanguinosa guerra fratricida e contro Israele». E continua: «Come reagirebbero gli italiani se ogni giorno piovesse un missile su Venezia? Accetterebbero la morte dei proprio concittadini?». Ancora: che c'entrano gli scrittori? «Nessuno degli autori israeliani invitati a Torino - dice Berko - rappresenta le forze armate israeliane o il governo di Olmert. La polemica è davvero incomprensibile». Ruthie Blum aggiunge: «Non mi stupisco delle contestazioni. Questo fenomeno riguarda l'antisemitismo mascherato da antisionismo. La prova è che non si fa alcuna distinzione fra ebrei e israeliani con posizioni lontanissime fra loro. Non ce l'hanno con il comportamento e le idee degli ebrei. Gli dà fastidio la loro esistenza». Secondo Blum, la presenza a Torino di Oz, Keret, Yehoshua e Grossman è contestata in quanto «ebrei» e non certo a causa delle loro idee. Grego, riguardo alla questione non ha dubbi: «Il problema è che la sinistra italiana nemmeno si rende conto di quello che fa. Non riesce proprio a capire che il suo atteggiamento irragionevole verso il Sionismo finisce col essere indistinguibile dall'antisemitismo puro e semplice».
Da Il MANIFESTO , un intervento di Marco D'Eramo che si schiera contro il boicottaggio ribandendo un'inusitata quantità di stereotipi antisraeliani (da Israele "stato di apartheid" al "rifiuto del dialogo" imputato agli israeliani che non vogliono discutere con Hamas la propria distruzione, passando per Gaza "lager a cielo aperto")).
Ecco il testo:
È incredibile come due Feste del libro possano diventare terreno di aspro scontro tra esponenti di due religioni del Libro. Eppure è quel che sta succedendo sull'opportunità o meno di boicottare la Fiera del Libro di Torino che si terrà a maggio perché intende avere come ospite d'onore Israele (nel 60.mo anniversario della sua fondazione) e chiama a parlare scrittori come David Grossman, Amos Oz e Abraham Yehoshua. Anche il Salone del Libro di Parigi di marzo ha Israele come ospite d'onore e rischia anch'esso un boicottaggio patrocinato, tra gli altri, dalla scrittrice palestinese Suad Amiry, dall'egiziano Tariq Ramadan, e sulle nostre pagine da Omar Barghouti. Ma non tutti gli intellettuali di origine islamica sono a favore del boicottaggio: contrario è lo scrittore iracheno Younis Tawfik, come il marocchino Tahar Ben Jalloun. Né tutti gli intellettuali ebraici sono contrari: il poeta israeliano Aaron Shabtai rifiuta infatti di partecipare al Salone di Parigi. Frattura anche nella sinistra italiana: il Partito dei comunisti italiani ha promosso il boicottaggio, mentre le ragioni contrarie sono state espresse da Valentino Parlato (pur preso a male parole da parecchi nostri lettori).
Nella forma più drastica, per i boicottatori non può essere posto al centro di un evento culturale l'anniversario di uno stato occupante come Israele (Shabtai): ma nessuno può negare che quell'evento del 1948 ha segnato tutta la storia del secondo dopoguerra. Allora perché rimuoverlo dalla discussione? Nella forma più mite invece, le ragioni possono essere così riassunte: «noi siamo disposti a parlare con gli israeliani, purché siano «buoni» israeliani (cioè filo-palestinesi)» (Barghouti). Tale tesi è straordinariamente simmetrica a quella degli israeliani che rifiutano il dialogo con Hamas perché «non sono «buoni» palestinesi (cioè pronti al compromesso con Israele)». Non si può infatti negare che agli occhi di un ebreo israeliano, Hamas è un interlocutore assai più improponibile di quanto siano agli occhi palestinesi alcuni degni intellettuali come David Grossman o Amos Oz. Che spiriti aperti! «A riprova del mio accettare il dialogo, parlerò con la parte avversa, ma solo con quei suoi esponenti che sono già d'accordo con me!» Come sanno tutti i diplomatici della terra, «è con i nemici che si deve dialogare, con gli amici non ce n'è quasi alcun bisogno».
Si dirà che «Hamas sono i buoni», mentre «gli israeliani sono i cattivi», e che il boicottaggio dell'oppressore non è uguale al boicottaggio dell'oppresso. E si cita il regime dell'apartheid sudafricano. Non c'è dubbio che Israele sta riproducendo i bantustan e che la striscia Gaza è un lager a cielo aperto. Ma le sanzioni contro le squadre della morte di Piet Botha implicavano forse che si impedisse a Nadine Gordimer di esprimersi? Si può mettere sullo stesso piano il blocco delle vendite di armi a un esercito invasore come Tzahal con il rifiuto di far parlare alcuni intellettuali? E, se anche le due azioni fossero considerate simili (ma ce ne passa), pur tuttavia, se si vuole trattare, se come diceva Carl Schmitt, «la politica è l'invenzione del terzo», cioè l'uscita dalla contrapposizione insanabile noi/voi, allora non si può mettere il silenziatore al «nemico».
Sotto l'apparenza di una virtuosa coltre di censura morale, la logica del boicottaggio nasconde in realtà la logica dello sterminio reciproco, cioè il contrario del dialogo. Ogni boicottatore punta in realtà a «buttare a mare» l'altro: come quei membri dell'African national congress che volevano «buttare a mare la tribù bianca». Immaginate se Nelson Mandela avesse praticato questa politica! Per fortuna ha fatto tutto il contrario: ha discusso con i suoi aguzzini e carcerieri, e ha vinto.
Perché la tragica ironia di questa posizione è che con i rapporti di forza dati (sia in loco, sia su scala globale), sono i palestinesi a non avere la benché minima probabilità di buttare a mare gli israeliani, almeno in tempi medi. I tempi lunghi sono un'altra faccenda: è possibile che Israele subisca la sorte dei regni cristiani d'Oriente, stabiliti dai Franchi e dissoltisi al massimo un paio di secoli dopo. Ma «nei tempi lunghi saremo tutti morti», diceva John Maynard Keynes, e prima di allora la logica dell'annientamento parla solo di una Masada versione palestinese.
Che qualcuno possa aspirare al martirio sulla propria pelle, può essere comprensibile, anche se non condivisibile. Ma la pasciuta sinistra europea? Soprattutto m'insospettisce che la prima forma di solidarietà con un popolo oppresso e angariato sia quella di mettere il bavaglio a qualcuno. C'è come un richiamo ancestrale del settarismo: l'idea che essere sempre e comunque faziosi produca esiti positivi, idea che si è dimostrata suicida mille volte negli ultimi 150 anni, e che però continuiamo a riproporre.
Quanto a settarismo, il vero rischio che corre il campo di chi si oppone al boicottaggio è di fare come il cretese Epimenide quando dice che tutti i cretesi mentono. In certe sue espressioni, questo (mio) campo sembra voler anch'esso boicottare tutti i boicottatori (quindi anche se stesso). Invece di disquisire su boicottaggi (per altro senza effetti), non sarebbe più utile premere perché questi eventi diventino occasione di uno vero confronto su quel che ha comportato la nascita dello stato d'Israele, per gli israeliani, gli ebrei della diaspora, i palestinesi, i gentili responsabili dell'Olocausto, il mondo intero? Chi dice che d'Israele possano parlare solo gli ebrei? Gunnar Myrdal diceva che non c'è niente di più desolante di un cantante nero che deve cantare sempre e solo musica soul e di uno storico ebreo che può scrivere solo e soltanto sulla diaspora. Smettiamola con l'acrimonia oscillante tra vittimismo e rancore: sarebbe fantastico se a Torino e a Parigi, sulle conseguenze di quel fatidico 1948 potessero confrontarsi tutti. E Yehoshua parlasse con Amiry, Daniel Baremboim con Tariq Ramadan e Tahar ben Jalloun con Aaron Shabtai.
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