Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Testata:Corriere della Sera - La Stampa Autore: Cristina Taglietti - Francesca Paci Titolo: «Tawfik: arabi, venite a Torino - Muri di parole tra israeliani e palestinesi - “Sì, c’è una sinistra»
Dal CORRIERE della SERA del 29 gennaio 2008:
I l rischio è che finisca come prevede Younis Tawfik, scrittore iracheno trapiantato a Torino: «La Fiera del libro diventerà un'arena politica, un luogo di scontro. E addio alla letteratura ». Già, perché l'idea di invitare Israele come Paese ospite continua a suscitare polemiche. Dopo le proteste dei Comunisti italiani, che hanno diviso la sinistra, ieri l'Unione degli scrittori arabi ha inviato una lettera all'Unione degli scrittori italiani chiedendole di chiarire la sua posizione a proposito della partecipazione israeliana al Salone. Un'iniziativa di cui in Fiera nessuno è al corrente. «In ogni caso — dice il direttore Ernesto Ferrero — a me non resta che ribadire quanto ho già detto in altre occasioni: questo è un salone del libro, non sono le Nazioni Unite, non è una sede politica. Gli scrittori che abbiamo invitato (tra i quali Grossman, Yehoshua, Oz, ndr) sono libere personalità, spesso critiche nei confronti del loro governo. Che siano altri scrittori a pronunciarsi contro il loro diritto di parola, mi sembra davvero incredibile». Mohamed Salmawy, presidente dell'associazione araba, ha sostenuto che, visto l'attuale assedio imposto da Israele alla Striscia di Gaza, la scelta del Paese come ospite d'onore costituisce una provocazione nei confronti degli arabi, che «reagiranno in qualche modo». Un'iniziativa «poco diplomatica, inadeguata, controproducente » secondo Younis Tawfik che, oltre a essere uno scrittore ( La straniera, Il profugo, La pietra nera), è docente di Letteratura araba e membro della Consulta islamica. «La protesta è nata due settimane fa da un gruppo di intellettuali giordani contro il fatto che, all'interno della Fiera, si celebrassero i sessant'anni della nascita dello Stato di Israele. Poi si è allargata. Noi arabi siamo sempre pronti a bruciare le bandiere, a fare grandi manifestazioni di protesta che hanno esattamente l'effetto contrario di quello che vogliamo». Allo stesso modo, secondo Tawfik, il boicottaggio non serve né alla causa palestinese né alla causa araba. «L'unico effetto sarà la solidarietà allo Stato di Israele, più controlli di sicurezza, discussioni infinite soltanto su questo. Io farei il contrario: parteciperei alla Fiera, parlerei con gli israeliani, cercherei il dialogo. Anche perché l'anno prossimo l'ospite sarà l'Egitto. Che cosa devono fare gli scrittori israeliani? Boicottarlo? ». Oltretutto Salmawy ha minimizzato il rilievo della manifestazione torinese, definendola una «piccola fiera» non paragonabile a Francoforte, New York, Montreal, Il Cairo. Il pericolo, secondo lui, è che la designazione torinese possa portare a inviti simili da parte di altre istituzioni, di livello più elevato. «Non mi sembra molto informato — ribatte Ferrero — Torino fa 300 mila visitatori. Montreal non più di 80 mila».
Da La STAMPA, un articolo di Francesca Paci:
Gli scaffali dell’Educational Bookshop di Salah Eddin Street, l'unica libreria di Gerusalemme Est, sono una finestra sullo Zeitgeist, l'umore intellettuale della zona palestinese della città. In questi giorni espongono la traduzione araba di Life di Paolo Coelho, Senza sangue di Baricco, una copia della Divina Commedia. Titoli israeliani neppure a parlarne, a eccezione del classico di Benny Morris The Birth of the Palestinian Refugee Problem e qualche saggio dei nuovi storici alla Ilan Pappé. Nulla dell'ebreo iracheno Sami Michael, la più araba delle penne israeliane, il cui romanzo Victoria (pubblicato in Italia dalla Giuntina) si vende a Baghdad. In compenso, sommerso da riviste e fogli periodici, c'è un volantino contro i 60 anni d'Israele firmato «The Palestinian Campaign for Academic and Cultural Boycott of Israel», una delle prime sigle a boicottare la Fiera del Libro di Torino. «I media non ne parlano ma queste notizie circolano per altri canali» osserva la scrittrice palestinese Suad Amiry. Da settimane riceve email che le chiedono di prendere posizione. Tra internazionalismo letterario e identità nazionale, spiega l'autrice di Sharon e mia suocera (Feltrinelli), un palestinese non ha scelta: «Nessun problema con l'intellighenzia israeliana, conosco Grossman e Yehoshua. Ma invitarli come ospiti d'onore nel 60° anniversario dell'indipendenza d'Israele è una provocazione. Significa celebrare il '48 ignorandone l'altra faccia, la nostra». La Fiera del Libro si è cacciata in un ginepraio, ammette la Amiry: il labirinto di specchi israelo-palestinese in cui l'identità di un popolo riflette quella dell'altro. L'unica via d'uscita è a doppio senso: «Devono chiamare anche noi». Peccato che gli organizzatori torinesi ci abbiano provato, invano. L'invito per Ibrahim Nasrallah, romanziere nato nel '54 in un campo profughi giordano, è tornato al mittente con due righe di scuse: «Non dialogo con i rappresentanti delle forze di occupazione che massacrano la mia gente a Gaza». Proprio come il poeta israeliano Aharon Shabtai, che dopo il Salone di Parigi diserta Torino: «Uno Stato che commette giornalmente crimini contro civili non merita settimane culturali». Il conflitto israelo-palestinese si combatte sul terreno, tra gli ulivi che disegnano confini mobili, all'Onu, in libreria. Amos Oz e gli scrittori israeliani che hanno dedicato tomi al cessate il fuoco, avanguardia di un Paese in trincea, scoprono di apparire comunque armati agli occhi dei colleghi palestinesi, talvolta più intransigenti dei politici di Ramallah. Così, mentre il presidente palestinese Abu Mazen incontra il premier israeliano Olmert ogni settimana, il suo connazionale Mahmud Darwish, massimo esponente della lirica palestinese, non vuol trascorre nemmeno un'ora con chi verseggia in ebraico. «Se mi invitassero a Torino rifiuterei» ammette l'autore della raccolta Murale (Epoché), ospite della Fiera del Libro nel 2007. «L'edizione di quest'anno è ipocrita e mi dispiace, amo l'Italia. La nascita d'Israele per noi è la Nabka, la catastrofe. Non ho niente da dire ai suoi cantori». Etgar Keret invece vorrebbe parlargli. Non si sente il cantore di nulla. Il suo romanzo, Pizzeria Kamikaze (ed. e/o), narra il destino che condivide con Darwish e questa terra: «Gli intellettuali israeliani, di solito, sono il fronte del dialogo. Non capisco perché boicottarci». Accade sovente: «L'anno scorso ero in Norvegia per un premio e due palestinesi non volevano sedermi accanto. Ho insistito e siamo diventati amici». A volte capita: Etgar Keret e Samir el Youssef hanno scritto un libro a quattro mani, Gaza Blues (e/o). Altre volte le affinità elettive cozzano con i muri invisibili dell'ideologia. Quattro mesi fa l'attore egiziano Amr Waked è stato espulso dal sindacato dello spettacolo del suo Paese per aver recitato accanto all'israeliano Igal Naor nel serial inglese sulla vita di Saddam. Stessa sorte toccata nel 2001 al drammaturgo Ali Salem, depennato per «attività di normalizzazione culturale»: aveva visitato Israele e pubblicato un diario di viaggio. «Sembra il mondo alla rovescia, i politici provano a ragionare e gli scrittori si dividono» lamenta l'israeliano Abraham Yehoshua, mai tenero con il suo governo sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Dal 1979 il Cairo ha rapporti diplomatici con Israele e dal 1994 ne ha Amman. Eppure il presidente della Lega degli scrittori giordani Saud Qubaylat ha lanciato il boicottaggio delle Fiera di Torino denunciando l'Italia che «tradisce gli amici arabi». Una trama più annodata del Signor Mani, l'epopea di Yehoshua: «Stiamo negoziando con i palestinesi, che senso ha metterci il veto? Mi addolora che gli scrittori si dimostrino più estremisti dei capi di Stato». La Fiera di Torino diventa il simbolo della speranza di pace che muore al di là del Mediterraneo: la delusione seguita al vertice di Annapolis, la crisi di Gaza, l'atmosfera tesa che da Gerusalemme arriva agli stand del Lingotto. Un presagio grave. Secondo la cinquantaduenne Nava Semel, «solo i libri possono permettere a questa terra di contenere due Stati, due popoli, due narrative». I suoi racconti per ragazzi, ambientati a Tel Aviv, sono tradotti da Mondadori. A Torino, insiste, si gioca una battaglia decisiva: «Il boicottaggio deve perdere perché è un atto codardo che sottrae alla responsabilità del confronto». Negare l'altro è uccidere la letteratura, sostiene Ron Leshem, 31 anni, enfant prodige dell'accademia israeliana. Dal suo romanzo d'esordio sul ritiro dal Libano il regista Joseph Cedar ha tratto Beaufort, il film candidato all'Oscar. L'intellighenzia araba, dice, si fregia di non riconoscere Israele: «Di solito gli intellettuali del Cairo, Damasco, Amman sono pieni di pregiudizi, chiusi, ignorano quanto potrebbe essere fertile un linguaggio comune». Su questo la palestinese Suad Amiry la vede come lui, «possiamo arricchirci a vicenda». Sin da Torino? La Amiry nicchia: «Avrebbero dovuto invitarci dall'inizio, ora è dura, qualsiasi palestinese accettasse sarebbe boicottato a sua volta». Sì o no? «Che mi convochino e vedrò». La storia infinita del Medio Oriente.
E un'intervista a Valentino Parlato:
Il j’accuse di Valentino Parlato ha scatenato un pandemonio a sinistra. All’articolo del fondatore del Manifesto contro il boicottaggio della Fiera del Libro hanno risposto una valanga di lettori convinti che «uno Stato occupante» non meriti un evento culturale. Specialmente se si tratta dello Stato ebraico. Parlato, viste le reazioni al suo editoriale si direbbe che l’antisemitismo di sinistra esiste. «Certo che esiste, è una delle conseguenze della nascita dello Stato d’Israele. Fino a quel momento l’intelligenza di sinistra era stata assolutamente filoebraica, poi le cose sono cambiate». Perché? «La creazione dello Stato d’Israele si porta dietro alcune contraddizioni, per un verso tradisce l’ebraismo. Un vero Stato degli ebrei non è mai esistito. Gli ebrei sono per definizione la diaspora, che è stata una grande risorsa intellettuale». Ora invece subiscono il boicottaggio intellettuale. «Sono contrario al boicottaggio della letteratura israeliana che è l’espressione della persecuzione subita dagli ebrei. E i palestinesi, a loro volta, sono in qualche misura gli ebrei del mondo arabo, sempre ghettizzati dai fratelli giordani, siriani, egiziani. Dovremmo incoraggiarli a parlare insieme, discutere, polemizzare». Molti lettori del Manifesto dissentono. Si sente isolato? «Su questa storia sì, mi sento isolato. Il Manifesto rispecchia le tante anime della sinistra e ci sono anche anime fondamentaliste palestinesi». L’antisemitismo non era una cosa di destra? «La questione israeliana ha preso il sopravvento sulla questione ebraica e questo è un grave errore. La prima è geografica e politica, la seconda universale. Questa sovrapposizione di piani provoca tra l’altro un irrigidimento della società israeliana. Una volta un ambasciatore israeliano mi disse che si sentivano come i crociati: quando erano cattivi erano anche rispettati, appena avevano mollato un po’, gli arabi li avevano sopraffatti. La paura in fondo è anche comprensibile, la guerra dei Sei giorni fu opera di Nasser, un egiziano democratico che voleva distruggere Israele».